Breviario di internazionalismo.
Le metamorfosi del nazionalismo e dell’internazionalismo, da Kant alla "rivoluzione della questione militare". Basi sociali, forme ideologiche e geopolitica. Di Perry Anderson. Dalla New Left Review marzo-aprile 2002. Traduzione di Nicoletta Elli. Pubblichiamo questo testo sulla questione nazionale: non siamo d'accordo su tutte le posizioni che esprime, ma ci pare un utilissimo contributo al dibattito. Settembre 2002.


Poche nozioni politiche sono al tempo stesso così normative e così equivoche quanto l’internazionalismo. Al giorno d’oggi, i colloqui ufficiali dell’Occidente risuonano di appelli che fanno riferimento ad un termine che è stato a lungo prerogativa della Sinistra. Qualsiasi senso gli si voglia attribuire, il significato di internazionalismo deriva logicamente dalla concezione di nazionalismo, dato che può avere valore solo come retro-costruzione del proprio opposto. Tuttavia, mentre il nazionalismo è, fra tutti i fenomeni politici moderni, il più contestato in termini di principio (i giudizi in merito differiscono a 180 gradi, dall’ammirazione all’anatema) questa specie di schizofrenia non colpisce l’internazionalismo: le sue implicazioni sono di fatto sempre positive [1]. Ma il prezzo dell’accettazione consiste di indeterminazione. Se nessuno ha dubbi circa il nazionalismo, ma sono in pochi a convenire circa il valore, all’inizio del terzo millennio la status dell’internazionalismo sembrerebbe essere l’opposto. In molti ne acclamano il valore, ma chi è in grado di identificarlo senza dubbio come una forza?

Questo paradosso cela una storia. Fu Masaryk, grande leader nazionalista, a suggerire per la prima volta la definizione più chiara e semplice di nazionalismo. Era sua opinione, dissociandosi egli stesso, che nazionalismo volesse dire qualsiasi azione che conferisse alla nazione il più alto valore politico. [2] Ciò non significa che i suoi sostenitori debbano in ogni circostanza o in ogni contesto, pensare sempre e solo alla nazione, escludendo altre identità (in qualsiasi situazione, la portata della sua rilevanza è variabile). Con queste premesse, la formula ci fornisce una definizione equivalente di internazionalismo sufficientemente minimale e neutra da consentire che sia venuta meno una ricostruzione empirica della sua esistenza. Storicamente, il termine può essere applicato a qualsiasi azione, o prassi, che tenda a trascendere il significato di nazione a favore della comunità, di cui le nazioni continuano a formare l’unità principale.

Il vantaggio di una definizione pragmatica di questo tipo sta nel fatto che si possono eliminare una serie di preconcetti convenzionali circa il nazionalismo e l’internazionalismo, e si possono suggerire modalità più sistematiche di interrelazione tra i due termini. Sin dal tempo della prima comparsa in forma moderna dei due termini, circa duecentocinquanta anni fa, entrambi hanno subito una serie di metamorfosi. Come possiamo spiegare al meglio queste trasformazioni? Più avanti nel saggio suggerisco una periodizzazione. L’insidia di qualsiasi suddivisione del tempo storico in sequenze categoriche è ovvia. In un modo o nell’altro, la periodizzazione implica sempre una semplificazione arbitraria, al punto che alcuni degli storici più illustri vorrebbero ripudiarla in toto come procedura. Ma è più facile dirlo che farlo. In un’opera di prossima pubblicazione, Fredric Jameson ha giustamente osservato che, in qualità di persone narranti, abbiamo poche possibilità: "non possiamo non periodizzare". [3]

Lo schema che qui viene definito è confinato in poche notazioni telegrafiche. Lo scopo è quello di definire le interrelazioni tra nazionalismo ed internazionalismo come successione di fasi intelligibili, definite da alcune dominanti. Il termine reca in sé i propri limiti: ciò che è "dominante" non comprenderà mai la fase in questione, ma rappresenterà piuttosto le forme più nuove e salienti di qualsiasi periodo, che conterranno sempre una serie di contro-correnti e sotto-movimenti che devono essere lasciati da parte provvisoriamente in nome della semplificazione. La procedura adottata sarà quella di contrapporre le mutevoli versioni storiche dell’internazionalismo alle successive idealizzazioni del nazionalismo a cui si potrebbero storicamente far corrispondere, seguendo cinque coordinate: 1) il tipo di capitale coevo, o in cui è attivo, a ciascuna delle successive varianti del nazionalismo; 2) la zona geografica principale del nazionalismo in questione; 3) l’ideologia filosofica prevalente; 4) la definizione operativa di nazione; 5) la relazione di un particolare nazionalismo alle classi dominanti. La premessa relativa allo schema è utile in quanto la storia dell’internazionalismo si può tracciare in modo migliore facendola corrispondere alle coordinate del nazionalismo. In ogni periodo, si sono verificati diversi tipi di nazionalismo e di internazionalismo, e sono sempre esistiti conflitti significativi fra di essi, così come all’interno degli stessi. Ciononostante, in questa matassa aggrovigliata, è possibile individuare un filo conduttore.

1
Le origini del moderno sentimento nazionalista, come forza secolare, risalgono al XVIII secolo. Fu allora che ebbero inizio le due grandi rivoluzioni che diedero vita al primo concetto ideologico di nazione, così come intendiamo il termine oggigiorno, ovvero la rivolta delle colonie del Nord America contro gli inglesi e il rovesciamento dell’assolutismo in Francia. Le Rivoluzioni Americana e Francese, che di fatto hanno abbozzato l’idea di una nazione in termini di collettività popolare, erano i prodotti di due società fra le più avanzate del tempo: le loro ideologie hanno causato una rottura consistente con le visioni del mondo che avevano ispirato le prime rivoluzioni europee, nei Paesi Bassi nel XVI secolo e in Inghilterra nel XVII secolo, sommosse queste di natura religiosa, fatte in nome di Dio, piuttosto che nel nome del popolo. Le Rivoluzioni Americana e Francese si sono verificate in un periodo anteriore alla Rivoluzione Industriale, in cui il capitale continuava ad essere prevalentemente di derivazione commerciale o agraria. Proprio per questa ragione, le elite del tempo erano in grado di mobilizzare produttori diretti nelle città e nelle campagne, ciò significa masse popolari composte prevalentemente da artigiani o coltivatori. Non si era ancora verificato il fattore dell’abisso sociale tra produttori e lavoratori che le industrie avrebbero in seguito generato. Un’unica categoria poteva ipoteticamente comprendere tutte le categorie, le classi predominanti e le classi subordinate, nell’accezione di patriottismo. I militanti delle battaglie dei futuri Stati Uniti d’America e in Francia si definivano "patrioti", termine ispirato all’iconografia e alle leggende delle antiche repubbliche: Atene, Sparta, Roma.

Qual era l’ideologia filosofica di questo nuovo patriottismo? Era il razionalismo caratteristico dell’Illuminismo, i cui rappresentanti più eloquenti (Rousseau, Condorcet, Paine, Jefferson) misero in competizione la ragione comune contro la tradizione, la volontà collettiva contro il peso inerte delle abitudini. La definizione dominante di nazione in questo periodo era essenzialmente politica, vale a dire che rappresentava un ideale del futuro, non un legame con il passato. La nazione era qualcosa che i liberi cittadini avrebbero creato: non esisteva prima del loro intervento come fattore perenne ma sarebbe emersa come nuovo tipo di comunità, basata sui diritti "naturali" piuttosto che sui privilegi e sulle restrizioni "artificiali" e in cui la libertà sarebbe stata intesa come partecipazione civile nella vita pubblica nel vero senso del termine.

Una delle caratteristiche più rilevanti di questo patriottismo illuminista era costituito dal suo universalismo. Presupponeva infatti un’armonia fondamentale tra gli interessi delle nazioni civilizzate (il popolo non civilizzato era un’altra questione), tutti potenzialmente uniti in una lotta comune contro la tirannia e la superstizione. Emblematica di questo razionalismo ottimistico fu la tesi delineata da Kant nel saggio Per una pace perpetua, ovvero che la rivalità tra i principi era l’unica causa delle guerre e che una volta che le ambizioni reali fossero state relegate al passato, con il diffondersi delle costituzioni repubblicane, i popoli d’Europa non avrebbero avuto più alcun motivo per combattersi l’un l’altro. In questa epoca, gli ideali del patriottismo e del cosmopolitismo marciavano insieme; sul piano dei valori, non vi era alcuna contraddizione tra di essi. Non solo sul piano dei valori bensì, in buona misura, sul piano della vita e delle azioni. Basti pensare al ruolo giocato da Lafayette nella guerra di indipendenza del Nord America e nella Rivoluzione Francese, o al ruolo di Paine a Philadelphia e a Parigi, come autore di pamphlet per le Tredici Colonie e deputato per la Gironda nella Convenzione [4]. Più a sud, nella zona che fu maggiormente influenzata dalle sommosse nord americane e francesi, i Liberatori delle guerre di indipendenza nell’America spagnola (Bolivar, Sucre, San Martin) combatterono, non solo per le proprie province ma in tutto il continente, per emancipare le terre vicine e lontane, in uno spirito di fraternità regionale.

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Il ciclo ispano-americano di lotte durò fino alla terza decade del XIX secolo. Allora, nella stessa Europa, il patriottismo e il cosmopolitismo di stampo illuminista erano già stati fatti fuori dalla corruzione degli ideali dovuta all’espansionismo militare napoleonico. La lotta contro il Primo Impero aveva prodotto versioni controrivoluzionarie del patriottismo e del cosmopolitismo: la resistenza nazionalista, di impronta conservatrice o clericale, all’aggressione francese in Spagna, Germania e Russia e l’accordo internazionale dei monarchi europei del periodo della Restaurazione. Sono i primi esempi di una serie di sottodominanti che costellano la sequenza delle fasi da considerare.

Ma il mondo che si riunisce al Congresso di Vienna, vigilato dalla Santa Allenza, prestava ancora obbedienza agli antichi principi. Contro gli anciens régimes che continuavano ad invocare legittimità dinastica e si basavano sulla fede religiosa, nacque presto una nuova configurazione, ciò che per la prima volta possiamo definire, con una punta di anacronismo, "nazionalismo", distinto dal patriottismo. [5] Il termine è nato come espressione dell’aspirazione delle classi possidenti a formare il proprio stato in un mondo sempre più dominato dalla Rivoluzione Industriale, ma in cui si trovavano ad abitare zone meno sviluppate dell’originale epicentro britannico. Queste erano classi impegnate ad emulare gli stati industriali leader del momento. Le nazioni maggiormente impegnate in questo nuovo tipo di nazionalismo erano Belgio, Germania, Italia, Polonia e Ungheria. L’ideologia retorica proveniva dal romanticismo europeo e fra i maggiori esponenti vi erano i Petöfi, i Mickiewicz e i Manzoni del momento. Questi personaggi avevano introdotto il culto del passato medioevale o pre-moderno dei propri paesi, in un’operazione intellettuale che invertiva il razionalismo patriottico che li aveva preceduti. Per il nazionalismo romantico, la definizione essenziale di nazione non era più politica ma culturale, e il termine di confronto sarebbe stato il linguaggio, come trascrizione accumulata dell’esperienza delle passate generazioni.

Il profeta della convalida della particolarità culturale è stato Johann Gottfried Herder. Ma se il nazionalismo romantico che fiorì in Europa tra la terza e la settima decade del XIX secolo capovolse molte delle caratteristiche del patriottismo di prima maniera, esso ne condivideva le intuizioni più importanti. Esaltando la cultura tedesca, Herder, che proveniva dal Baltico, non disprezzava la vicinanza con la cultura slava ma, anzi, ne acclamava il diritto al retaggio distintivo. L’approccio del nazionalismo romantico non era più cosmopolita ma, apprezzando la diversità culturale in quanto tale, difendeva tacitamente un tipo di universalismo differenziato. Politicamente, se le sue prime conquiste furono le rivoluzioni greca e belga che distrussero la pace della Restaurazione, la sua espressione più grandiosa fu la "Primavera dei Popoli" del 1848. Il concatenarsi delle sommosse rivoluzionarie che sconvolsero l’Europa in quell’anno associavano in tutto il continente un fermento nazionalista al contagio internazionalista, con barricate che furono erette da Parigi a Vienna, da Berlino a Roma, da Milano a Budapest. Se in Italia, Germania e Ungheria predominavano le lotte per l’unità nazionale o l’indipendenza, il 1848 fu anche, naturalmente, un anno di mancate rivoluzioni liberali e l’anno che vide l’inizio delle lotte rivoluzionarie socialiste, annunciate dal Manifesto del Partito Comunista.

La sovrapposizione non era accidentale. Le forme di internazionalismo che corrispondevano al nazionalismo romantico trovarono la loro collocazione simbolica nella Prima Internazionale. Se domandiamo: quali furono le basi sociali di questa Internazionale e delle insurrezioni popolari del 1848, la risposta è chiara. Non si trattava di proletariato ma di artigiani dell’era pre-industriale. Una classe in possesso dei propri mezzi di produzione, attrezzi e capacità, con un alto livello di preparazione, localizzata in prossimità dei centri urbani delle capitali e, in ultimo ma non meno importante, geograficamente mobile, una mobilità caratterizzata dai famosi viaggi di giovani apprendisti nei propri paesi o all’estero. Nel 1848 a Parigi si trovavano circa 30.000 artigiani tedeschi, tanto è vero che Heine affermava che si sentiva parlare tedesco in ogni angolo di strada. A Londra, Marx ed Engels stavano scrivendo il Manifesto per i lavoratori tedeschi che si trovavano in Inghilterra. Berlino pullulava di artigiani polacchi o svizzeri, mentre Vienna di cechi o italiani. Alla riunione in cui fu fondata la Prima Internazionale, Marx venne accompagnato da un falegname e da un calzolaio. In altre parole, era una formazione caratterizzata dalla combinazione paradossale di radicamento sociale (che comprendeva una certa sicurezza culturale e un senso di alta politica) e di mobilità territoriale (compresa la possibilità di un’esperienza diretta di vita all’estero, e senso di solidarietà tra lavoratori). Fu questa la configurazione, sulle barricate del 1848-49, che consentì il passaggio dalle lotte nazionali a quelle internazionali e dalle lotte internazionali a quelle sociali. Il personaggio più emblematico è stato Giuseppe Garibaldi, il cui padre era un piccolo pescatore e che cominciò la vita lavorativa come marinaio. Egli si convertì agli ideali internazionalisti, che rappresentano la sua prima fede politica, grazie ad un gruppo di esuli sansimoniani, deportati dalla Francia su una nave in cui Garibaldi prestava servizio [6].

Garibaldi divenne in seguito l’eroe militare e politico della Repubblica Romana del 1848, impersonando il lato più generoso del nazionalismo italiano del Risorgimento. Dopo la sconfitta della Repubblica, combatté per una decina di anni per le cause progressiste dell’America Latina, del Brasile e dell’Uruguay, dove un tempo aveva prestato servizio come capitano di lungo corso, prima di tornare in Italia per guidare la spedizione che liberò la Sicilia e la Calabria dal giogo borbonico, concretizzando l’unificazione nazionale italiana. La sua carriera, tuttavia, non finì qui. Nel 1860 Lincoln lo invitò a prendere il comando dell’esercito nordista durante la guerra civile americana, proposta che egli rifiutò sospettando che Lincoln non fosse contrario alla schiavitù. Accettò invece il posto di generale offertogli dalla Francia nel 1871, in difesa della III Repubblica minacciata dalle truppe tedesche, e fu eletto deputato dell’Assemblea Nazionale da tre città francesi. Dopo la Comune di Parigi aderì pubblicamente alla Prima Internazionale, con grande disappunto di Mazzini. Nella figura storica di Garibaldi possiamo vedere racchiusi i migliori valori propri della classe produttrice europea, in cui gli impulsi nazionali ed internazionali coesistevano senza attrito.

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A partire dal 1860 le classi possidenti abbandonarono il nazionalismo romantico a cui avevano un tempo aderito o, nel caso di Piedmont, lo manipolarono, quando i proprietari terrieri europei e i commercianti portarono a compimento l’ultimo episodio di rivoluzione borghese dall’alto, piuttosto che dal basso, con l’irreggimentazione ed il serrato controllo politico alla base dell’unificazione bismarckiana della Germania. In seguito, la forma dominante di nazionalismo nei paesi occidentali cambiò radicalmente. Ora, per la prima volta, il vero sciovinismo [7], a lungo rimasto in incubazione nell’immaginario sociale, divenne un’allocuzione diffusa nei principali stati industrializzati: Gran Bretagna, Stati Uniti, Francia, Germania e Italia. Questo fu il tempo di politici quali Chamberlain, Ferry, Bülow, McKinley, Crispi. Il capitale in queste nazioni andava concentrandosi sempre più nelle grandi imprese, alla ricerca di un controllo monopolistico dei mercati interni o di annessioni coloniali, scenario tratteggiato da Hobson e Hilferding. Lo sciovinismo che accompagnava e assicurava questo nuovo tipo di espansionismo derivava il proprio lessico dal darwinismo sociale. L’ideologia intellettuale era essenzialmente positivista e la sua definizione di nazione sempre più etnica, vale a dire che consisteva di una miscela di elementi culturali e fisici, notevolmente meno idealizzato del suo predecessore. Dichiarando relazioni tra i popoli come se si trattasse di "sopravvivenza dei più forti", questo tipo di nazionalismo dal grande potere, o dal mancato grande potere, di cui vi erano svariati riflessi anche al di fuori del centro del sistema, in Messico o in Argentina, per la prima volta diffuse un’ostilità diretta verso le altre nazioni, o gli altri popoli. Lo sciovinismo della Belle Epoque era un discorso imperialista di superiorità. [8] Le sue funzioni erano duplici. Da un lato serviva a mobilizzare le popolazioni di tutti gli stati per intensificare la competizione inter-imperialista del periodo, e per condurre le conquiste coloniali, dall’altro serviva ad integrare le masse nel modello capitalistico, al tempo in cui il suffragio cominciava ad essere esteso ai settori della classe operaia. Lo sciovinismo imperante operava per neutralizzare i rischi dell’estensione del voto, trasferendo le tensioni sociali dall’antagonismo di classe a quello nazionale. Non è un caso che gli artefici della riforma elettorale in questo periodo fossero anche fomentatori del nuovo sciovinismo: Disraeli in Inghilterra, Bismark in Germania e Giolitti in Italia.

Se invece chiediamo quale fosse la forma dominante di internazionalismo in questa fase, la risposta, senza dubbio, la si ritrova nella Seconda Internazionale dei partiti socialisti [9]. Questa era la prima volta che si assisteva ad una forma di internazionalismo direttamente opposta al tipo dominante di nazionalismo, non più complementare ad esso, come nel passato, ma antitetico. Vista da lontano, questa Internazionale possedeva una struttura molto più grandiosa della precedente, con più partiti, più membri, più operai veri. Ma le apparenze si sono mostrate ingannevoli. In realtà, la modifica della base sociale del nuovo conglomerato non aveva rafforzato l’Internazionale. Questo a causa del fatto che i nuovi proletari industriali del tempo erano classicamente definiti da una costellazione di caratteristiche la cui simmetria era strutturalmente meno favorevole nei confronti della resistenza alle dottrine dello stato di quella degli artigiani europei di metà secolo. In gran parte, i nuovi lavoratori erano parcheggiati nelle fabbriche e nelle miniere delle province, lontano dalle capitali della politica dei relativi paesi, in Inghilterra o in Francia settentrionali o nella Ruhrgebiet della Germania. Non possedevano alcun mezzo di produzione, né la cultura e la tradizione di combattività dei vecchi artigiani. La loro situazione poteva essere definita diametralmente opposta a quella dei loro predecessori: una combinazione di immobilità territoriale e di sradicamento sociale. Il risultato fu un più profondo e più efficace sostegno di questa classe all’imperialismo, con le sue proiezioni di una comunità immaginaria formata dalla nazione in quando grande forza, di quanto Marx o qualsiasi altro socialista della generazione precedente potessero immaginare. La conseguenza fu la commistione di passività popolare e di entusiasmo che salutò lo scoppio della Prima Guerra Mondiale nel 1914. Quando le ostilità ebbero inizio, i partiti socialisti dell’Europa occidentale, tradendo le più solenni promesse, ad eccezione del partito socialista italiano, si gettarono nella carneficina dei popoli. Le radici storiche di questa corsa al massacro non sono ascrivibili alle sole decisioni dei leader di questi partiti, ma al contesto sociale del giovane proletariato dell’epoca.

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Se lo scoppio del conflitto inter-imperialista seppellì le pretese della Seconda Internazionale, la fine della guerra ridefinì ancora una volta le forme ascendenti del nazionalismo e dell’internazionalismo. In mezzo a depressioni economiche e crisi senza precedenti, il capitale si mosse verso forme ancora più avanzate di concentrazione: non più in un contesto di libero commercio internazionale e boom a lungo termine, ma piuttosto in una situazione di recessione, protezione ed autarchia. In questa congiuntura, la zona geografica che produsse il tipo dominante di nazionalismo era situata all’interno dei quei poteri che furono sconfitti nella prima Guerra Mondiale, ovvero Germania, Italia, impero austro-ungarico e Giappone. In questi paesi la forza emergente era il fascismo. Prendendo a prestito l’ideologia non dal positivismo ma dall’irrazionalismo moderno (Sorel e Gentile in Italia, Nietzsche in Germania, le dottrine del kokutai in Giappone) il fascismo alla fine arrivò a definire la nazione come una comunità biologica: la razza. Con questa definizione la riduzione del contenuto ideologico della nazione era stata brutalmente completata. In questo senso, il fascismo è stato uno sciovinismo imperialista elevato alla massima potenza, che ha scatenato un fanatismo reazionario senza precedenti. Di nuovo, la sua funzione fu duplice. In primo luogo serviva a mobilizzare le classi subordinate contro i vincitori della Prima Guerra Mondiale per condurre il secondo round di competizioni inter-imperialiste, in cui le nazioni sconfitte o frustate sarebbero risultate vittoriose questa volta. In questo senso, il motivo ideologico conduttore era rappresentato dalla compensazione e dalla vendetta. Allo stesso tempo, la nazione fungeva da meccanismo contenitivo delle masse laddove la democrazia parlamentare stava vivendo un momento di crisi irreversibile ed ampi strati della classe lavoratrice si stavano orientando verso un socialismo rivoluzionario. Le due funzioni erano strettamente intercorrelate, in quando erano proprio i sentimenti di sconfitta e di disappunto relativi alla Prima Guerra Mondiale a minare la stabilità della democrazia capitalistica, rendendo necessario il ricorso ad una coartazione controrivoluzionaria. Il progetto fu quasi per essere realizzato. Alla fine del 1914 tutta Europa, dal Canale della Manica al Mar Baltico, era integrata in un ordine fascista, mentre nell’Estremo Oriente il Giappone dominava uno spazio ancora più vasto. Ma il fascino del fascismo non era confinato a queste sole zone: in America Latina, le tre esperienze politiche più importanti (l’Estado Novo in Brasile, il peronismo in Argentina e gli albori del Movimiento Nacionalista Revolucionario in Bolivia) erano tutte attratte dal suo campo magnetico [10].

Nel frattempo, così come lo sciovinismo generato dal capitale si era radicalizzato nel fascismo, anche l’internazionalismo operaio si era radicalizzato in tal senso, anche se nella direzione opposta. Solo in un paese si è riusciti ad evitare il collasso morale del movimento operaio europeo. In Russia, nel 1917, i lavoratori ed i soldati guidati dal Partito Bolscevico condussero una rivoluzione socialista. Il sistema politico che emerse da questa insurrezione dette vita al primo ed unico stato nella storia che non prevedesse alcun rimando nazionale o territoriale nella propria denominazione, scegliendo di definirsi semplicemente Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, senza designazione di luoghi o popolazioni. Ciò significa che l’intenzione dei suoi fondatori fu incondizionatamente internazionalista. Poco tempo dopo, per coordinare l’azione dei nuovi partiti comunisti che cominciavano a sorgere in tutto il mondo, ispirati dalla Rivoluzione Russa, i leader bolscevichi fondarono la Terza Internazionale. [11] Il contrasto con la Seconda Internazionale sarebbe stato drammatico. In Europa, sulla scorta della terribile lezione che la Prima Guerra Mondiale aveva impartito alla generazione di militanti operai, i partiti del Comintern mostrarono una disciplina di ferro nel rifiutare qualsiasi forma di nazionalismo locale, oltre ad una capacità di resistenza alle pressioni delle classi dominanti nei rispettivi stati di appartenenza.

Nella stessa URSS, tuttavia, l’elezione di Stalin a segretario del comitato centrale, elezione che si fondava sulla promessa che sarebbe stato possibile costruire "il socialismo in un solo paese", dette vita ad una nuova forma di nazionalismo, specifico dell’autocrazia che si andava rapidamente sostenendo in Unione Sovietica. In breve tempo le attività della Terza Internazionale furono totalmente subordinate agli interessi dello stato sovietico, sulla base dell’interpretazione che Stalin fece delle stesse. Il risultato fu un fenomeno di arresto, senza precedenti nella storia, di un internazionalismo allo stesso tempo profondo e deformato, che rigettava da un lato la lealtà al proprio paese e mostrava dall’altro una lealtà senza limiti ad un altro stato. Testimonianza di questo fenomeno furono le Brigate Internazionali della guerra civile spagnola, sorvegliate dagli emissari del Comintern (Codovilla, Togliatti, Gerö, Vidali e altri) e reclutate da ogni parte in Europa e nelle Americhe. Con questa commistione di eroismo e di cinismo, di solidarietà disinteressata e di terrore omicida, l’internazionalismo divenne perverso come mai prima di allora.

La prova decisiva per la Terza Internazionale arrivò subito dopo, con lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale. In quella circostanza i partiti comunisti di Francia, Gran Bretagna, Belgio, Olanda e Norvegia, tutti paesi aggrediti dai nazisti tedeschi, rifiutarono di fornire un supporto ai propri governi, asserendo che il conflitto era ancora una volta un mero conflitto inter-imperialista e quindi di nessun interesse per le masse. Mai posizione fu più impopolare e politicamente sbagliata di questa, dato che la classe operaia aveva tutto l’interesse nel difendere la democrazia contro il fascismo. La presa di posizione di questi partiti evidenziava inoltre la distanza che si era creata fra la Terza e la Seconda Internazionale. Due anni dopo, Hitler invase l’URSS. Fu allora che i partiti comunisti europei si gettarono nella battaglia contro il nazismo, arrivando a giocare un ruolo fondamentale con la Resistenza, alla testa di movimenti di massa che combatterono contro l’occupazione tedesca, alla stessa stregua di quanto si stava attuando in Cina e in Corea contro l’espansione giapponese. In questa nuova situazione, non sussisteva più il conflitto tra ciò che si reputava un dovere internazionalista, ovvero aiutare la patria del socialismo, e ciò che invece era il dovere nazionalista di difendere il paese dalla Wehrmacht: i due aspetti confluivano in un unico compito, che i militanti compirono con grande successo. Nel pieno di queste battaglie, Stalin annunciò improvvisamente lo scioglimento della Terza Internazionale, ufficialmente con la motivazione che era diventata anacronistica, ma in realtà per pacificarsi con gli alleati, Inghilterra e America. Questa azione pose termine ad un lungo ciclo storico. La sconfitta del fascismo e la fine della Seconda Guerra Mondiale avrebbero posto le basi per trasformare radicalmente sia il nazionalismo, sia l’internazionalismo, ora non più confinato alla sola Europa, ma esteso a tutti i paesi del mondo.

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Fino ad ora, l’analisi è stata necessariamente focalizzata sulle zone geografiche dell’Europa e del Nord America, non per una questione di meriti speciali, ma per il ruolo determinante che il capitalismo occidentale ha assunto a livello mondiale in quel lungo arco di tempo che va dalle rivoluzioni americana e francese alla Grande Depressione e alla Seconda Guerra Mondiale. Dopo il 1945 tutto cambia radicalmente. Ora, finalmente, la stragrande maggioranza dei popoli entra in scena come forza centrale. Nella nuova fase, che viene inaugurata nel 1945 e prosegue fino al 1965 circa, si verifica un improvviso e spettacolare scambio nelle relazioni tra capitale e forza lavoro da un lato e nazionalismo ed internazionalismo dall’altro. Se guardiamo indietro, ci rendiamo conto che questo è stato uno dei grandi mutamenti del ventesimo secolo. In precedenza, le forme dominanti di nazionalismo, dalle ambizioni più nobili dei patrioti illuministi ai crimini più efferati del fascismo, erano sempre state espressione delle classi abbienti, mentre a partire dal XIX secolo in poi le forme corrispondenti di internazionalismo, nonostante i vizi ed i limiti, erano espressione delle classe operaia. Dopo il 1945 questa doppia connessione, capitale/nazionalismo da un lato e forza lavoro/internazionalismo dall’altro, si capovolge. Il nazionalismo diventa prevalentemente una causa popolare, di masse sfruttate ed indigenti, in rivolta intercontinentale contro il colonialismo e l’imperialismo occidentali. L’internazionalismo, al contempo, inizia a cambiare volto, assumendo nuove forme rispetto al capitale. Si trattava di una trasformazione fatale.

Il nuovo tipo di nazionalismo che divenne dominante su scala mondiale a partire dal 1945 era anti-imperialista, e le zone geografiche in cui vide la luce furono Asia, Africa e America Latina. Quali erano i suoi tratti strutturali? Socialmente, era molto più eterogeneo delle forme successive di nazionalismo che si verificarono in Europa. I movimenti di liberazione nazionale che scuoterono in quegli anni il Terzo Mondo erano guidati da diverse classi sociali. A volte era la borghesia locale a dominare l’intero processo, in questo senso l’India rappresenta il caso più importante. In altre situazioni, fu il ceto medio, senza grossi capitali alle spalle, a prendere il comando, utilizzando il movimento per poter diventare una vera borghesia dopo aver ottenuto il potere, come era successo in Messico e in Turchia. Una variante più precaria di questo schema si è verificata in diversi paesi africani, dove il movimento nazionalista era guidato da burocrati o ufficiali dello stesso stato coloniale. In altri casi ancora, gli intellettuali di origine medio-bassa arrivarono al potere, come in Indonesia. Uno dei gruppi più chiaramente identificabili all’interno di queste grandi sommosse era quello dei maestri rurali. In ultimo, ma non per questo meno importanti, vi furono anche casi in cui i partiti comunisti ottennero la leadership del movimento di liberazione nazionale, trasformando la lotta in una indiscutibile rivoluzione contro il capitale, come in Cina o in Vietnam. A Cuba si è verificata una combinazione di varianti.

Qual era l’ideologia intellettuale dell’anti-imperialismo post bellico? Era di tipo sincretistico. Così come non vi era alcuna uniformità sociale nella leadership dei diversi movimenti di liberazione nazionale, allo stesso modo la sua espressione ideologica era ibrida e variegata, arrivando a includere al tempo stesso correnti di pensiero razionaliste, romantiche, positiviste ed irrazionaliste. Il kemalismo in Turchia, il surkanismo in Indonesia, la composita ideologia tramandata successivamente da Obregòn, Calles e Càrdenas in Messico, ne furono esemplari. Le combinazioni o le ricapitolazioni di precedenti dottrine abbondavano. La caratteristica più evidente di questo tipo di anti-imperialismo, tuttavia, fu la sua capacità di far uso non solo di ideologie di diversa origine, accomunate dalla tipica impronta borghese, ma anche di tradizioni antecedenti l’Illuminismo e successive al capitalismo, vale a dire da un lato la religione, dall’altro il socialismo. Fra gli esempi più recenti del primo caso bisogna comprendere la rivoluzione iraniana, mentre per quanto riguarda il secondo caso si fa riferimento al sandinismo del Nicaragua. Quali erano le basi popolari di questo anti-imperialismo? Numericamente la massa più consistente era costituita dai contadini. Questo vale in particolar modo per la rivoluzione comunista di paesi quali Cina, Vietnam, Yugoslavia. Queste furono sommosse qualitativamente diverse dalla Rivoluzione di Ottobre a cui tuttavia facevano riferimento. Tutte queste rivoluzioni trionfarono nel nome della nazione, mentre la Rivoluzione Russa, nell’ora della vittoria, non assunse alcuna connotazione nazionalista.

Cosa succedeva nel frattempo al capitale? La nuova situazione creatasi dopo il 1945 potrebbe essere definita come segue. In primo luogo, con la fine della Seconda Guerra Mondiale, gli Stati Uniti arrivarono ad occupare una posizione all’interno del mondo capitalista che nessun’altra nazione prima di allora aveva mai avuto. Il Giappone e l’Italia furono sconfitte e rovinate. L’Inghilterra e la Francia si impoverirono e si indebolirono. Gli USA dominavano l’universo del capitale in modo molto più deciso che non l’Inghilterra del XIX secolo. In secondo luogo, non c’era più solo un paese, la Russia, in cui il capitalismo era stato rovesciato. Dal vortice della guerra emersero molti paesi in cui venne abolita la proprietà privata dei mezzi di produzione, in mezza Europa e in un terzo dell’Asia. Il blocco comunista su scala mondiale sembrava minacciare l’esistenza del capitalismo. In queste condizioni, il capitale scoprì improvvisamente il proprio internazionalismo. I conflitti nazionali tra gli stati capitalisti, che avevano provocato due guerre mondiali, furono dissipati. L’esistenza di un singolo potere egemonico rese possibile l’organizzazione internazionale dei propri interessi: il fatto che esistesse il blocco comunista lo rendeva necessario. [12]

Il risultato fu un processo di unificazione commerciale, ideologica e strategica che ebbe inizio con gli accordi monetari di Bretton Woods, per continuare con il piano Marshall e il piano Dodge per la ricostruzione dell’Europa e del Giappone, la creazione della NATO e del GATT, per culminare con la nascita della Comunità Economica Europea, con l’incoraggiamento degli USA. Il percorso di questa integrazione internazionale passava attraverso la restaurazione generalizzata del libero commercio e il superamento della sovranità nazionale attraverso il Mercato Comune Europeo. Si è trattato di una marcata inversione di tendenza che ha avuto la punta massima nel periodo intercorso tra le due guerre, senza precedenti nella storia del capitalismo. Se dovessimo definire questa situazione potremmo adottare il termine di sovra-nazionalismo, con il duplice significato di supremazia degli USA su tutte le altre nazioni e di nascita della Comunità Europea con poteri sugli stati dell’Europa occidentale.

La conseguenza di questa trasformazione è rappresentata dallo spostamento, all’interno della ideologia imperante degli stati capitalisti, dallo stato-nazione alla democrazia liberale come mezzo dominante di integrazione della classe operaia occidentale. L’ideologia ufficiale dell’occidente durante il periodo della Guerra Fredda non metteva più al primo posto la difesa della nazione, valore supremo fino alla Seconda Guerra Mondiale, per tutti, ma piuttosto esaltava il mondo occidentale. Questo cambiamento coincise con la generalizzazione e l’effettivo consolidamento, per la prima volta, di una democrazia rappresentativa basata sul suffragio universale come modello di stato capitalista di un paese sviluppato, fenomeno che data a partire dagli anni ’50.

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Dalla metà degli anni ’60 in poi, questo assetto subì un’alterazione significativa, in quanto una serie di trasformazioni strutturali avevano modificato le relazioni tra stati e mercati in tutto il mondo capitalistico sviluppato. Una volta terminata la ricostruzione post bellica l’economia di Germania, Francia, Italia e soprattutto del Giappone crebbero molto più velocemente di quella americana e, verso la metà degli anni ’70, il sistema Bretton Woods era già superato. Allo stesso tempo, il peso delle corporazioni multinazionali, tipicamente basate in uno stato ma in via di espansione oltre frontiera, era diventato ancora più potente ed invasivo, attuando le prime forme di controllo delle autorità nazionali sui processi di accumulazione sempre più precari. In seguito, e in modo più deciso, i mercati finanziari divennero interdipendenti, andando ad operare in vasti circuiti di investimenti e speculazioni intercontinentali, superando quindi qualsiasi meccanismo tradizionale di regolamentazione nazionale. In questo modo il ritorno delle potenze tedesca e giapponese non rappresentò il segnale di un arretramento dei conflitti inter-imperialisti del periodo fra le due guerre. I principali paesi capitalistici erano orientati ora verso livelli sempre più alti di coordinamento politico. La Comunità Europea procedeva verso l’unificazione del mercato, e quindi della moneta, avvalendosi anche di un parlamento debole. Gli USA, il Giappone e le altre potenze moltiplicarono incontri ed accordi per agevolare la gestione comune dell’andamento economico capitalistico mondiale. Verso la fine degli anni ’70 giunse l’ora del G7. Qualcosa analogo alla concezione di Kautsky di "ultra-imperialismo" si stava avverando. [13] Potremmo alternativamente definire questo tipo di internazionalismo, caratteristico del capitale negli ultimi decenni del XX secolo, una sorta di transnazionalismo, per evidenziarne la diversità dalla forma precedente. Transnazionale ha un duplice significato: si riferisce in primo luogo ai legami internazionali che ora legano le tre aree principali del capitale, dall’Atlantico al Pacifico, in un unico accordo, e secondariamente alle nuove forme di imprenditoria intercontinentale e speculazione finanziaria, che oltrepassano i confini nazionali. Ideologicamente, l’allocuzione ufficiale del periodo non fu abbandonata, ma rinforzata, nel senso di supremazia dei valori democratici sui valori nazionali, rendendo questi più plausibili con una democratizzazione controllata a distanza delle dittature dell’area mediterranea, ovvero in Spagna, Portogallo e Grecia, regimi che avevano contraddetto in modo evidente la retorica del mondo occidentale della fase precedente.

Nel frattempo, al di fuori della zona capitalistica, l’anti-imperialismo aveva perso impeto, cessando di rappresentare negli anni ’70 la forma dominante di nazionalismo. Si combattevano ancora guerre. Ma la vittoria della rivoluzione vietnamita e lo scioglimento dell’impero portoghese, quando giunsero, apparvero come epiloghi di un tempo precoce. In Africa e in Asia l’attività di decolonizzazione era un fatto compiuto; in America Latina, il tentativo cubano di rompere l’isolamento era fallito. Le battaglie per la liberazione nazionale continuavano in Sud Africa, Palestina, America Centrale, ma non avevano più lo stesso significato globale. Un altro tipo di nazionalismo, completamente differente, stava salendo alla ribalta. Il blocco comunista costituitosi dopo la Seconda Guerra Mondiale per combattere il fascismo in Eurasia includeva riferimenti storici ben distinti. Nella maggior parte dei paesi dell’Europa dell’Est (Polonia, Ungheria, Romania, Cecoslovacchia, Germania dell’Est) Stalin impose il comunismo dall’alto, con pressioni militari, creando un anello di stati-satellite che avrebbero soddisfatto gli interessi dell’URSS. Invece, in Yugoslavia, Albania, Cina e Vietnam, le rivoluzioni indigene furono vittoriose e portarono alla creazione di stati comunisti completamente indipendenti. Tutti questi stati però erano guidati da partiti profondamente radicati, per quanto attiene a dottrina e disciplina, nella Terza Internazionale di matrice stalinista.

L’ideologia di fondo dello stalinismo, la dottrina del "socialismo in un solo paese", aveva alimentato una fedeltà incondizionata verso l’Unione Sovietica quando questi partiti stavano ancora lottando per ottenere il potere, essendo organizzazioni perseguitate e illegali. Una volta ottenuto il potere, la stessa dottrina, logicamente ed ironicamente, produsse l’esatto opposto, un netto conflitto con l’Unione Sovietica in ciascuno dei partiti comunisti non russi. Infatti, l’egoismo nazionale praticato da Stalin divenne ora generalizzato, spesso a causa dell’arroganza di Stalin e dei suoi successori. Il risultato fu una disintegrazione ancora più accelerata dell’internazionalismo del movimento comunista, proprio mentre gli stati comunisti si stavano moltiplicando. Fu la Yugoslavia ad entrare in conflitto con l’Unione Sovietica per prima, poi l’Albania con la Yugoslavia, e questo già a partire dagli anni ’40. Fu poi la volta del conflitto tra Russia e Cina esploso nei primi anni ’60 e sfociato negli scontri sulle aree di confine delle due potenze, distruggendo per sempre qualsiasi possibilità di unificazione del mondo comunista. In seguito, sull’onda di questi avvenimenti, scoppiarono gli altri conflitti tra stati comunisti, che videro contrapposti Vietnam e Cambogia, Cina e Vietnam. Attorno alla seconda metà degli anni ’70 fu evidente che la forma dominante di nazionalismo mondiale consisteva nella scissiparità fratricida del comunismo. [14]

Quali furono le radici storiche della clamorosa involuzione delle tradizioni leniniste, così fortemente in contrasto con la moderna evoluzione degli stati capitalisti? Due forze intercorrelate sono di fondamentale importanza. In primo luogo, e ciò è evidente, all’interno del modello replicato di "socialismo in un solo paese", le forze produttive degli stati comunisti (che si muovevano a livelli molti inferiori rispetto ai paesi occidentali) non ebbero alcuna possibilità di mettersi alla pari con le economie dei paesi capitalisti, i quali usufruivano di collegamenti industriali e commerciali totalmente assenti nei paesi dell’Est. A livello tecnologico ed organizzativo, le forze di produzione di questi paesi non superarono mai le frontiere nazionali, determinando un livello di produttività in URSS che non superava i 2/5 rispetto alla Germania o la Francia. In altre parole, la persistenza del nazionalismo burocratico nel mondo comunista era materialmente radicata nelle forze produttive le quali, a loro volta, erano meno internazionalizzate rispetto a quelle del mondo capitalista. Il nazionalismo bloccava ogni possibilità di superamento di questo sfasamento. Il patetico avvizzimento del COMECON, contrapposto alla fioritura del Mercato Comune Europeo, ne fu il diretto risultato.

Cosa stava succedendo nelle sovrastrutture politiche e ideologiche erette sopra queste esigue basi economiche? Nei paesi capitalisti il declino del nazionalismo corrispondeva alla nascita della democrazia liberale come legittimazione suprema dell’ordine sociale, e come meccanismo per integrare la popolazione al suo interno. Ma nei paesi comunisti non esisteva alcuna democrazia socialista: la vita politica era completamente espropriata dai burocrati. In questa situazione, i regimi al potere dovettero ricorrere al nazionalismo come surrogato per integrare le masse nel modello politico. Come già Marx aveva avuto modo di comprendere, la nazione funzionava come comunità immaginaria che compensava la mancanza di libertà e di uguaglianza dei suoi membri. In questo senso, la scissiparità del mondo comunista di questi anni fu anche un prodotto diretto dell’abolizione della supremazia del popolo negli stati in questione. L’assenza di qualsiasi libera associazione di produttori determinò, con una logica fatale, la nascita di un nazionalismo avvelenato, causa dei conflitti tra paesi comunisti.

Per un determinato periodo, questo fu un surrogato che funzionò, più o meno, in paesi quali Russia, Cina, Yugoslavia, Albania e Vietnam, in cui i partiti al potere avevano perpetrato rivoluzioni autoctone e sconfitto gli invasori del passato, conferendo agli stati che avevano creato una parvenza di validità nazionale. Nella maggior parte dei paesi dell’Europa dell’Est, invece, i regimi comunisti erano privi di tale legittimità. Sebbene anch’essi tentarono di giocare la carta del nazionalismo (la Romania è l’esempio più eclatante) non ebbero alcuna credibilità.. Minacciati dalla Armata Rossa già dal 1945, questi regimi furono mantenuti in vita solo grazie a ripetuti interventi militari dell’URSS (nella Germania dell’Est nel 1953, in Ungheria nel 1956, in Cecoslovacchia nel 1968). Alla mancanza di democrazia popolare andò ad aggiungersi la continua umiliazione del sentimento nazionalista, specialmente nei paesi comunisti più vicini al dinamismo dell’economia capitalista, in grado di cogliere la distanza tra le due economie. Nell’Europa dell’Est, il terremoto politico del 1989 era in preparazione da lungo tempo. La scossa di assestamento destabilizzò i due stati attigui, storicamente più legittimati, l’Unione Sovietica e la Yugoslavia, ovvero federazioni multi-nazionaliste. Entrambe caddero in una dinamica di disintegrazione irrefrenabile, che portò al risveglio del successivo separatismo e al peggioramento della crisi politica ed economica. Oggigiorno, alla nascita del nuovo secolo, qual è la forma più rilevante di nazionalismo nel mondo? Con tutta probabilità, sembrerebbe essere quel tipo di conflitto il cui modello è stato definito dalle secessioni post-comuniste, ma che si estende al mondo post-colonialista: dai Balcani al Caucaso, dal Corno d’Africa ai Grandi Laghi, dal Kashmir a Mindanao.

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Se è così, qual è allora la forma dominante di internazionalismo al giorno d’oggi? Alla luce delle metamorfosi a cui abbiamo assistito, con la scomparsa del blocco sovietico, per la prima volta siamo in presenza di una reale egemonia globale, in quanto gli USA sono la forma di potere che si ritrova nei sogni di qualsiasi stato. L’internazionalismo, nel linguaggio corrente, ha avuto tradizionalmente come suo opposto alcune versioni di nazionalismo. Negli USA, tuttavia, dall’inizio di questo secolo, il termine internazionalismo ha acquisito un antonimo completamente diverso: in questo caso il suo opposto è l’isolamento. L’antitesi dei due termini (internazionalismo/isolamento) rende evidente il presupposto comune: la supremazia dell’interesse nazionale, che costituiva il fondamento di entrambi, non è mai stata messa in gioco, ma era semplicemente il modo migliore per ottenerla. L’origine storica del fenomeno risiede nella combinazione peculiare creata dall’ideologia americana di una repubblica allo stesso tempo eccezionale e universale: unica per le sorti delle proprie istituzioni ed esemplare nella capacità di attrarre [15]. Si tratta di un messianismo falso, che porta ad un culto fervente della propria patria e ad un senso di redenzione missionaria del mondo o, più realisticamente, ad una mescolanza diplomatica dei due. L’internazionalismo ha sempre avuto un posto d’onore nel vocabolario dualistico di questa tradizione. In pratica ha operato come parola in codice per consentire agli USA di operare politiche progredite su ampia scala. Così come l’isolamento non ha mai significato il pur minimo indebolimento della Dottrina Monroe, della Dichiarazione Olney o dell’Emendamento Platt, vale a dire comando supremo USA sull’emisfero occidentale, allo stesso modo, fin dall’inizio, l’internazionalismo nel senso americano significava semplicemente la volontà di estendere il potere USA all’Eurasia: gli interventi di Wilson, dal Messico alla Russia, definivano questa logica dall’inizio.

Per buona parte del secolo, questo senso di internazionalismo rimase una caratteristica locuzione domestica, di poco interesse al di fuori dei confini statunitensi, dove invece sarebbero stati trovati termini più significativi per descrivere ciò che in pratica questo fenomeno rappresentava. Oggi, tuttavia, in assenza di un potere alternativo, l’egemonia americana è stata in grado per la prima volta di imporre la propria auto-descrizione come norma globale. Con le Nazioni Unite, un regime conciliante in Russia, alcune truppe in Germania e in Giappone, un protettorato in Cina, basi in diversi stati cliente [16] e una potenza militare che da sola supera quella di tutti i potenziali rivali messi insieme, la volontà degli Stati Uniti è stata ribattezzata con un eufemismo che la dice lunga sulla sua prosperità. Il suo sinonimo è semplicemente la "comunità internazionale", senza il cui riferimento nessun discorso ipocrita del Segretario Generale delle Nazioni Unite, né comunicato della NATO, né editoriale sentenzialista del New York Times, di Le Monde o del Guardian, per non parlare dei vari telegiornali, si può ritenere completo. L’internazionalismo in questo senso non è più il coordinamento delle maggiori potenze capitaliste sotto il dominio americano e contro un nemico comune, l’influsso negativo della Guerra Fredda, ma un ideale assertivo: la ricostruzione del globo secondo l’immagine americana, sans phrases. La bandiera sbrindellata del mondo occidentale è stata ammainata. Al suo posto è stata issata la bandiera dei diritti umani, vale a dire in primo luogo il diritto della comunità internazionale di assediare, bombardare, invadere le terre delle popolazioni o degli stati che non vi si riconoscono: Cuba, Yugoslavia, Afghanistan, Iraq, e di fornire supporto, finanziare ed armare quegli stati che invece vi si identificano: Turchia, Israele, Indonesia, Arabia Saudita, Pakistan. Per quanto riguarda i ceceni, i palestinesi, i tutsi, gli sahrawi, i nuer ed etnie ancora più esigue, la maggior parte delle quali non possiede neanche uno stato, la carità non può dopo tutto essere ubiquitaria, come ha avuto modo di far notare Samuel Berger, Consigliere per la Sicurezza Nazionale dell’amministrazione Clinton.

Le resistenze al nuovo ordinamento ci sono ancora. A livello nazionale, gli alleati europei si dimostrano a volte irrequieti di fronte ad un eccessivo "unilateralismo" americano, pur attuando mozioni di consultazioni diplomatiche che tradizionalmente sono servite come copertura della propria subordinazione; a volte Russia e Cina devono patteggiare i propri favoritismi all’interno del Consiglio di Sicurezza. A livello internazionale, il fondamentalismo islamico e il post-integralismo cattolico si fanno avanti come promotori di forme di vita alternative, meno asservite al mondo del consumismo. I movimenti che si sono riuniti a Porto Alegre si battono come diaspora emergente dell’opposizione sociale, le cui linee guida devono ancora essere individuate. Nel frattempo, troviamo rifugio sotto i cieli della giustizia infinita e della libertà duratura. Ma se è possibile rimpiangere i giorni, non molto lontani, in cui la civilizzazione del capitale procedeva con minore santimonia, non c’è ragione per supporre che questa sia la fine del percorso dell’internazionalismo. La sua storia è piena di episodi ironici, di zig-zag e di sorprese. E’ improbabile che si sia assistito all’ultimo.

 

[1] L’eccezione più autorevole e originale è rappresentata dal saggio di Tom Nairn "Internationalism: A critique, Faces of Nationalism, Londra 1997, pp. 25-45, in cui viene trattato il suo posto all’interno della storia del socialismo. torna su

[2] Fu accusato di nichilismo nazionalista dagli zeloti cechi del periodo pre-bellico; dopo il 1914 ha cambiato posizione. torna su

[3] A Singular Modernity, Londra 2002 (in corso di pubblicazione) torna su

[4] Anche Santhonax che assistette Toussaint a Santo Domingo, o Pétion che fornì asilo politico a Bolivar, appartengono a questo gruppo torna su

[5] In Francia, Lamartine parlò di "nazionalismo" a metà degli anni 30 del XIX secolo - in Inghilterra ciò avvenne un decennio dopo — ma il termine diventò di uso comune solo nella seconda metà del secolo. torna su

[6] Al mare, elemento par excellence di feroci ostilità proto-nazionaliste ai tempi di Drake, Van Tromp, Duguay-Trouin, si attribuì nel XIX secolo un proprio internazionalismo marittimo, popolato di marinai e comandanti radicali. torna su

[7] Il mitico personaggio del soldato Nicolas Chauvin, eroe popolare dell’immaginario collettivo francese, fece la sua prima comparsa durante la restaurazione: si veda Gérard de Puymèges, Chauvin, le soldat-laboureur: contribution à l’étude des nationalismes, Parigi 1993. torna su

[8] Galvanizzando, naturalmente, i movimenti nazionalisti contro di esso e andando a formare la sottodominante più significativa del periodo compreso tra la Comune e la Prima Guerra Mondiale: la rivolta di Al-Uraby in Egitto, il Comitato per l’Unione e il Progresso in Turchia, la rivoluzione costituzionale in Persia, i Boxers, rivoltosi cinesi, e Katipunan nelle Filippine. torna su

[9] Per alcuni aspetti, l’anarchismo fornì un marchio più radicale all’internazionalismo all’interno del movimento operaio di questo periodo, come dimostrato dal IWW in America, ma rimase più debole a livello sociologico. Dall’altra parte delle barricate, la Chiesa Cattolica ai tempi di Pio IX esortò i fedeli a resistere al nazionalismo secolare e al socialismo, in una mobilizzazione clericale che si trasformò in seguito nella Democrazia Cristiana. In questa fase, tuttavia, rappresentava ancora una forza accessoria. torna su

[10] Gli esempi asiatici di questa forza comprendono la Falange Libanese, la congiura irachena denominata Golden Square (blocco d’oro), la RSS in India, le Camicie Blu in Cina; in Africa, il Broederbond; in America, diametralmente opposto, il garveismo torna su

[11] In competizione con l’internazionalismo di Lenin c’era naturalmente la versione offerta da Wilson, fra le vendicative clausole di indennizzo di Versailles ed il fiasco della Lega delle Nazioni. torna su

[12] Le forme di internazionalismo comunista che rimasero in vita dopo lo scioglimento della Terza Internazionale, più rigide ma più fragili rispetto all’unità occidentale, contribuirono a rafforzarlo. L’obbedienza a Mosca era ancora la regola, almeno fino a quando Stalin visse; sotto Krushev, che non poteva fare affidamento su questo tipo di influenze, sono stati attuati dei tentativi per ricostituire i congressi formali dei partiti, tentativi abbandonati poco dopo la sua caduta. Nel Terzo Mondo, la Conferenza Bandung portò alla creazione di un Movimento Non Allineato che rimase tuttavia nell’ombra. torna su

[13] Il concetto originario di Kautsky è riportato nel testo "Ultra Imperialism", NLR 1/59, Gennaio-Febbraio 1970, pp. 41-46. La sua corrispondenza con la realtà del coordinamento inter-capitalistico degli anni settanta è stato trattato dal maggiore teorico liberale del nuovo regime, Robert Keohane: After Hegemony, Princeton 1984, p. 43. torna su

[14] L’unica eccezione è costituita da Cuba, il cui supporto ai movimenti rivoluzionari di liberazione nazionale, dal Nicaragua all’Angola rappresenta la forma di internazionalismo contro-corrente più eclatante del periodo. torna su

[15] La nozione degli USA come entità diversa da nazione-stato ha ora le sue varianti nella Sinistra, in cui la matrice giuridica della costituzione americana ed il mosaico etnico dell’immigrazione sono concepiti come emergente catallassi globale. Per una critica dettagliata di questo concetto idealista, si veda Gopal Balakrishnan, "Virgilian Visions", NLR 5, Settembre-Ottobre 2000, pp. 142-48. L’autore, con una vena machiavellica, suggerisce un sistema politico destinato ad una crescita illimitata, combinando una forza di vecchio stampo con la neutralizzazione economica, culturale e demografica o la negazione di tutti gli altri centri di potere. torna su

[16] "In una giornata qualsiasi antecedente l’11 settembre, secondo il Dipartimento della Difesa, oltre 60.000 militari stavano effettuando operazioni temporanee in circa 100 paesi": Los Angeles Times, 6 Gennaio 2002. torna su