E' vero che il capitalismo è xenofobo?
Analisi sul razzismo popolare a partire dall'iniziativa del Polo contro la legge Turco-Napolitano e la vittoria di Haider. REDS. Aprile 2000.


Partiremo da un fatto di congiuntura politica per trarre delle lezioni di carattere generale sulla questione immigrazione/razzismo cercando di dimostrare che la xenofobia non è affatto connaturata al capitalismo, cioè all'oppressione di classe, ma ad un altro genere di oppressione, quella nazionale, separata e distinta, anche se intrecciata, con la prima.

Il 29 marzo Berlusconi e Bossi, neoalleati in vista delle elezioni regionali d'aprile, hanno presentato una proposta di legge di iniziativa popolare che ha come obiettivo lo smantellamento dell'attuale normativa (chiamata Turco-Napolitano) sull'immigrazione. Presentata la proposta in Cassazione partirà la campagna per la raccolta di firme, che mira a restringere ulteriormente le già scarse possibilità di migrare in Italia.

Il giorno dopo sul Corriere della Sera è uscita una intervista ad Innocenzo Cipolletta, direttore generale di Confiundustria. I lettori avranno forse intravisto il personaggio in televisione: è quello che afferma non esistere una questione "disoccupazione meridionale", ma solo un problema di meridionali che non vogliono spostarsi dove c'è lavoro. Non si tratta dunque, precisamente, di un progressista illuminato. Nell'intervista su citata, però, afferma: "Io sono per la libera circolazione delle persone: se esiste per le merci, a maggior ragione la legge del mercato deve essere valida per gli uomini e le donne [] le merci non possono essere considerate superiori alle persone". E a proposito delle quote e delle chiamate nominative: "Spesso le aziende hanno difficoltà a conoscere a priori di che cosa hanno bisogno. Impossibile giungere ad una valutazione quantitativa del fabbisogno di manodopera. Basta guardare a ciò che già accade nella realtà: la selezione e la divisione del lavoro avvengono quando gli immigrati arrivano sul nostro territorio, quasi mai prima. Perché ciò che conta è la voglia di lavorare che hanno. La società multietnica è sempre più ricca di idee e di conoscenza di una società ad un'una dimensione culturale. Basta pensare allo sviluppo che hanno avuto società come quella australiana o nordamericana. L'Italia da questo punto di vista è davvero indietro".

Un'eccezione? Al contrario. Il Governatore della Banca d'Italia Antonio Fazio ribadisce continuamente che gli immigrati sono una "risorsa per il Paese" perché coi loro contributi consentiranno di pagare le pensioni. Di pari tenore le valutazioni della Fondazione Agnelli, i rilievi del FMI sul "deficit di immigrati" dell'Italia (e più in generale dell'Europa), e gli innumerevoli commenti dei maggiori giornali della borghesia (in primo luogo Stampa, Corriere della Sera e Repubblica) tesi ad aprire le porte all'immigrazione. Vi sono inoltre istituti culturali e di ricerca patrocinati da istituti di credito, quale ad esempio l'ISMU, legato alla Fondazione Cariplo, da anni impegnato a diffondere nelle scuole e non solo i temi e i valori della multiculturalità, della multietnicità, dell'integrazione razziale, ecc. D'altro lato, gli stessi Berlusconi e Bossi (o i loro staff) quando operano nel concreto secondo le logiche economiche del contesto capitalistico si guardano bene dall'applicare quei principi di esclusione che rivendicano quando rivestono i panni del politico populista: ad esempio la manovalanza utilizzata per la propaganda elettorale soprattutto di Forza Italia (incasellatori, volantinatori, ecc.) è composta quasi unicamente da immigrati non in regola e sottopagati.

Queste prese di posizione proimmigrazione sconcertano chi nella sinistra è abituato a pensare che il razzismo sia un "complotto" dei capitalisti per alimentare le divisioni tra i lavoratori. Nulla di più lontano dalla realtà. L'ideale di qualsiasi capitalista è quello di vedere i lavoratori del mondo circolare liberamente: un Paese chiuso e invecchiato infatti ha pochi consumatori, scarso dinamismo e poca offerta di manodopera. Altro fattore economico di non poco conto sono le rimesse degli immigrati, che consentono al mercato di trovare una qualche collocazione anche nei loro paesi di origine, tanto più che la globalizzazione e il sistema della monocoltura li rende oggi ancor più dipendenti dal nord anche per i fabbisogni alimentari. Il modello è quello USA, che si sono costruiti in questo secolo anche sull'immigrazione, e i cui confini ogni anno sono varcati da centinaia di migliaia di persone. Per l'Italia in realtà non è stato molto diverso: il boom economico degli anni '60 è avvenuto grazie all'immigrazione; il fatto è che si trattava di un movimento interno all'Italia, e dunque oggi, una generazione dopo, è scarsamente visibile. Attualmente però l'emigrazione interna non si attiva, per varie ragioni che qui non analizzeremo, e dunque la borghesia punta sugli extracomunitari.

A questo ideale liberoscambista anche i capitalisti pongono comunque dei paletti. In ogni Paese infatti l'equilibrio tra le classi ha prodotto una serie di servizi, un certo livello di spesa sociale, pensioni, ecc. che costituiscono la risultante di lotte sindacali e politiche. Ciò che chiamiamo "stato sociale" è il prezzo pagato dai capitalisti per la pace sociale; tale prezzo è tanto più alto quanto più le classi subalterne in un dato momento storico sono riuscite a strappare concessioni. Lo "stato sociale" è dunque un compromesso "nazionale" tra due classi sociali di uno stesso Paese. Nel momento in cui entrano lavoratori di altri Paesi si creano problemi di gestione, senza che ciò rappresenti la risultante di qualche offensiva dei lavoratori.

Ma allora CHI sono i razzisti? CHI alimenta l'odio verso gli stranieri, qual è la ragione profonda, materialista, dell'esistenza dei centri di accoglienza-lager? Quale il motivo della forza di un Bossi o di un Heider?

Su questo i militanti della sinistra marxista sono abituati ad utilizzare concetti consolatori che in realtà non sono in grado di spiegare anche cose minime, come l'intervista di Cipolletta. Sentiamo dire spesso ad esempio che i clandestini fanno comodo perché possono essere meglio sfruttati. Quindi ci sarebbe un gioco delle parti in cui si fa finta di fermare l'immigrazione per consentire l'esistenza di una fascia di non garantiti. Questo può essere vero in certi settori economici ad alto sfruttamento di manodopera, ad esempio l'agricoltura meridionale o l'edilizia, ambiti cioè dove non agiscono macchine ma, soprattutto, braccia. Si tratta però di settori marginali nell'Italia di oggi, non in grado di influenzare la politica governativa. Del resto vi sono Paesi ad altissima immigrazione e dove c'è un alto tasso di regolarizzazione: basti pensare alla Svizzera o alla Germania. Come è possibile allora dedurre che al capitalismo conviene la clandestinità, quando in realtà questo è un fenomeno circoscritto e transitorio?

Altri ricordano lontane letture mal assimilate e ci insegnano dunque che il razzismo sarebbe il frutto dell'ideologia della "piccola borghesia" in declino. Poi però nessuno ci spiega come mai le punte più alte di razzismo non sono nella classe media ma tra le classi popolari; del resto negli USA di razzismo ce n'è un bel po' e in presenza di una piccola borghesia (cioè lavoratori autonomi) quasi scomparsa. Dunque?

Il fatto è che l'adozione di una categoria interpretativa che cerca di spiegare tutto in base all'esistenza di una sola oppressione, quella di classe, è assolutamente insufficiente per comprendere l'insieme dei fenomeni umani. Non perché il mondo è cambiato, ma invece perché è sempre stato così. Nel mondo, come non ci stanchiamo di ripetere come redazione di REDS, esistono svariate forme di oppressione, di genere, sessuale, generazionale, di classe, e nazionale, che è quella che ci interessa ora. Queste diverse forme di oppressione si intrecciano e si influenzano a vicenda ma hanno logiche, origini, soggetti, separati. Un individuo ad esempio può essere al tempo stesso oppresso ed oppressore su due piani differenti. E dunque un operaio può essere sfruttato in fabbrica, ma oppressore verso le donne (ad esempio con la moglie) o verso i giovani (i propri figli) o con gli stranieri.

Se c'è un'oppressione nazionale vi sono anche i soggetti: soggetti che opprimono e soggetti oppressi. Nella vicenda immigrazione gli oppressi sono facilmente individuabili: sono gli stranieri che vivono in Italia per lavoro e che godono di minori diritti, sono oggetto di episodi di razzismo, di discriminazioni, ecc. Gli oppressori sono semplicemente tutti gli altri, quindi gli italiani. Far parte di un soggetto sociale che opprime non significa necessariamente esercitare direttamente l'oppressione, ma godere dei privilegi che derivano dal far parte di un soggetto oppressore. Prendiamo l'esempio dell'oppressione di genere: un maschio può anche non essere oppressore in famiglia ma godrà comunque di tutti i privilegi di essere maschio (possibilità di carriera, libertà di circolazione, ecc.) indipendentemente dalla propria volontà. Allo stesso modo sul piano dell'oppressione nazionale l'italiano gode di privilegi rispetto allo straniero, anche se si tratta di un acceso difensore dei diritti: nessuno lo fermerà mai per strada a chiedergli documenti, i suoi figli non saranno presi in giro a scuola per il colore della pelle, i padroni non tenteranno di fregarlo sulla paga contando sulla complicità dei colleghi, non rischierà di essere preso a schiaffi in autobus, potrà entrare in qualsiasi bar senza dover scegliere quale è il più "tranquillo".

La massa degli oppressori, cioè gli italiani, trova una serie di vantaggi nell'esercitare il proprio razzismo. Interessi non sempre di natura materiale. Sentirsi italiani fa sì che si possa pretendere di far parte a pieno titolo di una comunità di interessi dalla quale ci si sentiva esclusi. E immaginare così di trarne benefici. E' il caso di tanti immigrati meridionali accesi avversari dei nuovi venuti: per chi era abituato a sentirsi discriminato sullo stesso piano "nazionale" (anzi: "regionale", ma la logica non cambia) perché "terrone", non è un salto da poco - sul piano del vissuto, della considerazione di sé, del rispetto che si deve esigere dagli altri, dei diritti che si vuole reclamare - fare "gruppo" insieme ai dominatori di ieri.

Nella percezione soggettiva degli "italiani" lo straniero è poi un potenziale concorrente, in tutti gli ambiti. Quando uno straniero fa "carriera" in un determinato ambiente alimenta una massa di dissapori perché il retropensiero "italiano" è: "come, lui che è pure straniero è stato preferito a me?" Il che tradotto significa: "perché non sono stati rispettati i miei privilegi di italiano?" Lo stesso accade quando lo straniero ottiene una casa: "ecco: agli stranieri sì e a noi no!" Ovvero: "noi italiani dobbiamo avere la precedenza perché facciamo parte di un gruppo sociale privilegiato".

Altri affermano che il razzismo popolare trae origine dal fatto che gli operai, sfruttati in fabbrica, "sfogano" la propria rabbia verso falsi obiettivi, "più facili" da colpire rispetto ai veri responsabili dello sfruttamento. Ciò è senz'altro vero e per rendersene conto basta ascoltare un lavoratore medio quante volte in una chiacchierata se la prende con omosessuali, donne e stranieri, mantenendo il più assoluto riserbo sul proprio capoufficio o dirigente. E' però una visione parziale, che non vede i concreti vantaggi di cui godono gli oppressori. Vantaggi parzialissimi, ai nostri occhi, ma non a quelli di coloro che ne godono.

Non condividiamo nemmeno il punto di vista di coloro che spiegano il razzismo come "paura del diverso". Secondo questa visione il razzismo si dovrebbe superare "conoscendosi". Non sottovalutiamo l'importanza di tutte le azioni tese a far sì che italiani e stranieri fraternizzino, ma il razzismo ci sarebbe anche in una situazione di perfetta reciproca conoscenza. Come non ricordare il successo della Lega nelle città del nord, quando, pur in presenza di una convivenza di quarant'anni, se la prendeva coi "terùn"! E' un problema di interessi e di privilegi, che deve essere affrontato da quel punto di vista.

Il razzismo dunque è sempre per sua natura "popolare", e non patrimonio di ristrette élite, siano esse piccolo borghesi o capitaliste. Dato che la gran parte della popolazione in Italia e nei paesi industrializzati è costituita da lavoratori dipendenti il razzismo è in larga parte, ma non solo, un problema della nostra classe. E ciò spiega perché certi partiti della destra, pur volendo rappresentare gli interessi della borghesia (che come abbiamo visto è favorevole all'immigrazione) solletichino l'istinto nazionalista oppressore degli italiani: è una maniera di penetrare in una classe sociale che altrimenti non sarebbe interessata alle proposte della destra. Da parte di Forza Italia si tratta dunque di una misura tattica che serve ad arraffare voti, uno dei prezzi da pagare per l'alleanza con Bossi. Diverso il caso della Lega Nord.

La Lega è il fenomeno italiano più vicino a quello di Haider. I due partiti non possono essere analizzati solo sotto il profilo di classe, ma anche e soprattutto sul piano dell'oppressione nazionale. La Lega Nord è un partito che punta ad esprimere il punto di vista "nazionalista" degli italiani del Nord, a difenderli come gruppo di oppressori. Anche il partito di Haider difende innanzitutto gli interessi degli austriaci come nazionalità dominante e solo in secondo luogo gli interessi del capitalismo austriaco, che trova invece la sua più pronta espressione nel Partito Popolare, oggi alleato di Haider. Un partito che rappresentasse sul serio gli interessi della borghesia austriaca senza i condizionamenti del razzismo popolare, non direbbe una parola contro gli immigrati, anzi ne favorirebbe l'entrata e in nessun modo si porrebbe contro l'UE, che rappresenta l'unica possibilità per i piccoli imperialismi europei di competere con l'Asia e gli USA. Del resto anche per Bossi la difesa del capitalismo è certo nel suo programma, ma NON è la sua preoccupazione principale, per questo non si preoccupa, se è necessario, di attaccare la FIAT o altre sacre istituzioni borghesi come la Banca d'Italia.

Certo vi sono momenti storici in cui la borghesia è alle strette ed è dunque costretta ad allearsi con partiti espressione della nazionalità dominante, accade ad esempio quando i partiti borghesi non trovano i consensi sufficienti a portare avanti i loro progetti. La borghesia tedesca ad esempio non era nazista, ma ricorse ai nazisti per infliggere una sconfitta storica al movimento operaio. Così facendo però delegarono la propria rappresentanza ad una formazione politica che non aveva al primo posto la difesa degli interessi del capitalismo ma quelli della nazionalità dominante tedesca e così finì per provocare una guerra dalla quale uscì distrutto il patrimonio industriale tedesco mentre sino all'ultimo giorno i tedeschi si preoccuparono di sterminare gli ebrei.

Haider si muove dunque sullo stesso piano di Hitler, ma con la sostanziale differenza che sono cambiate totalmente le condizioni storiche e dunque diversi ne saranno gli esiti. Speriamo.