Una società che
si rigenera.
Il
dibattito in Parlamento sulla cittadinanza agli immigrati sarà duro ma
il diritto a far parte integrante della società accettandone le regole
favorisce la coesione sociale. Di Mostafa El Ayoubi (Caporedattore della rivista
Confronti)
Fonte: www.riforma.it. Reds - Settembre
2006.
Dopo il rientro
dalle vacanze estive, il Parlamento italiano dovrà discutere il disegno
di legge sulla riforma della cittadinanza per gli immigrati, varato il 4 agosto
dal Consiglio dei Ministri dell’attuale governo. Come prevedibile, sarà
un dibattito molto acceso per le note posizioni sulla questione dell’immigrazione
da parte della destra parlamentare che ha già annunciato una dura opposizione.
Il merito di questa coraggiosa iniziativa va attribuito in gran parte al ministro
della Solidarietà Sociale Paolo Ferrero, che sin dal primo giorno dell’insediamento
del governo di centrosinistra ha dimostrato una grande attenzione al tema dell’integrazione
sociale degli immigrati. Ferrero ha definito il ddl sulla cittadinanza «un
provvedimento che allinea l’Italia ai Paesi civili». Il diritto
alla cittadinanza, ha affermato il ministro della solidarietà sociale,
«è una tessera del mosaico che stiamo costruendo per far sì
che l’immigrazione non sia più vissuta come un dramma o come un
problema di ordine pubblico».
Il centrodestra, invece, ritiene che «la politica del governo sull’immigrazione
rischia di avere conseguenze devastanti». Sono parole del senatore di
Forza Italia Lucio Malan (anche lui valdese come Ferrero). Secondo Malan, accedere
alla cittadinanza significa soprattutto usufruire dell’assistenza sanitaria
e sociale. «Chi ci rimetterà – ha dichiarato – saranno
i contribuenti (italiani, ndr) che dovranno pagare per tutti; i cittadini bisognosi
vedranno passare davanti le famiglie immigrate numerose per fruire dei sostegni
sociali».
Ma qualora passasse questa riforma, sarà veramente più facile
ottenere la cittadinanza? È tutto da vedere! Di sicuro il tempo necessario
per richiederla sarà più breve: 5 anni invece dei 10 previsti
dalla normativa in vigore. Oltre a dimezzare i tempi, il ddl prevede la concessione
della cittadinanza ai bambini nati in Italia da genitori non italiani, se uno
di essi è residente regolarmente in Italia da almeno 5 anni e dispone
di un adeguato reddito; lo stesso vale per i minori nati non in Italia, ma che
ci vivono da almeno 5 anni e che hanno eseguito almeno un ciclo scolastico in
una scuola italiana. Per contrastare il fenomeno dei matrimoni «di comodo»
che consentono di regolarizzarsi e chiedere in seguito la cittadinanza, il disegno
di legge prevede di innalzare da 6 a 24 mesi il tempo necessario per chiedere
la cittadinanza. Si tratta indubbiamente di una discreta riforma voluta da un
governo che, tra l’altro, dispone di una maggioranza molto risicata per
far passare leggi riguardanti temi delicati come quello dell’immigrazione.
Tuttavia, in questo disegno di legge vi sono alcuni punti criticabili. Il più
rilevante è quello di legare il diritto alla cittadinanza al reddito
della persona che lo chiede. Conferire la cittadinanza significa innanzitutto
il riconoscimento dei diritti civili e politici a una persona; non è
quanto guadagna a determinare il suo diritto a partecipare alla vita pubblica.
Inoltre il criterio del reddito riguarda anche i bambini nati in Italia. Ciò
significa, a esempio, che un bambino nato in seno a una povera disgraziata famiglia
di immigrati, non può avere la cittadinanza. L’utilizzo del criterio
del reddito come variabile determinante per l’acquisizione della cittadinanza
è in contrasto con il principio del «ius soli» che il disegno
di legge stesso intende introdurre.
Un altro parametro che condiziona il conferimento della cittadinanza è
la conoscenza della lingua e della cultura italiana. In teoria, chi intende
diventare nuovo cittadino di un Paese deve conoscere la sua lingua e un minimo
della sua cultura. Bisogna riconoscere che molti immigrati peccano nel non impegnarsi
a imparare la lingua italiana. Un immigrato che vive da molti anni in Italia
e non sa dire chi è il sindaco della città in cui vive e lavora,
non sa un minimo della vita politica del Paese; vede, via cavo, solo i canali
televisivi del suo Paese di origine e magari chiede anche che ci sia una scuola
privata dove mandare i suoi figli per seguire un programma scolastico del Marocco,
piuttosto che del Pakistan: perché allora questa persona deve chiedere
la cittadinanza italiana? Questo è un interrogativo che deve interpellare
in primo luogo gli immigrati stessi.
Sempre riguardo alle competenze culturali, un candidato alla cittadinanza italiana,
se non sa dire chi ha scritto la Divina Commedia o in che epoca e dove è
vissuto Leonardo da Vinci, oppure che cosa ha rappresentato Giuseppe Garibaldi
per l’Italia, viene bocciato?
Questi due parametri (il reddito e la conoscenza della cultura italiana) rischiano
di rinforzare ulteriormente il potere discrezionale di cui dispone l’autorità
pubblica e di rendere ulteriormente difficile l’ottenimento della cittadinanza.
Si spera quindi che il regolamento attuativo di questa legge, qualora venga
approvata, tenga conto di questo reale rischio.
Intanto, nella situazione odierna, il tempo di attesa per avere una risposta
può arrivare fino a 4 anni e il tasso delle domande respinte è
molto alto. Secondo i dati del censimento del 2001 gli immigrati che hanno la
cittadinanza sono lo 0,5% della popolazione italiana (nel 68% dei casi sono
donne).
Oggi, nonostante la diversità culturale, etnica e religiosa che caratterizza
l’Europa, la legislazione in materia di cittadinanza è molto in
ritardo. In Spagna, Francia, Regno Unito, a esempio, vige ancora il principio
del «ius sanguinis» basato su una concezione etnica della cittadinanza
per la quale l’appartenenza a una nazione è definita con criteri
etnici (discendenza, lingua e cultura comuni); ciò significa l’esclusione
delle minoranze dal diritto alla cittadinanza. Nel 2002 in tutta l’Unione
europea solo il 2,6% del totale degli immigrati è diventato cittadino
«europeo».
Le inarrestabili dinamiche della globalizzazione ci portano inevitabilmente
a definire un modello di società diversa. Si tratta di un modello «multiculturale»
nel quale un Paese si definisce come una comunità politica che permette
di includere nuovi membri purché essi aderiscano alle regole che disciplinano
l’agire all’interno della comunità stessa. La cittadinanza,
in tal senso, diventa un elemento di coesione sociale, e attraverso l’acquisizione
di nuovi cittadini la società rigenera se stessa e trova le risorse per
progredire.