Sono i nuovi proletari
Sui
motopescherecci che da Mazzara del Vallo si spingono al largo la maggioranza
è tunisina. Nelle fonderie del bresciano c’è l’Africa
occidentale e i capireparto sono ghanesi. Alle pompe di benzina si vedono
bangladesi e pakistani. Nel far west delle autostrade reggono solo i camionisti
dell’est. (di Tonino Bucci, da Liberazione del 20/4/2010) Reds –
Maggio 2010
Sui motopescherecci che da Mazzara del Vallo si spingono al largo la maggioranza
è tunisina. Nelle fonderie del bresciano c’è l’Africa
occidentale e i capireparto sono ghanesi. Alle pompe di benzina si vedono
bangladesi e pakistani. Nel far west delle autostrade reggono solo i camionisti
dell’est. (di Tonino Bucci, da Liberazione del 20/4/2010) Reds –
maggio 2010
Capo, ma perché la macchina me la lava er negro ? La diffidenza si
legge in faccia, il proprietario della Bmw storce il naso nell'immaginare
la sua automobile sotto le mani di un bangladese. Nella stazione di benzina
Q8 di via della Bufalotta, periferia di Roma, lo scenario è come altrove.
La presenza di un senegalese o pachistano o bangladese che sia, in tuta accanto
a una pompa di carburante, è un'immagine ormai usuale. Nella sola area
di Roma e del Lazio almeno un terzo degli addetti è straniero. Ma nelle
stazioni più grandi, per ogni quattro-cinque dipendenti un paio sono
spesso "extracomunitari". Un lavoro troppo umile, e anche faticoso.
Tirar via in piedi tutto il giorno, col freddo o con l'afa agostana, non è
mica uno scherzo. Sarà per questo che gli italiani lo evitano. Ma se
ne potrebbero elencare tantissimi altri, di mestieri che ormai accettano solo
i disperati della gerachia sociale, gli sconfitti nella guerra tra poveri.
I pescatori tunisini a Mazara del Vallo, i camionisti discount che vengono
dall'Est, i sikh che allevano bufale per la mozzarella, gli addetti alle pulizie,
le colf salv-famiglia, i raccoglitori di pomodori, i nigeriani conciatori
di pelle al nord-est, gli egiziani pizzaioli. E poi, ancora, addetti alla
lavorazione dei polli in quel di Verona o alle fonderie nel bresciano, panettieri,
infermieri, facchini, cuochi, lavapiatti. E per finire calciatori, preti e
prostitute. E' frastagliata, articolata, in gran parte ancora da disegnare
la mappa dell'Italia che senza gli stranieri si fermerebbe all'istante. La
descrive, con stile da inchiesta, Riccardo Staglianò, giornalista di
Repubblica e autore per l'appunto, di Grazie , sottotitolo Ecco perché
senza gli immigrati saremmo perduti (chiarelettere, pp. 228, euro 14,60).
Stereotipi, cliché, rappresentazioni caricaturali, fobie, razzismi:
la fabbrica dell'immaginario sforna sulla testa degli immigrati una quantità
di immagini virtuali che impedisce un racconto del paese reale. Lo dimostra
il viaggio di Staglianò per la penisola, il contatto con le situazioni
di vita e di lavoro degli stranieri. La presa diretta con la realtà
basta a sconfessare la narrazione-tipo sugli immigrati prodotta in questi
anni dalla «fabbrica della paura». «Se poi la congiuntura
è calamitosa, come quella in cui viviamo, con il naufragio della classe
media, la scomparsa del posto fisso e le infinite altre precarizzazioni tipiche
della "società del rischio", l' upgrade della paura in terrore
non deve sorprendere». Il girovagare per l'Italia ci porta, ad esempio,
a Nogarole Rocca, tre quarti d'ora d'autobus da Verona. A due chilometri dal
paese, irraggiungibile con i mezzi pubblici, sorge uno stabilimento per la
lavorazione dei polli. Campagna, svincoli autostradali e poi strade strette
dove si incrociano tir e trattori. «Già dalla hall, con i divanetti
verdi démodé su cui nessuno si siede mai, laroma dolceamaro
ti stuzzica il naso. E' solo un'avvisaglia, un antipasto sensoriale».
In America un giornalista del Wall Street Journal ci ha vinto il Pulitzer
solo a raccontare quanto facca schifo questo lavoro. A cominciare dall'odore
che «ti si insinua nelle narici» e dal «pigolare terrorizzato
di polli e tacchini» avviati al patibolo. La nausea «ti riempie
gli occhi quando vedi per terra gli spruzzi di sangue sgorgati dalle loro
viscere». Se c'è Aia c'è gioia , recita lo slogan pubblicitario.
In organico il 43 per cento sono immigrati: 168 nigeriani, 60 ghanesi, 42
marocchini, più uomini e donne di altre 28 nazionalità per un
totale di 412 persone. «Che prima combattono per indirizzare le bestie
vive alla loro via crucis e poi le sigillano, morte, in asettiche buste sottovuoto,
sub specie di petti, cosce e ali». Il problema è che lungo la
linea di produzione (una vera catena di montaggio) possono succedere degli
incidenti per via delle incomprensioni di lingua. «Anche perché
tra un kosovaro e un coreano non sanno da dove cominciare per spiegarsi a
parole». Molti di loro sono disposti a farsi ogni giorno anche sessanta
chilometri col motorino. Ghanesi e nigeriani, poi, sono ricercati per la prestanza
fisica che li «rende indicati all'attacco dei tacchini, i cui esemplari
maschi arrivano a pesare sui 20 chili», racconta un responsabile della
direzione. Si alternano su due turni, di sei ore e quaranta ciascuno, sei
giorni su sette, per 1200-1300 euro che con gli assegni familiari possono
arrivare a 1500. Il primo anello della catena consiste «nel tirare fuori
le bestie vive dalla gabbia di plastica in cui sono arrivate dagli allevamenti
e avviarle alla loro sorte». Dapprima fanno passare le bestie in una
zona illuminata da una luce blu che ha la funzione di sedarle. I tacchini
vengono fatti passare per un cunicolo metallico nel quale viene pompata anidride
carbonica per stordirli. I polli invece vengono tramortiti spingendoli in
una vasca d'acqua con una modesta scarica elettrica. «A quattro metri
da terra, nei condotti sovraffollati di tacchini, cadono addosso ai lavoranti
delle piume solitarie. Ma anche le secrezioni degli animali, come se qualcuno
si divertisse a sputare dal terrazzo. E poi scaglie della loro pelle, pezzi
di mangime, batteri. Qui l'odore è più dolciastro e intenso.
Gli addetti si spruzzano in continuazione la faccia e la tuta con un getto
di aria igienizzante». Il settanta per cento è assunto a tempo
indeterminato, il resto con contratti da sei o nove mesi, come gli avventizi
agricoli utilizzati a seconda delle stagioni per la raccolta dell'uva e dei
pomodori. Quest'ultimi sono stati i primi a saltare durante il periodo dell'aviaria.
Altra regione, altro lavoro. La Sicilia conta quanto metà dell'industria
ittica italiana. Mazara del Vallo pesa da sola mezza Sicilia. «Negli
anni Settanta si stava in mare una settimana, poi sono diventate due, e negli
anni Novanta le cose hanno cominciato a peggiorare ancora e ad allungarsi
le bordate. Oggi si devono fare anche quattro-cinque giorni di navigazione,
arrivare sino a Cipro o in Grecia, prima di gettare le reti. Perciò,
per ammortizzare i costi di gestione, si deve stare fuori più a lungo»,
racconta l'assessore provinciale alla pesca Nicola Lisma. Bisogna spingersi
sempre più al largo alla ricerca, per esempio, del gambero rosso, esportato
in mezzo mondo. Novanta giorni in mare, chi accetterebbe un lavoro del genere?
«Gli italiani l'hanno capito prima e hanno lasciato che i tunisini li
sostituissero. Sui pescherecci sono ormai la maggioranza». Senza di
loro si fermerebbe tutto. «Questo è un lavoro che, se l'hai fatto,
non lo auguri neppure al tuo peggiore nemico», figuriamoci ai figli
- dice Bazine che ha smesso da qualche anno. Benur, invece - cinquantatré
anni induriti dal sole e dal salmastro - lo fa ancora. Però «sono
sei mesi che l'armatore non mi paga. L'ho denunciato ma sin qui non è
successo nulla».A bordo, durante i novanta giorni, non c'è tregua.
Bisogna congelare il pesce e «nel congelatore entri sudato come sei
in coperta, perché non c'è tempo per asciugarsi, vestirsi di
più. Risultato? Quegli sbalzi di temperatura mi hanno fatto saltare
un bel po' di denti, ho il diabete, la pressione alta, anche i reumatismi
e la bronchite cronica». Il cibo non manca, ma è per dormire
che non c'è mai tempo. Come ad Abu Ghraib. Adesso ci stanno provando
con i ghanesi «ma ne funziona uno su mille. Non reggono quei ritmi -
dice ancora Bazine - e alla sette si lavano le mani e si ritirano in cuccetta».
Dopo i ghanesi, in basso nelle gerarchie, ci sono solo i clandestini.
Dal mare alle autostrade. Anche qui c'è una guerra tra poveri. I camionisti
low cost dell'Est, capaci di guidare anche quaranta giorni senza mai prenderne
uno di riposo - hanno sbaragliato la concorrenza. I riposi segnati sul foglio
presenze sono falsi. Finte sono anche le ferie, tanto per dimostrare, in caso
di controlli, che ci è riposati a sufficienza, come vuole la legge.
A queste condizioni resistono solo gli stranieri. «Nelle grosse compagnie,
soprattutto nel nordest che fu patria dei camionisti nostrani, sono ormai
maggioranza». Maggioranza sono pure i raccoglitori di mele a Rallo,
Tassullo, Taio, Tuenno, le stazioni della raccolta di mele in Trentino. I
primi ad arrivare sono stati verso la fine degli anni 80 quelli della ex Jugoslavia,
poi è stata la volta dell'est, oggi arrivano da tutti i paesi.