Immigrazione, è l'ora
dei bilanci
L'incapacità
dei governi italiani di affrontare le problematiche connesse all'immigrazione,
ha prodotto una situazione sociale, dentro cui l'ingiustizia e il degrado
sono gli elementi caratterizzanti, da cui traggono vantaggio i moderni schiavisti
(di Stefano Galieni). Reds – Luglio 2012
Sono passati quasi 14 anni da quel giorno in cui un governo di centro sinistra,
avente come ministro dell’interno l’attuale presidente della repubblica
Giorgio Napolitano, varava un testo unico sull’immigrazione con il voto
di tutto l’allora centro sinistra. La legge 40, meglio nota come Turco–Napolitano
(Livia Turco era ministro per gli affari sociali), si poneva l’ambizioso
obiettivo di far rientrare l’Italia a pieno titolo nella cosiddetta
“Area Schengen”, per regolare la circolazione e la vita dei cittadini
migranti in Europa. Un testo aborracciato, in cui gran parte delle richieste
e delle intuizioni dei movimenti e delle associazioni antirazziste non vennero
recepite che parzialmente. Un testo votato (sbagliando, come ammesso poi successivamente)
anche dal Prc.
Nasceva già quel securitarismo leghista e legato agli ambienti più
reazionari del Paese che venne parzialmente assecondato e considerato plausibile
dai legislatori e da coloro che poi attuarono la legge. Dal testo finale vennero
espunte modifiche sostanziali come quelle per la facilitazione alla cittadinanza
italiana, il diritto al voto; vennero inseriti gli allora Cpt (oggi Cie) per
le persone irregolari da espellere coattivamente e poi, in sede attuativa,
poco si fece per valorizzare alcuni elementi positivi che il testo conteneva
relativi all’inclusione sociale e ai progetti per accettare e far accettare
l’irreversibilità dei fenomeni migratori in Italia.
Gli anni successivi hanno visto ulteriori e drastici peggioramenti: gli elementi
introdotti col nuovo testo unico grazie agli emendamenti che hanno dato vita
alla attuale legge Bossi–Fini, si sono caratterizzati come fattori non
solo volgarmente xenofobi, ma hanno pervicacemente voluto accentuare uno dei
caratteri strutturali che motiva l’esistenza di un testo unico in materia:
una legge sul mercato del lavoro. I peggioramenti introdotti dal 2002 in poi,
attraverso i vari “pacchetti sicurezza” e le vigliacche ordinanze
approvate da “sindaci sceriffi” incapaci e presi dalla miseria
del consenso facile, non solo non sono minimamente riusciti nello scopo dichiarato
– ridurre la presenza di stranieri irregolarmente presenti – ma
hanno accentuato scontri, tensioni, sfruttamento di massa dei lavoratori migranti
sfociati in vero e proprio schiavismo diffuso. Ne è risultata una legislatura
ferruginosa capace solo di intasare questure, tribunali, vite delle persone
e di non consentire un inserimento sereno di milioni di persone che intanto
si trasferivano in Italia.
Laddove le difficoltà divenivano insormontabili, si provvedeva con
l’ipocrisia dei “decreti flussi” (lavoratori che ufficialmente
arrivano dal proprio paese perché chiamati dal datore di lavoro italiano
e che in realtà per lo stesso hanno lavorato per anni in nero) o sanatorie
più o meno camuffate. Come giustamente ripete spesso un valido dirigente
sindacale esperto in materia (Piero Soldini) da noi si «producono stranieri».
Ovvero non si permette di ottenere la cittadinanza neanche per nascita, si
costringe ad una eterna precarietà mediante permessi di soggiorno legati
al lavoro di durata insufficiente, si rifiuta di accettare l’idea che
questo ormai è, come tutti gli altri stati europei, un Paese multiculturale
e non occasionalmente.
Da circa un anno stanno però accadendo fenomeni in controtendenza.
Intanto il securitarismo, lo straniero come capro espiatorio per una crisi
globale e per la trasformazione che avviene nelle nostre città sembra
non avere più presa. Malgrado lo squallore di alcune forze politiche
che hanno costruito la propria identità sulla fabbrica della paura
e malgrado l’insipienza della sinistra moderata, il tema non fa più
facilmente presa, non è più considerato foriero di sciagure
totali. Lo si deve anche al fatto che – malgrado le nostre leggi –
circa 5 milioni di uomini, donne e minori, migranti, sono entrati di fatto
nella società italiana, ne occupano posizioni, nicchie economiche e,
a volte, anche culturali, sociali ecc, con una propria soggettività
individuale. Lavoratori sindacalizzati, donne che sopperiscono al disfacimento
del welfare con il proprio contributo privato, spazi reali all’interno
delle città, ragazzi e ragazze che ripopolano le classi scolastiche
di ogni ordine e grado. Si modifica il nostro linguaggio, si modifica l’approccio,
diventa meno ossessivo, nonostante l’ignoranza mediatica, il timore
delle invasioni.
Restano però spesso condizioni di subalternità dovute alle leggi
tuttora in vigore, ad una logica di sfruttamento e ad una cultura ancora chiusa,
anche a sinistra. E la novità più recente, da questo punto di
vista, sta proprio nel fatto che anche nel mondo della sinistra di governo
prendono piede iniziative, sollecitate anche da una ricca società civile
non rassegnata, ad operare modifiche al presente. I temi sui quali soprattutto
il Pd si sta schierando con nettezza sono due: da una parte l’inclusione
dei migranti stabilmente presenti (cittadinanza per chi qui nasce e cresce
e diritto di voto alle elezioni amministrative); dall’altra una revisione
rispetto a quei buchi neri del diritto che sono i centri di identificazione
ed espulsione dove oggi si può rimanere reclusi fino a 18 mesi senza
aver commesso reati.
Un dato positivo ma, come spesso fa notare il circuito più attivo ed
auto organizzato dell’associazionismo migrante, «la sinistra si
mostra aperta quando è all’opposizione e non interviene quando
governa». Una risposta a questa domanda seria a mio avviso va data e
deve cominciare a crescere sin da ora. Occorre una radicale revisione delle
legislazioni vigenti che guardino in maniera totalmente diversa le persone
che scelgono l’Italia (ma il tema riguarda l’intera Europa) come
paese in cui costruire parte o interamente un proprio progetto di vita. Rivederne
i meccanismi considerando la soggettività delle scelte migratorie e
piantandola con la retorica dell’invasione, predisporre piani veri e
propri di revisione anche dell’assetto sociale in funzione delle nuove
presenze.
Un ragionamento di questo tipo, che non può essere accettato dalla
sinistra moderata sia per ragioni economiche che per inadeguatezza sociale
e culturale, deve vedere la sinistra di classe come protagonista, capace di
avanzare proposte partendo da alcuni elementi imprescindibili. Deve crescere
su questo tema un dibattito pubblico da cui emerga soprattutto la voce del
tessuto migrante, ricco, articolato, variegato e capace di squadernare l’assetto
politico imponendo proprie priorità con cui è urgente e necessario
confrontarsi. Si tratta insomma di recuperare anni persi in indegni dibattiti
istituzionali in cui le figure centrali e dotate di potere decisionale utilizzavano
e utilizzano ancora categorie statiche e insignificanti come “regolare
“ e “clandestino”, laddove mercato del lavoro e reale formarsi
delle relazioni sociali procedono in maniera radicalmente diversa e più
magmatica.
Si tratta insomma di aprirsi ad una sfida: immaginare e praticare contesti
di convivenza fra eguali in cui pesino sempre meno le forme di sfruttamento
non solo economico per chi non è autoctono, in cui le comunità
che di fatto già si vanno costruendo autonomamente vengano istituzionalmente
riconosciute, accrescendo gli spazi di partecipazione reale e di comune responsabilizzazione.
L’immigrazione, che piaccia o no, è un fatto sociale totale,
modifica tutto e tutti e come tale va vissuto. Ovviamente questo significa
anche abrogare le leggi attuali e rendere finalmente impossibile l’esistenza
della detenzione amministrativa e dei centri di espulsione, vero marchio di
infamia dell’intera Europa del ventunesimo secolo.