La scuola della nazione
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Le bambine e i bambini hanno una nazione? Il
dibattito sul velo in Francia e quello sui crocefissi in Italia, le polemiche
sul multiculturalismo e quelle sulla classe islamica al liceo Agnesi di Milano,
si moltiplicano parallelamente all'irruzione sulla scena sociale dei figli degli
immigrati. La loro identità nazionale non è ancora definita e, dunque, è contesa.
Di questa contesa la scuola rischia di divenire lo spazio privilegiato. Lo dimostrano
alcuni episodi accaduti nello scorso anno scolastico: di seguito li esaminiamo
per tentare alla fine una qualche sintesi sulla questione. Di Michele Corsi.
Aprile 2005
Il velo islamico
Dopo aspro dibattito il governo francese ha adottato
una legge che vieta agli studenti di recarsi a scuola ostentando simboli religiosi.
Formalmente la misura si rivolge a tutte le confessioni, nei fatti è
stata varata per impedire che ragazze di fede islamica entrassero in classe
con il velo. Spesso si è fatto ricorso alle "tradizioni di laicità"
dello stato francese per spiegare questa legge. In realtà il "laico"
stato francese riserva alle scuole private (quasi tutte cattoliche) un trattamento
di assoluto favore, impensabile, per ora, in Italia: paga gli stipendi degli
insegnanti delle scuole private, abbattendo così drasticamente il costo
delle rette. E si tenga conto che il numero di studenti delle private francesi
è ben superiore a quello italiano. Dopo un primo momento in cui sembrava
che la legge dovesse applicarsi anche alle scuole private, il governo ha lasciato
perdere e dunque: le scuole cattoliche francesi possono "ostentare",
quelle pubbliche, frequentate in massa dagli studenti di origine araba, no.
Si è detto che il divieto viene incontro ad
una esigenza delle stesse ragazze, costrette dalla famiglia ad indossare il
velo. Le ragazze islamiche però non sono certo le uniche a vedersi imporre
dai genitori la maniera in cui vestire, e lo stato non ha varato alcuna legge
per tutelare la libertà dei giovani di vestirsi come pare loro. Al contrario,
discriminando le sole ragazze islamiche, lo stato francese sta già creando
un riflesso "etnico", una unità difensiva padri/figli che ostacolerà
nelle famiglie islamiche la possibile e normale dialettica generazionale. Non
difendiamo il velo, stiamo solo affermando che uno Stato come quello francese
(o italiano) che tollera la più totale mercificazione del corpo femminile
(dalla pubblicità ai programmi televisivi), non può farci credere
di essere improvvisamente diventato "femminista". La realtà
è un'altra.
La decisione di proibire l'"ostentazione" di simboli religiosi in
classe, come si sa, è scattata quando nel settembre dell'anno scorso
salirono alla ribalta una serie di casi di ragazze che preferivano non andare
a scuola pur di non rinunciare al velo. Quel che il governo gaullista (ma anche
gran parte della sinistra all'opposizione) vuole scoraggiare, è la possibilità
che si costituisca un'identità nazionale "altra" rispetto a
quella francese "classica". La Francia è alle prese con una
crescente fetta della popolazione di origine araba. Il riflesso "di pancia"
della Francia profonda è Le Pen, che gli immigrati li vuol cacciar tutti,
ma è una strada che i poteri forti e la borghesia "illuminata"
non possono permettersi di intraprendere, dato che di manodopera a basso costo
han pur bisogno. Vogliono però che il loro Stato continui a mantenere
un sentimento nazionale unitario, cioé il loro. In quest'ottica "stato"
e "nazione" sono due termini che in qualche modo devono esser fatti
coincidere. E' anche la ragione per cui tutti i governi d'Oltralpe si sono sempre
fortemente opposti a sia pur minime concessioni nei confronti delle minoranze
nazionali "territoriali" (baschi, catalani, bretoni, corsi). Uno Stato
al cui interno proliferano differenziazioni nazionali (a base linguistica, religiosa,
o altro), specie nei momenti di crisi, può minare alla radice le sue
ambizioni di grande potenza, che deve sempre garantirsi alle spalle una ferrea
unità nazionale. La religione può essere un elemento culturale
intorno al quale si produce una linea di rottura "nazionale" nella
Francia di oggi, differenziando un gruppo sociale vasto, in espansione, demograficamente
dinamico, coeso: quello degli "islamici" contrapposti ai "francesi
doc". Se questa separatezza culturale coincide con una omogenea condizione
di classe, come ad esempio negli Usa è il caso degli afroamericani, allora
le preoccupazioni governative aumentano: le lotte dei neri americani hanno procurato
scosse allo stabilità dello Stato Usa ben più consistenti dei
tradizionali conflitti di "classe". E le banlieus francesi piene di
figli di immigrati sono sempre più simili ai ghetti neri statunitensi.
Quello del governo francese dunque è il disperato tentativo di ridimensionare
il potenziale dell'islam come fattore di aggregazione etnica, per ridurlo a
"normale" fatto di religione, così come in Germania da secoli
la divisione dei tedeschi tra cattolici e protestanti non è causa di
instabilità sistemica, nemmeno nei momenti di più grave crisi
sociale. Ma proprio l'aver individuato gli islamici come "blocco"
e come "problema", senza averlo fatto per i cattolici là dove
essi sono forti (le scuole private), caratterizza quella legge come un'operazione
che non è "neutra" sul piano culturale: è l'azione della
nazione dominante, "francese doc": laica o cattolica, ma bianca e
senza ascendenze arabe. Come accaduto innumerevoli altre volte nella storia,
ciò innescherà una reazione difensiva "etnica", aumentando
la capacità unificante dell'islam sul suolo di Francia, incoraggiando
a considerare la religione un utile "cappello" per ripararsi dall'offensiva
di chi discrimina sul piano della distribuzione del reddito e del potere all'interno
della società. Soffermiamoci in breve su questo fenomeno sociologico.
Un gruppo etnico individua se stesso come gruppo "separato" dagli
altri in due casi: quando deve mantenere dei privilegi dall'"invasione"
territoriale di altri gruppi, o quando deve difendersi dagli attacchi degli
altri. La spinta identitaria cioé può essere "offensiva"
o "difensiva". Senza scontro tra etnie l'identità etnica di
un individuo è estremamente vaga, e comunque non viene vissuta in contrapposizione
a quella degli altri. Quando un immigrato algerino arriva in Francia, spontaneamente
cerca di inserirsi in quella società, perché trova ciò
conveniente sul piano materiale. Ma nel momento in cui gli "autoctoni",
lo individuano come problema, perché parte di un gruppo separato, concorrente
sul piano della distribuzione del reddito e di altre prerogative, la sua reazione
sarà quella di coalizzarsi insieme a tutti coloro che condividono la
stessa condizione di discriminazione. Oggi il tratto identitario individuato
come "pericoloso" dall'etnia dominante in Francia e in tutto l'Occidente
è quello "islamico". Ma se l'elemento caratterizzante fosse
stato l'essere "arabo" stiamo pur certi che ciò avrebbe provocato
un agglutinamento identitario difensivo intorno all'elemento linguistico e culturale
arabo. Il problema non è la crescita dell'islam in Francia: al contrario,
è il crescere dell'ostilità antislamica in Occidente che crea
una reazione difensiva identitaria uguale e contraria.
La questione del crocefisso
Si ricorderanno le polemiche sul crocefisso nelle aule scolastiche e l'"incoraggiamento"
della Moratti alla sua diffusione. Nel mese rovente di quel dibattito i sondaggi
mostravano l'esistenza di una sorta di isteria collettiva degli "italiani"
in difesa del "proprio" simbolo religioso. Le apparenze sembrerebbero
indicare che si tratta di un caso diverso dal quello francese: là un
governo scoraggia l'ostentazione religiosa, qui un altro fa l'opposto. Non è
così.
Come abbiamo visto, quella francese è una legge "antiislam",
in uno Stato il cui carattere nazionale dominante, e la corrispettiva ambizione
di potenza, non è dato dalla religione. Il compromesso di potere dello
stato francese di impronta gaullista si basa sul fatto che alle scuole cattoliche
si passano un mucchio di soldi, in cambio di una non interferenza della Chiesa
nelle questioni politiche. Al contrario lo stato italiano si è strutturato
intorno ad un compromesso con la chiesa cattolica che perdura in maniera ininterrotta
dal fascismo, e che assegna a quella religione una serie di privilegi "monopolistici"
(economici, fiscali, culturali, ecc.), in cambio di una interferenza positiva,
cioé di un appoggio attivo, nei confronti delle elites politiche. Questo
scambio è alla base del carattere largamente formale della laicità
del nostro Stato. Per questo la religione cattolica è considerata dai
più un dato fondante dell'identità "nazionale" italiana.
Gli stessi ebrei italiani ne fanno le spese: periodici sondaggi ribadiscono
come per una parte consistente dei nostri cittadini, essere "ebrei"
è cosa diversa dall'essere "italiani". Viviamo in uno stato
"laico" dove i bambini sono costretti sin dalla materna a due ore
di catechismo cattolico. L'ora alternativa è una farsa: i genitori intenzionati
ad avvalersene sanno per esperienza come sia penoso per un bambino essere separato
dai propri compagni per non fare, nella gran parte dei casi, nulla, dato che
tante scuole non si preoccupano o non hanno la possibilità di proporre
alternative vere.
Del crocefisso in sé, alla gran parte degli italiani (di cui non più
del 15% frequenta la Messa) non importa un bel nulla. Quindi, dal punto di vista
"morale", si tratta di una difesa oscena, perché scollegata
da qualsiasi valore evangelico realmente vissuto e condiviso. L'insurrezione
a favore del crocefisso c'è ora e non c'è stato prima (quando
pure il crocefisso era assente da tante scuole) perché prima "gli
altri" (gli immigrati, gli arabi, l'islam) non c'erano. Imporre il crocefisso
signica da parte degli "italiani" affermare: questa scuola è
"nostra", è la scuola degli "italiani". E' una reazione
"etnica", tribale. E' la difesa dei confini territoriali della "nostra"
tribù, da quelli degli "altri". Del resto il governo italiano
è quello che in sede europea più si è battuto perché
nella Costituzione UE fosse indicata l'origine cristiana delle radici europee.
E non è solo colpa di Berlusconi, sappiamo che anche parte del centrosinistra
avrebbe accondisceso alle richieste vaticane.
Proprio per la problematica "etnica" che sta dietro alla questione
"crocefisso" anche quotidiani "laici" come il Corriere della
Sera hanno preso seccamente posizione a favore della sua affissione in ogni
dove. Ernesto Galli Della Loggia e Angelo Panebianco, due tra i maggiori editorialisti
del quotidiano di via Solferino, ragionano da tempo sulle carattristiche della
"identità italiana", insieme ad altri "pensatoi",
come ad esempio l'equipe della rivista Limes. Si chiedono come mai l'Italia,
pur avendone tutte le potenzialità, non sia ancora uno Stato potente
quanto la Francia o il Regno Unito o la Germania. La conclusione alla quale
sono giunti è che la causa risiede nella debolezza dell'identità
italiana. Troppe volte, dicono, l'Italia si è divisa nei momenti cruciali
tra "guelfi e ghibellini", troppo timidi siamo nel dar valore alla
"difesa dell'interesse nazionale". L'identità francese è
data dall'assunzione, per intero, di tutta la sua storia e dalla lingua, quella
tedesca dalla sua territorialità e dalla sua lingua, ecc. Queste identità
"forti", dicono, rendono più concrete la proiezione di potenza
dei loro Stati, perché nei momenti di crisi essi non si dividono, e uniti
affrontano la sfida nei confronti degli altri stati-nazione. Dunque, secondo
questi intellettuali, l'elemento portante della debole identità nazionale
italiana non può essere la sua storia perché "divide"
(ragion per cui Panebianco all'epoca del governo di centrosinistra aveva fatto
fuoco e fiamme contro lo studio del Novecento a scuola), e nemmeno la lingua,
in un Paese in cui fino a cinquant'anni fa la gran parte della gente parlava
in dialetto. Per questo, secondo loro, la religione cattolica non può
che essere un elemento essenziale di definizione dell'"italianità".
Si badi bene: da parte di costoro non vi è alcun autentico interesse
spirituale. Del cristianesimo e dei suoi valori non interessa loro proprio un
bel nulla. Anzi: polemizzano spesso con la Chiesa quando questa, preoccupata
dei suoi interessi globali (perché la Chiesa non sta solo in Italia,
e dunque non ha intenzione di legarsi ai destini di una sola nazione), prende
posizione contro la guerra. In maniera un po' più rozza e più
stupida, anche la Moratti si pone gli stessi obiettivi, e li traduce in decreto:
si ricorderà che la sua legge di riforma prevede lo studio della civiltà
italiana, europea e... basta.
La logica che presiede al divieto del velo in Francia, dunque, è assolutamente
identica a quella dell'imposizione del crocefisso in Italia. Per farla breve
qui non si è vietato il velo perché il crocefisso, nella guerra
dei simboli che caratterizza ogni scontro "etnico", è stato
incaricato di "proteggere" la nostra identità.
Le polemiche contro il multiculturalismo
La stessa logica può spiegare gli attacchi nei confronti delle esperienze
didattiche "multiculturali". E' bene soffermarsi sul termine "multiculturale",
che non coincide con quello di "integrazione". Una politica che sia
solo di "integrazione", deve essere definita in realtà come
"assimilazionista": essa considera il bambino immigrato una sorta
di tabula rasa, sulla quale costruire un'identità, la nostra, in modo
che possa "come noi", integrarsi nella società, cioé
nella "nostra" società. L'approccio multiculturale invece ingloba
il concetto di integrazione (è importante dare al bambino immigrato tutti
gli strumenti per comprendere e dialogare con la società che lo circonda),
ma lo supera in avanti: ritiene il bambino immigrato un portatore di un'altra
cultura, valorizza questa "biculturalità", e la considera una
risorsa per tutti.
Sulla questione, Ernesto Galli della Loggia il 9 luglio aveva scritto un editoriale
sul Corriere della Sera dal titolo: "Il pregiudizio multiculturale".
Se la prendeva con l'assessore all'istruzione della Regione Campania, Angela
Buffardi, che qualche giorno prima aveva difeso la possibilità per le
scuole campane di chiudere anche in occasione delle festività "straniere"
(Capodanno cinese, fine del Ramadan, ecc.). E scriveva: "E' lecito che
la scuola pubblica italiana abbia come scopo primario la trasmissione a tutti
i suoi studenti - anche a quelli provenienti da altre culture - dei fondamenti
della cultura italiana e occidentale in genere, dei caratteri basilari dell'identità
culturale italiana? E se sì, non è forse vero che a definire una
cultura concorrono in maniera decisiva le feste, le ricorrenze simboliche collettive
in cui essa tradizionalmente si riconosce? E che dunque in una scuola italiana
è perfettamente sensato che le feste riconosciute siano quelle della
tradizione italiana?". La sostanza dell'argomentazione è che noi
italiani e occidentali abbiamo troppa difficoltà ad ammettere quel che
sarebbe evidente: la superiorità della nostra cultura su quella di tutti
gli "altri", per questo Galli della Loggia attaccava il "luogo
comune multiculturale" secondo il quale "le differenze tra culture,
pur evidentissime, non possono mai essere considerate come differenze valoriali"
e che sulle culture "è vietato esprimere qualunque giudizio di valore".
E prosegue con esempi involontariamente anche un po' comici: "una cultura
che ha elaborato la categoria della divisione dei poteri è migliore (sì,
migliore) di una che non conosce questa categoria" come sarebbe appunto
quella islamica. Il che, detta nel regno di Berlusconi...
Anche la chiesa cattolica, nelle sue varie correnti interne, è globalmente
allarmata da tutto il fenomeno islam e si allinea dunque in generale agli attacchi
al multicultaralismo, ma con altri scopi. Il suo fine non è quello di
rafforzare lo "stato-nazione" d'Italia in vista dei suoi grandi destini,
dato che si tratta di una religione con ambizioni planetarie, ma più
semplicemente quello di continuare a garantirsi la rendita di profitto, che
le deriva dall'essere considerata parte integrante della identità italiana.
Per questo contro la giunta campana, e dunque contro la legittimazione di feste
non cristiane, si sono espressi duramente tanti esponenti cattolici, dal cardinale
Ersilio Tonini ad Antonio Riboldi ( "non si impongono a tutti i diritti
di pochi").
Gli stessi attacchi (Panebianco sul Corriere) li hanno subiti anche quelle pochissime
esperienze didattiche che favoriscono l'insegnamento dell'arabo nelle scuole
a forte immigrazione. Lo spirito di questi attacchi è simile a quello
che hanno ispirato la campagna che in Usa sta portando allo smantellando uno
dopo l'altro di tutti i programmi scolastici bilingue inglese-spagnolo. Agli
stranieri dunque si chiede rapidamente di rinunciare alla propria cultura, in
ogni suo aspetto, di spogliarsi della propria identità e di assumere
la nostra. Lingua o religione, è lo stesso: sotto accusa è qualsiasi
elemento identitario che incoraggi la formazione di un gruppo "altro".
La vicenda della “classe islamica” all'Agnesi
All'inizio di luglio il preside del Liceo di scienze sociali "Gaetana Agnesi"
di Milano annunciava che a settembre avrebbe istituito una classe riservata
soltanto a musulmani, provenienti dalla scuola islamica di via Quaranta, su
richiesta dei loro genitori. Ci sarebbe stata una classe di soli islamici in
una scuola di classi "miste". Come risulta chiaro dalle interviste
rilasciate poi ai giornali, sia il preside che gli insegnanti della scuola erano
animati dalle migliori intenzioni: per loro si trattava di evitare che quel
gruppo di ragazzi e soprattutto ragazze smettessero di studiare. Questi operatori
scolastici si rendevano conto che la soluzione non era la migliore, ma solo
ottemperando alle condizioni poste dalle famiglie poteva essere garantita la
prosecuzione degli studi. Chi fa scuola sa che in una situazione di progressivo
sfascio della scuola pubblica, gli operatori scolastici sono spesso costretti
a mettere "pezze" in un precario equilibrio, tra norme, abbandono,
famiglie, esigenze e diritti dei bambini. La scelta però era sbagliata
e lo si deve dire in termini molto netti.
La separazione non è certo un approccio "multiculturale": quest'ultimo
avrebbe previsto una revisione dei programmi, l'insegnamento dell'arabo, e la
presenza anche di alunni italiani in modo da garantire lo "scambio"
e il confronto tra diversi. Nel progetto dell'Agnesi invece i programmi sarebbero
stati identici a quelli delle altre classi, e l'unico elemento caratterizzante
sarebbe stato l'isolamento degli islamici da tutti gli altri. Anche se a volte
strumentalmente, non del tutto a torto si è parlato di "classe ghetto".
Questo progetto avrebbe creato un pericoloso precedente. La classe nasceva sulla
base di un out out da parte dei genitori ("o classe separata o mio figlio
sta a casa"): la generalizzazione di questo metodo porterebbe a disastri.
Non solo ogni corrente religiosa richiederebbe la "propria" classe,
ma prima o poi salterebbero fuori anche i genitori che assicurerebbero l'iscrizione
dei propri figli a quel certo istituto "solo se" fosse loro garantita
una classe di "bravi", o dove non vi fossero stranieri. Sappiamo che
esistono forme anche molto sottili, e che vengono usate da tante scuole, per
"differenziare" una classe, e farla diventare quella "privilegiata".
In altre, all'opposto, sappiamo che stanno crescendo le tentazioni di istituire
la classe degli "stranieri", per concentrare le difficoltà
in un solo spazio, e "liberare" gli altri. In poche parole le motivazioni
alla base dell'intervento erano buone, la soluzione trovata: pessima.
Quel che è interessante della vicenda è però la reazione
furibonda che il progetto ha scatenato. Una reazione "etnica". La
tribù degli italiani (bianchi e cristiani per "definizione")
si è sentita in pericolo: gli "altri" stanno alzando troppo
la cresta. Si badi bene: un tale clima di mobilitazione da parte di certi partiti,
quotidiani ed intellettuali non l'hanno creata le soppressioni di classi a tempo
pieno, le scuole che cadono a pezzi, l'emergenza degli istituti di periferia.
Su questi temi costoro non hanno mai speso una parola. La reazione dunque non
ha nulla a che vedere con ansie di miglioramento dell'offerta della scuola pubblica.
Essa ha un'impronta strettamente etnica, tribale. Anche se, come vedremo, sono
state utilizzate spesso argomentazioni "di sinistra".
A parte la Lega (che ha assunto in pieno la natura etnica del confronto esprimendo
senza giri di parole la volontà di annientamento di tutto ciò
che non è bianco e cristiano), tutte le reazioni hanno adottato argomentazioni
"multiculturali" per deprecare il progetto: denunciavano dunque la
classe-ghetto dell'Agnesi perché rinunciava allo "scambio"
e al "confronto" culturale. Il carattere strumentale di queste affermazioni
è risultato palese nel momento in cui costoro, mentre tessevano le doti
dell'interculturalità, difendevano allo stesso tempo il crocefisso nelle
aule scolastiche. Infatti l'unica "novità" della classe con
alunni islamici era l'assenza del crocefisso dalle pareti scolastiche. E ciò
ha contribuito grandemente ad allarmare i più, proprio perché
simbolicamente rappresentava la rinuncia dello Stato a catechizzare, e dunque
a rendere "italiano" chi frequentava quella classe. Anche settori
normalmente impegnati sul fronte dello scambio intereligioso (Sant'Egidio, Comunità
di Bose, vedi Corriere del 12 luglio) condannavano allo stesso tempo la classe
di soli islamici e la possibilità che il crocefisso venisse staccato.
Tali prese di posizione incoraggiano chiunque non si riconosce nel mix di elementi
culturali che qualcuno ha deciso debba considerarsi "tipicamente italiano",
a pensare che la multiculturalità va bene solo se è unidirezionale.
Va bene per costringere gli "altri" a fare i conti con la "nostra
cultura", va male quando le altre culture devono essere trattate alla pari
con la nostra.
Anche Claudio Magris in un lungo intervento del 12 luglio sul Corriere dal titolo
"Gli autosegregati nella scuola di tutti" non si sottrae alla logica
in base alla quale i simboli degli altri sono sempre pericolosi e denunciano
volontà di separazione, mentre i propri esprimerebbero valori universalistici.
Magris enuncia all'inizio del suo pezzo tutta una serie di argomentazioni del
tutto condivisibili del tipo: "La scuola non ha da insegnare a credere
in Cristo o in Maometto, ma dovrebbe contribuire a formare un individuo capace
di di accostarsi liberamente e spiritualmente ai grandi interrogativi dell'esistenza"
e "La scuola non può che essere laica, perché laico indica
colui che credente o ateo sa distinguere ciò che compete alla ragione,
ciò che riguarda la Chiesa e ciò che riguarda lo Stato",
poi imprevedibilmente afferma: "solo una mente ottusa può scandalizzarsi
che in una scuola del nostro Paese ci sia un crocefisso, perché il cristianesimo,
come diceva un non credente quale Benedetto Croce, fa parte della nostra civiltà,
a prescindere dalle nostre opinioni. Sarebbe un intollerabile sopruso costringere
gli scolari alla devozione nei confronti di quel crocefisso, ma lì appeso
al muro, esso non fa male a nessuno". Proviamo a immaginare l'arabo che
ha letto quell'articolo: come può evitare di pensare che tutta la tirata
laicista era dedicata a tenere alla larga la sua identità, ma solo per
garantire, in chiusura, col simbolo del crocefisso, il carattere unietnico della
scuola? L'affermazione che il crocefisso "non fa male a nessuno" è
di una volgarità senza limiti. Se si pensa che come simbolo valga poco
non si capisce perché farne argomento da crociata, se lo si carica di
significati simbolici, i nostri, non ci si può stupire che altri, di
altre culture ed altri simboli, non vi si riconoscano. Il problema per i difensori
della tribù bianca, occidentale e cristiana è che la nostra identità
culturale deve assolutamente essere accettata e fatta propria dagli "altri".
Magris, significativamente, conclude: "Gesù non ha fondato una loggia
esclusiva ma ha mandato gli apostoli ad annunciare, senza imporla, la Buona
Novella. Quegli alunni autosegregazionisti dell'Agnesi dovrebbero sapere che
quell'uomo crocefisso, che essi hanno fatto togliere, per la loro religione
è un grande profeta da venerare".
Dietro alla guerra dei simboli c'è, anche in Italia, un'enorme partita
che riguarda i destini della "nazione". Gli "italiani" di
figli ne fanno pochini e l'aumento demografico (fondamentale attributo di potenza)
della "nazione" è affidato ... agli immigrati di altre nazioni.
Questi figli devono essere rapidamente assimilati, cioé "italianizzati"
e la scuola diventa il terreno privilegiato di questa sfida. Vi sono negli istituti
italiani 232.766 alunni stranieri, provenienti da 189 paesi diversi. Tra il
2001/2002 e il 2002/2003 vi è stato un aumento del 28% di alunni stranieri.
Il 16 luglio sul Corriere il professor Giancarlo Blangiardo, demografo della
Bicocca, affermava: "Gli italiani scompariranno? Bisogna decidersi su che
cosa s'intende per italiano. La partita si gioca sulle seconde generazioni.
Se un bambino di origine marocchina nasce in Italia, tifa per la squadra di
calcio locale, ha l'accento del luogo dove vive, va a scuola con i figli degli
italiani, è italiano a tutti gli effetti. Se sapremo valorizzare l'apporto
demografico in termini di seconda generazione, l'italiano non scomparità
affatto, anche se avrà la pelle scura". La partita cioé è
quella di utilizzare le capacità prolifiche degli immigrati, imponendo
però la nostra identità culturale ai loro figli. Perché
solo così, come dicevamo più sopra, si rafforza l'unità
dello stato-nazione. Gaspare Barbiellini Amidei ha scritto sul Corriere: "la
via dell'autosegregazione è civilmente disastrosa per un Paese che affida
agli immigrati la propria sopravvivenza demografica. Ma che cosa facciamo, vogliamo
allevare centinaia di migliaia di giovani esclusi dal metabolismo nazionale?".
Un'ulteriore dimostrazione che ad animare l'opposizione alla classe con allievi
islamici sia stata una reazione etnica, sta negli accadimenti successivi alla
bocciatura del progetto da parte della Moratti a metà luglio. A quel
punto infatti le comunità islamiche hanno cominciato a progettare proprie
scuole parificate. Non è una reazione che condividiamo per le ragioni
che diremo più sotto, ma essa nasce da una lettura assolutamente corretta
dei fatti di luglio, una lettura "etnica". A quel punto però
si è creato ulteriore scompiglio tra le fila degli oppositori del progetto
dell'Agnesi: infatti, se gli islamici creano le "loro" scuole, come
farà la tribù dominante ad italianizzarne i figli? Gli allarmati
sono stati così costretti ad utilizzare argomentazioni che rasentano
il ridicolo: si tratta infatti della stessa gente che a suo tempo è scesa
in campo a favore del finanziamento alle scuole private cattoliche, e che ora,
improvvisamente, scopre le virtù della scuola pubblica. Ecco cosa scrive
sul Corriere, tra i tanti, Barbiellini Amidei: "Una scuola paritaria confessionale
finisce per negare ai ragazzi il confronto con il pensiero altrui, il colloquio
con coetanei di altre culture e fedi". Eppure la logica che presiede alle
scuole private cattoliche è assolutamente identica: i genitori impongono
ai propri figli l'iscrizione a quelle scuole, proprio per tenerli separati dagli
altri e dalla contaminazione con altri sistemi valoriali. Quando chiedono soldi
alle private, le associazioni cattoliche invocano la "libertà di
scelta" da parte delle famiglie. Bene: se il principio è questo,
perché tale "libertà" non dovrebbe valere per le famiglie
islamiche? Due pesi e due misure. Sergio Romano, il 20 luglio, sempre sul Corriere,
utilizza argomentazioni più sofisticate. Non nega la possibilità
legale che vengano istituite da gruppi islamici scuole parificate, così
come del resto esistono quelle cattoliche, ma "consiglia" gli arabi
di non farlo perché invece di "prepararsi ad affrontare la vita
italiana, i ragazzi verranno nutriti di pregiudizi, allevati a ignorare le virtù
del Paese che li ospita, predisposti a condurre una esistenza separata. Anziché
ripagare i sacrifici dei loro genitori con un salto in su nella scala sociale,
saranno condannati a restare nei gradini più bassi e a rifare il mestiere
del padre". Romano fa leva su quello che è il vero dramma delle
famiglie immigrate, gran parte delle quali in realtà farebbe di tutto,
anche rinunciare alla propria identità, pur di veder integrati i propri
figli nella tribù del più forte. Ma anche questa strada è
negata loro nei fatti, perché i tagli al welfare (che Romano ha sempre
sostenuto) rendono impraticabili i consistenti investimenti che sarebbero necessari
per quel tipo di politica. Ad esempio a Milano sono stati tagliati tutti i progetti
per l'alfabetizzazione dei bambini stranieri.
Ma non è finita qua. Le associazioni islamiche le loro scuole ce le hanno
e altre ne stanno istituendo anche senza la "parificazione". E i loro
alunni risultano dunque evadere l'obbligo. Accortisi del "trucco",
il fronte italo-cattolico, per la prima volta in Italia da anni, ha ricominciato
a parlare di "obbligo scolastico". Allarmati, i politici e i giornali
hanno scoperto che a Milano ci sono 3000 bambini che non vanno a scuola. Evitano
accuratamente di dire che la riforma Moratti vuole eliminare persino la dizione
di "obbligo", e che nell'attesa esso è stato portato da 15
a 14 anni. In poche parole senza la riforma Moratti i genitori dei ragazzi di
via Quaranta, come quelli di qualsiasi strada milanese, sarebbero stati "obbligati"
a iscrivere i propri figli ad una scuola superiore. Il solito Barbiellini Amidei
che ha sprecato fiumi d'inchiostro ad incensare la riforma Moratti, e dunque
l'affossamento dell'obbligo, ha il coraggio di scrivere sul Corriere del 14
luglio: "Per chi vive con la famiglia in Italia far studiare i figli non
è un optional, la scuola dell'obbligo ha soglie di età e sanzioni
per le inadempienze". Come si vede, anche la tematica progressista dell'obbligo,
è utilizzata strumentalmente in chiave "etnica" per stringere
in un angolo e non lasciare alcuna possibilità a chi è "straniero":
egli deve andare a scuola, vedersi imporre simboli che non gli appartengono,
dimenticare la propria lingua, e solo agli italiani "veri" è
concesso di potersi costruire proprie scuole private, anche se sono scandalosi
diplomifici. L'importante è che il crocefisso sia ben saldo alla parete.
Conclusioni
Dobbiamo dircelo: questi temi disorientano le forze progressiste. Prevalgono
tesi contraddittorie, imbarazzi, silenzi. Ci sono ragioni precise che lo spiegano,
ma qui non ce ne occupiamo. Ci limitiamo a suggerire delle strade ad uso di
chi vuole sottrarsi allo scontro tribale continuando a fare scuola, e non guerra
con altri mezzi. Quando in ballo ci sono questioni "etniche", le risposte
devono essere nette, anche se si tratta di risposte difficili. Chi fa scuola
deve domandarsi: da che parte sto? Sto dalla parte delle ambizioni di potenza
dell'Italia e dell'Occidente, o dalla parte delle bambine e dei bambini, tutti?
Curo gli interessi dello stato-nazione al quale appartengo, o quello dei miei
allievi, che hanno tante nazioni?
a. La questione dell'obbligo scolastico
è centrale. Esso non è un retaggio della cultura occidentale,
e tantomeno di quella italiana. Infatti, dopo la riforma Moratti, nel nostro
Paese l'età dell'obbligo scolastico è inferiore a quella della
gran parte dei Paesi arabi. Si tratta semplicemente di un diritto delle bambine
e dei bambini. Essi sono portatori di diritti inalienabili, diritti che sono
calpestati sistematicamente da tutte le culture. "Obbligo" significa
innanzitutto che i figli non sono proprietà privata dei genitori, ma
che l'intera comunità è responsabile del loro destino. La battaglia
per l'innalzamento dell'obbligo deve tornare ad essere una priorità.
Le scuole, anche quelle superiori, devono potersi riempire dei ragazzi di ogni
colore. Naturalmente "obbligo" significa anche "gratuità",
altrimenti è solo una penalizzazione per le famiglie a reddito più
basso, e tra queste ci sono gran parte delle famiglie straniere.
b. Per i bambini stranieri l'impatto
con la nostra società è terrificante. Non è solo un problema
di differenze culturali, è che la precarietà materiale nella quale
spesso si trovano non favorisce nemmeno la semplice comprensione di quel che
sta loro accadendo. Le famiglie infatti, spesso spezzate, in crisi, impegnate
in lavori estenuanti, ecc. non sono in grado di costituire un valido supporto,
perché esse stesse mal integrate. Non vi è dubbio sul fatto che
è interesse di questi bambini impadronirsi in maniera rapidissima della
lingua italiana. Ciò consentirà loro di poter comunicare, e, anche,
di poter rivendicare e protestare. Siamo colmi di rabbia quando pensiamo che
lo stesso ministero che aveva inizialmente approvato il progetto della classe
di alunni islamici è lo stesso che ha tagliato tutti i progetti di soccorso
linguistico degli alunni stranieri a Milano. Centinaia di insegnanti milanesi
erano distaccati sino a tre anni fa su progetti di inserimento. Oggi non ve
ne sono più. E nelle scuole si consumano silenziosi drammi di centinaia
di bambini costretti, senza nessuno che li aiuti, ad assistere a lezioni delle
quali non comprendono una parola. Non si deve far ricorso a enti locali o al
volontariato: si devono finanziare le scuole, perché chi insegna agli
stranieri deve essere parte della vita della scuola, partecipare ai consigli
di classe, contribuire alla elaborazione del pof. Per far ciò occorrono
soldi e risorse alle scuole, non tagli.
c. Allo stesso tempo però non
è interesse del bambino immigrato perdere completamente l'identità
nazionale d'origine. La perdita della padronanza della lingua madre è
rapidissima senza che ciò coincida necessariamente con un proporzionale
aumento delle competenze linguistiche in italiano, e ciò si traduce in
una generale difficoltà a comunicare. Questo bambino vive comunque con
genitori, parenti, e reti di conoscenza non "italiani". Nella scuola
si trova in un ambiente diverso, completamente italianizzato. Un bambino che
dal punto di vista identitario non sa più chi è, è una
persona in difficoltà, anche sul piano degli apprendimenti. Per questo
è importante valorizzare la sua cultura di origine, oltre che fargli
conoscere quella di accoglienza. La scuola milanese ha dato vita a parecchie
esperienze di questo tipo, in parte spazzate via dalla Moratti (ad esempio "Il
mondo in un piatto di festa"). Grazie al putiferio suscitato dalla vicenda
dell'Agnesi si sono potute conoscere esperienze interessanti, come quelle del
circolo Ajello a Mazara del Vallo dove la comunità tunisina è
molto forte: tutti i bambini anche quelli italiani possono scegliere di studiare
l'arabo, fin dal primo anno, come lingua estera. E il crocefisso? Nelle aule,
racconta il direttore, ci sono simboli di tutte le culture. Non è interesse
della scuola, e di tutta la cittadinaza, che ci sia sempre più gente
in grado di padroneggiare due lingue, invece di una? Perché demonizzare
l'arabo, quando la riforma Moratti di lingue straniere da studiare fin dalle
medie ne impone due? Perché spagnolo, francese e inglese sì, e
cinese e arabo no nonostante vi sia ormai una utenza che potrebbe avvalersi
di questa opportunità? Gli operatori della scuola non devono aspettare
troppi permessi dall'alto per sollecitare e istituire corsi di arabo, cinese
ed altro nelle scuole, per organizzare un calendario scolastico che preveda
il rispetto delle festività ebraiche, arabe o cinesi, o per offrire sistematicamente
unità didattiche, anche non inserite nei programmi ufficiali, che affrontino
la storia e la cultura delle nazioni di origine degli alunni della propria classe.
d. L'approccio multiculturale è
interesse anche per le bambine e i bambini "italiani". Vogliamo che
i bambini italiani siano svegli o rimbambiti? Un bambino sveglio, in una società
che aumenta grandemente la velocità di comunciazione, è un bambino
che sa muoversi, abituato a trattare con persone di diversa provenienza ed estrazione,
perché ne conosce la psicologia e i punti di vista, perché ci
ha "vissuto" insieme. Un bambino che invece è sempre stato
in un ghetto protetto, povero o ricco che sia, è un bambino impreparato
ad affrontare la vita, specie la vita di metropoli che si avviano a divenire
mosaici di popoli. E' la diversità, e dunque la possibilità continua
di scegliere, che moltiplica il numero dei nostri neuroni, e scongiura la possibilità
di diventare dei testoni. Per questo, come operatori della scuola, dobbiamo
combattere sistematicamente la tentazione di creare classi omogenee, da ogni
punto di vista: "distribuire e mescolare", questa deve essere la nostra
preoccupazione. Il meticciato fa bene ai nostri bambini.
e. Chi fa scuola, e le rappresentanze
politiche che intendono difendere la buona scuola, dovrebbe evitare delle espressioni
che, anche se dette in buona fede e a fin di bene, finiscono per suonare alle
orecchie non italiane, come frutto di arroganza culturale. La frase: "i
valori della nostra cultura" non ha alcun senso. Le culture non hanno valori.
I valori appartengono al mondo del pensiero astratto, le culture appartengono
alla materialità dell'esistenza umana. Le culture non sono né
positive né negative. Le culture sono dei fiumi in piena e in continua
evoluzione. E dentro c'è di tutto. Negli anni cinquanta ad esempio nei
Paesi dell'Africa del Nord l'elemento identitario maggioritario era quello della
lingua: quelle popolazioni riconoscevano se stesse come "arabe" e
"berbere". Oggi, per ragioni tutte politiche e difensive, prevale
l'elemento identitario islamico. L'elemento identitario cattolico era sparito
dal nostro carattere nazionale sino alla prima metà del secolo scorso,
è poi stato oggetto di disputa sino a dieci anni fa, e oggi dilaga, sull'onda
dello scontro con l'islam. Ogni popolo e le culture cangianti che esso esprime
si porta dietro glorie e bassezze, perché il termine "cultura"
è il sedimento provvisorio del pensiero e del vissuto del "popolo"
e di chi l'opprime, degli uomini e delle donne, degli adulti che cercano di
assicurare la continuazione delle tradizioni e dei giovani che vi si oppongono.
Se poi per cultura si intende "storia", allora affermare che quella
occidentale sarebbe portatrice di valori di tolleranza e libertà pare
ridicolo a qualsiasi altro abitante del pianeta: gli occidentali da sempre non
fanno che promuovere guerre. Anche gli altri popoli non sono da meno, ma dato
che la "nostra" potenza economica e tecnologica è superiore,
i danni che abbiamo fatto e continuiamo a fare battono ogni record. La terza
causa di morte non naturale nella storia del mondo dopo la fame e le malattie
sono gli occidentali. Allo stesso modo, non possiamo certo prendere in blocco
le altre "culture" e accettarne tutto perché "politicamente
corretto" o per un malinteso senso di "rispetto". Non ci piace
la segregazione delle donne in Arabia Saudita, come del resto non ci piace la
mercificazione delle donne in Occidente. Non dobbiamo farci dire cos'è
la vera cultura islamica da chi è oppressore di una parte del proprio
popolo. Insomma, nella pratica didattica si deve togliere ogni considerazione
valoriale della parola "cultura": la cultura non è né
buona né cattiva, semplicemente è. Anzi: sono.
f. Dallo scontro di civiltà ci
si sottrae solo se ci rifiutiamo di applicare in maniera sistematica i due pesi
e le due misure. Se si è contro le private islamiche, allora lo si deve
essere contro tutte le private, anche quelle cattoliche. E non potremo mai approvare
l'operato di un ministero che finanzia diplomifici e scuole confessionali cattoliche
e allo stesso tempo rifiuta il nulla osta per il riconoscimento di quelle islamiche.
Allo stesso modo non dobbiamo considerare i "nostri" simboli portatori
di messaggi universali, mentre quelli degli "altri" non lo sarebbero
mai. Su questo le rappresentanze politiche progressiste dovrebbero evitare ogni
viltà. E' molto comodo non prendere posizione sul crocefisso nelle aule
scolastiche, o, peggio, dire delle banalità per difenderne il mantenimento.
Ma ogni rinuncia a parlar chiaro incoraggia la contrapposizione etnica, perché
si mostra agli "altri" l'esistenza di un fronte unito, "etnico"
di tutti gli italiani, creando una reazione uguale e contraria. Avere il coraggio
di andare contro il sentire comune della "propria" nazione, incoraggerà
anche altri italiani a disertare il fronte di guerra della contrapposizione
etnica e a far emergere le contraddizioni tra italiani (politiche, sindacali,
sociali, ecc.), che è esattamente quel che i fautori dell'Italia-potenza
temono.
Il ricco Occidente è costretto a far ricorso in sempre maggior misura
a mano d'opera immigrata ed ha pure il coraggio di far credere che la cosa gli
sia estremamente sgradita. Gli stranieri sbarcano qui, giunti da terre spogliate
a vantaggio dei profitti di pochi occidentali e delle comodità di noi
tutti. Appena arrivati si vorrebbe che dimeticassero presto presto la loro pericolosissima
cultura d'origine, aderendo alla nostra, che da secoli è pericolosa per
tutto il pianeta, ma non per noi. I loro bimbi piombano in mezzo al nostro mondo
di merci, barbie e grandi firme, senza immaginare di essere diventati il terreno
dove si misura la solididità identitaria delle gloriose nazioni d'Occidente.
La scuola, nella logica dello scontro tra civiltà, avrebbe il compito
di "educare" le nuove generazioni di immigrati alla cultura dominante,
perché crescano come fedeli soldati della sua missione civilizzatrice
e non come serpenti allevati in seno. Ma i bambini non hanno una nazione: ne
hanno tante e non ne hanno nessuna. I bambini delle classi multietniche delle
nostre periferie si mescolano senza grandi problemi. Sappiamo come basti loro
assai poco per superare diffidenze che sono nate dai pregiudizi dei propri genitori
o da quelli della televisione, e veder nascere curiosità ed amicizia.
Loro infatti non hanno alcuna crociata da combattere. Senza che noi adulti lo
vogliamo, sui banchi di scuola la mutevole essenza dell'identità nazionale
si plasma e diversifica, forse in nuove identità che gli adulti vorrebbero
fissare per sempre a quelle vecchie utilizzando gli insegnanti per difendere
la "scuola della nazione", la "nostra" contro quella degli
"altri". E così ognuno dovrà scegliere se assecondare
questo disegno oppure sottrarvisi. E chi vuole disertare una guerra che non
gli appartiene, non potrà che proclamarsi fiero difensore di una sola
nazione: quella mutevole, meticcia, vivace e misteriosa delle bambine e dei
bambini.