Palestina al bivio.
Una attenta riflessione sugli avvenimenti che hanno fatto esplodere l'attuale Intifada. Di Cinzia Nachira. Novembre 2000.

Una nuova Intifada?
L'ultima rivolta palestinese ha spiazzato molti. Non solo per la sua ampiezza. Altre volte, dopo gli accordi di Oslo, i palestinesi hanno reagito con forza all'oppressione ed alla repressione israeliana che è ben lungi dall'esser finita. Ciò che differenzia questa rivolta sono alcune caratteristiche di fondo, che la fanno assomigliare molto più delle precedenti fiammate all'Intifada del 1987. Ciò non significa tout court né che la storia si ripete, né che i fatti odierni hanno lo stesso significato. Questa rivolta ha differenze fondamentali con l'Intifada del 1987. Prima fra tutte l'assenza di un programma e di rivendicazioni anche solo parziali che possano far intravedere uno scenario diverso dall'attuale.

La leadership dell'ANP al bivio di Camp David
Con la firma degli accordi di Oslo e quelli successivi la leadership dell'Olp-ANP e in particolare Yasser Arafat aveva accettato, pur di avere anche solo un finto stato o meglio dei bantustans, di essere subalterna e prona ai diktat israeliani. Questi sette anni non sono serviti a costruire quello che doveva diventare lo stato di Palestina. L'unico apparato che è stato costruito è stato quello poliziesco. Tutti gli altri problemi dalla disoccupazione alla sanità, alla scuola non sono stati che sfiorati dall'interesse di Arafat e del suo entourage. Coloro che criticavano gli accordi in solitudine nel 1993 hanno trovato consenso fra le masse disperate, che non vedevano migliorare le proprie condizioni di vita rispetto a quando dovevano subire l'occupazione diretta dei carri armati israeliani. Anzi in molti casi, a mezza voce, si diceva che si stava meglio sotto occupazione. Ciò che ha fatto precipitare gli indici di gradimento di Arafat e i suoi presso la popolazione è stata da un lato la corruzione degli apparati amministrativi e dall'altro la repressione di cui ora si incaricava la polizia palestinese. Chiunque esprimesse pubblicamente opinioni contrastanti con la via intrapresa, accordi a tutti i costi, veniva represso: giornali chiusi, arresti indiscriminati di intellettuali, ecc. Tutto questo perché la leadership palestinese aveva una preoccupazione su tutte: quella di essere "affidabile" per il governo israeliano. In questo contesto, cosa abbastanza ovvia, ha potuto crescere la corrente islamica che al contrario di Arafat, con proclami di fuoco, denunciava la svendita della causa palestinese ed invitava i giovani, e non solo, alla guerra santa per liberare la Palestina e Gerusalemme. Tra il 1994 ed il 2000, purtroppo, Hamas e Jihad hanno trovato seguito. Gli attentati suicidi al di là della linea verde, ossia dentro i confini dello stato israeliano, erano l'unico modo per i palestinesi di non far dimenticare al mondo la propria esistenza. C'è da aggiungere ancora che soprattutto Hamas non si limitava né alla lotta armata né al reclutamento di "martiri volontari", ma che attraverso le proprie istituzioni si incaricava di essere presente dove l'Anp era assente: scuole, ospedali, asili ed università sono stati aperti soprattutto a Gaza dove la situazione economica è gravissima, e dove nonostante gli accordi sottoscritti i governi israeliani continuano a fare ciò che vogliono, chiudendo la striscia ogniqualvolta lo ritengono necessario, aggravando in questo modo la situazione economica ed esasperando la popolazione costretta a vivere in condizioni paurose nei campi profughi, mentre nelle colonie israeliane non manca nulla. Per un lungo periodo Arafat ha creduto di poter sopravvivere politicamente quasi ignorando tutto questo, e rinviando alla proclamazione, sempre annunciata e poi rinviata, dello stato palestinese tutti i problemi irrisolti. Arafat è giunto all'ennesimo vertice con Barak nel luglio scorso con una situazione interna esplosiva, rischiava sul serio di perdere le redini della situazione. In questo senso, ai più avveduti, il rifiuto di firmare la resa definitiva a Camp David è parso il tentativo di riagganciarsi al suo popolo. Inoltre a Camp David c'era una preoccupazione ulteriore: il ritiro isrealiano dal Libano del sud, che assomigliava più ad una fuga, dimostrava che la lotta di Hezbollah era stata pagante. Le città della Cisgiordania e di Gaza festeggiavano la sconfitta del nemico per mano araba ed islamica. La piattaforma presentata come "mediazione" da Clinton e compari era troppo pericolosa da firmare e non solo per le pretese sioniste su Gerusalemme. Quell'accordo avrebbe messo definitavamente la parola fine sulla questione dei profughi, che addirittura per evitare che rimanessero ad "infastidire" Giordania, Siria, ecc. si pensava di spedire in Canada (forse gli imperialisti hanno laggiù avvistato un'altra "terra senza un popolo" come dicevano essere la Palestina prima del 1948!). Il fatto che a Camp David Arafat avesse chiesto, ed ottenuto, di consultarsi con le opposizioni laiche non poteva che portare ad un rifiuto della resa. Le immagini che i media internazionali davano in pasto al pubblico degli incontri di Camp David mostravano sempre Arafat debole, ne facevano risaltare il tremore del Parkinson che lo affligge a fronte di un Barak pieno di salute. Era quasi scontato chi doveva vincere, chi era il più forte. La realtà è stata diversa non solo per i motivi spiegati sopra: anche Barak è arrivato a Camp David senza una maggioranza effettiva, molti dei suoi ministri si erano già dimessi o erano in procinto di farlo. Inoltre Barak tentando di arginare l'influenza dello Shas, partito religioso ultraortodosso, cerca di mettere a punto alcune regole nell'istruzione pubblica israeliana, scatenando la reazione non solo degli ultraortodossi ma anche del Likud. In questo contesto il rifiuto alla firma di Arafat è stata una doccia fredda. I tanti elogi, molti dei quali immeritati, fatti a Barak per aver infranto il tabù israeliano su Gerusalemme hanno impedito di capire fino in fondo la tattica israeliana. L'obiettivo era duplice: mettere definitivamente l'Anp con le spalle al muro da un lato, riconquistare peso a livello internazionale dall'altro.

Da Camp David a Sharon sulla spianata delle moschee
I mesi successivi al fallimento di Camp David è stato tutto un affannarsi ad additare Arafat come il vero responsabile del fallito accordo, di conseguenza è lui che non vuole la pace. Entrambi i leaders girano diverse capitali arabe nel tentativo di spiegare le proprie posizioni e trovare consensi. Chiaramente Arafat punta molto sui paesi arabi e su alcuni primi ministri europei. Tutto questo avviene mentre un personaggio inviso a tutti Ariel Sharon, il macellaio di Sabra e Chatila, divenuto presidente del Likud a spese di Netanyhau, che in confronto è una "colombella", non perde occasione di attaccare Barak per aver svenduto Gerusalemme. Fino ad annunziare, giusto per essere chiari su chi è il padrone in Palestina, una propria visita alla spianata delle moschee di Omar e di Al Aqsa. A questo punto è doverosa una parentesi. In questi giorni in molti accusano Sharon di aver fatto una provocazione (certamente non è necessario essere grandi editorialisti per capirlo), peccato però che in gran parte delle biografie sul personaggio poche ricordano il dettaglio delle stragi di Sabra e Chatila. Inoltre è chiaro che Sharon si è permesso di portare la provocazione fino in fondo perché in ogni caso aveva le spalle coperte dal governo Barak e dalle forze di sicurezza. Non è pensabile che Barak non fosse in grado di poter fermare Sharon. Cosa sarebbe successo se a Roma Kappler fosse andato in visita alle Fosse Ardeatine? In questo senso la reazione dei palestinesi era scontata. Ciò che era meno scontato era che dalla strage sulla spianata, quattro palestinesi uccisi e decine feriti, partisse una rivolta che finisse per coinvolgere anche quelle fasce di popolazione palestinese che negli ultimi dieci anni si potrebbe dire "sono state a guardare". Può esserci un fondamento di verità a parlare di una possibile rivolta preordinata, ma no nel senso che Arafat e i suoi consiglieri seduti a tavolino abbiano potuto pianificare tutto. Ciò che è più credibile è che l'Anp, e quindi Arafat, abbia deciso di non fare il lavoro sporco al posto degli israeliani bloccando e reprimendo le manifestazioni. Le quali, al di là dei commenti che mettono sullo stesso piano le fionde con i carri armati, sono state pacifiche. Uomini, donne, ragazzi e vecchi che a mani nude fronteggiano l'esercito più equipaggiato e meglio armato del Medio Oriente. In questo senso le cifre dei morti sono più che eloquenti.

Il significativo e sostanziale silenzio di Hamas
Ai mass mediologi, nonché tuttologi, occidentali questa rivolta ha tolto l'argomento prediletto. Le manifestazioni contro l'esercito israeliano non hanno visto come protagonisti né Hamas né la Jihad islamica. D'improvviso coloro che si affannavano a cercare una matrice islamica, come noto il "nuovo" nemico dell'uomo la caduta dell'Urss, sono rimasti senza argomenti o quasi. Già dopo una settimana dall'inizio della rivolta, il venerdì successivo, la nota da sottolineare era diventata l'appello di Hamas al "giorno della rabbia". Ma ancora una volta i delusi sono stati moltissimi: gli scontri dopo la fine della preghiera hanno ancora visto l'assenza organizzata degli islamici. E' molto probabile, anzi pressocché sicuro, che i giovani che oggi si confrontano con l'esercito israeliano siano gli stessi che negli anni passati hanno raccolto l'invito di Hamas e quant'altri offrissero anche solo l'ombra di una resistenza alla rassegnazione alla sconfitta definitiva. In questo senso ci sembra che il silenzio degli integralisti islamici palestinesi non significhi solo che sono stati spiazzati dal ritrovato ruolo di Arafat come punto di riferimento dei palestinesi (e non solo a Gaza e Cisgiordania), ma che alla prova del nove abbiano anche verificato che il popolo palestinese, soprattutto di Gaza, li aveva seguiti per esasperazione e disperazione. Non possiamo, infatti, ignorare che il popolo palestinese è stato per lunghissimi anni il più laico del Medio Oriente, che nella storia della sua lotta di liberazione l'elemento religioso ha avuto uno scarsissimo peso, per non dire nullo.

La ritrovata unità dei palestinesi sia politica che geografica
Ci sembra indispensabile chiudere queste righe con una riflessione sulla ritrovata unità palestinese. Si tratta sicuramente di una unità ritrovata sul piano politico. Sulla durevolezza di questa unità determinante saranno le scelte, nel breve periodo e non solo di prospettiva, che farà l'Anp. Il rischio che si giunga ad accordi iniqui è sempre presente e potrebbe portare a pesanti conseguenze. Il dato molto interessante è la ritrovata unità tra tutti i palestinesi. Gli scontri di Nazareth e Gerusalemme sono stati la conseguenza delle condizioni di vita, pressoché di apartheid, che subiscono quelli che comodamente gli israeliani chiamano gli "arabi israeliani", come se non fossero palestinesi. Un milione e centomila persone che hanno pochi diritti e sistematicamente calpestati. I palestinesi di Gerusalemme, Nazareth e i pochissimi di Jaffa (non a caso trasformata in un quartiere di Tel Aviv. Quello che per ironia della storia anche gli israeliani chiamano il "centro storico" della capitale), hanno ritrovato anche loro la speranza di poter decidere del loro destino, di "uscire dal ghetto" come si potrebbe dire. Non a caso è la cosa che più preoccupa Barak, il quale, sbagliando ancora i suoi calcoli, pensava di poter contare sui palestinesi che vivono in Israele per contenere e "localizzare" il conflitto alle sole Gaza e Cisgiordania. Chi gioca col fuoco rischia di bruciarsi. In questo contesto ovviamente anche i profughi palestinesi che sono in Giordania, Siria, Libano e negli altri paesi arabi ritrovano la speranza che il loro peso politico ridiventi reale. Gli scenari che si possono prospettare sono molti e probabilmente ha ragione chi sostiene che Barak non ha interesse né ad una nuova guerra con i paesi arabi (il cui sostanziale silenzio ed assenza sono brillati in questi giorni cruciali), né ad una "riconquista" manu militari dei territori già dati ai palestinesi da chi lo ha preceduto, è possibile che egli miri a fiaccare la leadership palestinese fino a farla giungere a compromettere definitivamente la propria credibilità politica costringendola a firmare accordi iniqui. Questo scenario è il più pericoloso, non tanto per la sopravvivenza o meno di Arafat, ma perché getterebbe il popolo palestinese nella disperazione più nera. Non si potrà poi stupire alcuno di gesti altrettanto disperati.