"L'intifada israeliana".
Ancora cronache dai Territori Occupati. La campagna contro i genitori palestinesi e lo "strano" concetto di responsabilità di alcuni difensori dei diritti umani israeliani. Di Marco Grazia e Carlotta Sami. Newsletter n.28 di Per la Palestina - gruppo di lavoro ARCI/ARCS. Dicembre 2000.

Roberto Giudici, ARCI Milano, tel. 02-541781, fax 02-54178222,
Paola D'Arrigo, ARCS-infanzia, tel. 0587-54776, fax 0587-54064,
Marco Grazia, ARCS Palestina, tel. 00972-2-6261876,

Oggi un signore davanti a Fawwar mi ha detto: "questa è un'Intifada israeliana!"
Davanti a noi il campo di zucche che fino a ieri era percorso da tre o quattro piste parallele alla strada principale di accesso a Fawwar era completamente sottosopra. I soldati israeliani hanno scavato trincee, ammassato cumuli di terra qui e la' per impedire definitivamente il movimento di qualsiasi mezzo per e da Fawwar. In questa ultima settimana i ragazzi non hanno lanciato un sasso che li abbia raggiunti. Non si può più parlare di scontri veri e propri. Tuttavia gli israeliani continuano il loro assedio, in maniera ancora più dura di prima. Stazionano sempre lì fuori e oggi di camionette ce n'erano addirittura cinque; una sempre ferma davanti al campo con i soliti soldati armati di mitragliatrice e fucili di precisione, altre quattro a pattugliare avanti e indietro il mezzo chilometro a sud e il mezzo chilometro a Nord dell'entrata di Fawwar.

Arrivando siamo stati testimoni del disprezzo israeliano per il popolo e la terra palestinese. Al lato della strada, proprio cento metri prima del bivio per entrare ad Al Fawwar tre auto della televisione erano ferme a riprendere qualcosa che a prima vista non abbiamo capito. Abbiamo accostato: c'erano una decina di soldati a scortare un bulldozer che lentamente si inerpicava sul pendio che costeggia la strada principale e che discende dall'altro lato verso Fawwar. Il bulldozer stava sradicando lentamente un cipresso gigantesco. Poi è passato ad un altro e poi ad un altro ancora. Sei cipressi enormi hanno abbattuto, alberi responsabili nei giorni passati di dare rifugio a qualche bambino o ragazzo per tirare i sassi sulla strada. Ci siamo fermati per fotografare tutta l'operazione che è durata più di mezz'ora. Quando il bulldozer ha terminato, sono stati chiamati altri due soldati che con le motoseghe hanno cominciato a segare gli alberi più isolati o più piccoli, ulivi compresi. Siamo stati ancora un po' lì a fotografare, mentre tutto intorno i palestinesi guardavano ammutoliti l'amore israeliano per la terra. Alcuni si sono anche avvicinati, ma i soldati li hanno mandati via per poi mettersi a ridere tra loro. Dopo quasi un'ora abbiamo deciso di andare via.

Siamo entrati nel campo mentre centinaia di bambine rientravano da scuola. Tutti abbiamo dovuto scavalcare i cumuli di terra per ridiscendere dall'altra parte. All'entrata di Fawwar ho incontrato Khaied, che mi ha indicato una signora seduta in mezzo al campo dirimpetto alla camionetta dei militari. Mi ha spiegato che la mamma di Sameer, il ragazzo ucciso una settimana fa alla vigilia del suo matrimonio, da questa mattina se ne sta là in mezzo, proprio nel posto dove il figlio è stato colpito dai soldati. Non si vuole muovere di lì. Un ragazzo ci ha voluto accompagnare da lei. Passando per un sentiero che si snoda tra i fichi d'india, l'abbiamo raggiunta seguiti da una cinquantina di bambini. In mezzo al campo c'è un cerchio di pietre, al centro quattro mattoni di cemento che formano una specie di aiuoletta. In mezzo un piantina decorativa mezza appassita. Su una pietra lì vicino sta la mamma di Sameer, con il vestito tradizionale tutto ricamato ed il velo bianco in testa. Ci ha guardati sorridendo e poi ha continuato a fissare i soldati dall'altra parte del campo. Abbiamo passato un po' di tempo con lei: quando si rivolgeva verso di noi sembrava contenta che le avessimo portato quella cinquantina di bambini attorno, quando guardava i soldati il suo sguardo era vuoto.

Siccome era presto abbiamo deciso di fare un giro per le case. Volevamo visitare la gente normale in un giorno 'normale'. I tre ragazzi che ci avevano accompagnati ci hanno lasciati quando siamo stati raggiunti da Hasan e Sai'da, i
miei due collaboratori. Loro ci hanno fatto visitare qualche famiglia. Nonostante le condizioni di vita terribili di questi
giorni la gente rideva e scherzava con noi. Sembrava che avessero voglia di vedere qualche 'ashnabi' (straniero) lì in
giro. Per il campo in questi giorni ci sono decine di crocchi di bambini, accucciati a tirare biglie dentro buche o contro
i muretti. Durante il Ramadan Hasan ci ha spiegato che tutti i bambini giocano a biglie. E' una specie di tradizione.
E per strada abbiamo anche incontrato un vecchio e una vecchia seduti per terra davanti ad una scatola piena di palline
di vetro colorate. Loro le vendono, mi ha detto sempre Hasan e ci siamo messi a ridere.
Al Centro Polifunzionale ho lavorato un po' con il comitato del campo, per arrangiare le ultime questioni relative alla clinica che finalmente questa sera aprirà e quindi, prima che venisse buio, ci siamo messi sulla via del ritorno. Per andare a Gerusalemme siamo passati un'altra volta davanti agli alberi spezzati e segati. C'era un forte odore di resina e terra. Un odore triste.

La campagna contro i genitori palestinesi e il concetto di responsabilità dei difensori dei diritti umani israeliani. In questi giorni B'tselem (organizzazione israeliana per la difesa dei diritti umani, sito: http://www.btselem.org) ha pubblicato un rapporto sulle violazioni dei diritti umani dall'inizio dell'Intifada Al Aqsa. I dati del rapporto riguardano ambedue le parti in causa: israeliani e palestinesi. Il rapporto elenca tutti i tipi di violazione da parte israeliana ed elenca quanto i palestinesi NON hanno fatto per 'fermare la violenza'. Tra le violazioni da parte palestinese viene citata anche l'omissione dell'autorità Palestinese nel fermare i giovani e i bambini nel partecipare agli scontri. B'tselem dice: non ci sono prove che dimostrino seri sforzi da parte dell'Autorità palestinese per scoraggiare i bambini dal partecipare in situazioni che possano mettere a repentaglio la loro vita. L'approccio di B'tselem è sempre neutrale, o per lo meno così vuole presentarsi e per questo motivo i loro report riguardano sempre sia israeliani che palestinesi. Alcune considerazioni dunque. Innanzitutto è necessario riflettere sul significato dell'imparzialità di B'tselem.

In questi giorni Adi Ophir, professore di filosofia dell'Università di Tel Aviv, ha criticato il linguaggio utilizzato nei rapporti dell'organizzazione definendolo asettico e per questo complice dell'occupazione e del discorso politico egemonico. Ma veniamo al concetto di responsabilità. Come tutti sanno la West Bank e Gaza sono divise in tre differenti aree: aree A dove i palestinesi hanno completo controllo, civile e militare, aree B dove i palestinesi controllano civilmente e gli israeliani militarmente (e quindi dove sostanzialmente permane uno stato di occupazione) e aree C, ovvero quelle aree dove i palestinesi non hanno alcun tipo di controllo, né civile né militare, dove dunque l'occupazione civile e militare è conclamata.Ebbene, da questa divisione ne consegue, in forza della IV Convenzione di Ginevra, che le forze occupanti siano responsabili per quanto accade nelle zone da loro occupate. E quindi come si fa a considerare l'Autorità Palestinese responsabile per non impedire ai bambini e ragazzi di porsi in situazioni che minaccino la loro vita? Forse si vogliono accusare i genitori palestinesi?

Certo che i genitori israeliani delle colonie illegali (come Gilo ad esempio) sono più fortunati. Loro hanno uno stato
che si cura della loro sicurezza: li arma e li protegge con i soldati! (Questa mattina il Jerusalem Post annunciava che le colonie israeliane verranno fortificate il triplo e saranno difese da un numero aggiuntivo di soldati allenati in operazioni di guerra, questo perchè, ha spiegato l'IDF, le colonie potrebbero essere il bersaglio di colpi di arma da fuoco). Ma per B'tselem questo dato è irrilevante. L'asetticità del suo punto di vista fa si che la domanda fondamentale non venga posta: chi è che determina delle situazioni in cui la vita dei bambini palestinesi e israeliani è messa in pericolo? Lo stato israeliano che persiste nella sua pratica di occupazione militare o il popolo palestinese che la subisce da 53 anni? Non è un caso dunque che questa mattina il Jerusalem Post abbia dedicato un articolo al rapporto di B'tselem intitolandolo B'tselem condanna l'uso dei bambini da parte dell'Autorità Palestinese.