Ebrei
e palestinesi: miti e realtà.
Si
affrontano tra l'altro in questo studio le mistificazioni riguardanti la storia
di questi due popoli, tra le quali spicca l'identificazione tra ebraismo e
sionismo, si ripercorre criticamente la storia della resistenza palestinese,
si contestualizzano gli episodi di terrorismo. Di Antonio Moscato, con schede
di Cinzia Nachira. Da Bandiera Rossa News. Settembre 2001.
La "questione palestinese"
viene in genere affrontata sui mass media in modo sistematicamente distorto,
sia per quanto riguarda il peso della violenza in atto, valutata con due
pesi e due misure (per "fare notizia", i morti palestinesi devono
essere decine in un giorno, mentre ogni vittima israeliana viene segnalata
con grande rilievo), sia e soprattutto ricostruendo in modo fantasioso e
mistificante l'origine del conflitto. Partiamo da quest'ultimo aspetto,
che non e' marginale. ALCUNE MISTIFICAZIONI SULLA STORIA ANTICA DEI DUE POPOLI torna
in alto Ad esempio, c'e' un diffuso
luogo comune che afferma che gli ebrei sono tornati nella loro terra di
origine dopo secoli di esilio forzato. Si tratta di una mistificazione
basata su una interpretazione unilaterale della storia di quella terra.
In essa, piu' o meno nello stesso periodo (1200 a.c.), arrivarono da Creta
i palestinesi (philistim) e gli ebrei guidati da Mose' provenienti dall'Egitto.
In quella terra vivevano gia' altri popoli, che continuarono a coesistere
anche nell'unico periodo in cui ci fu il regno ebraico di David e Salomone
(durato solo dal 998 a.c. al 926 a.c.). Su parte del territorio, per qualche
decennio prima di David, c'era stato il regno di Saul. Dopo la morte di
Salomone i suoi figli costituirono due regni separati - rivali e vassalli
l'uno dell'Egitto, l'altro dei sovrani mesopotamici - che sono esistiti
ancora fino al 721 a.c. (Israele) e al 586 a.c. (Giuda). Non erano tuttavia
Stati dei soli ebrei: la stessa Bibbia rivela che Saul, David e Salomone
erano figli di donne non ebree ed erano sposati con donne di altre religioni.
A parte la divertente considerazione sul fatto che dal punto di vista dei
rabbini di oggi non sarebbero stati considerati ebrei (conta la madre, non
il padre), e che almeno Salomone non era neppure troppo in regola dal punto
di vista religioso, visto che sacrificava agli dei delle sue molte mogli,
il dato conferma che in quella piccola terra la popolazione era assai variegata.
Anche quando, dopo vari secoli, per un breve periodo (140-63 a.c.), c'e'
stato un altro piccolo regno ebraico, quello dei Maccabei, sotto l'influenza
romana, gli ebrei osservanti erano piuttosto pochi, per la permanenza di
popoli con altre religioni e perche' molti nel corso dei secoli avevano
lasciato la religione originaria, sicche' ci furono perfino circoncisioni
forzate per riportarli alla condizione di ebrei. In ogni caso, sui 7.000
anni in cui ci sono tracce di insediamenti umani in quella terra, gli ebrei
hanno dominato politicamente solo per pochi secoli, senza essere mai i soli
occupanti del territorio. Ma la Palestina non
puo' essere definita la terra di origine degli attuali ebrei israeliani
per parecchie altre ragioni. Nell'antichita'
c'era un popolo ebraico in una terra abbastanza delimitata, con una religione
che non faceva proselitismo e che era esclusiva di quel popolo e di quella
terra. Nella parte piu' antica della Bibbia risulta che gli ebrei dovevano
venerare Jahve' e non gli dei di altri popoli, di cui non si negava tuttavia
l'esistenza. Nell'Antico Testamento gli ebrei risultano agricoltori, pastori,
guerrieri, non commercianti. Piu' o meno questa e' la composizione degli
ebrei in Palestina, e tale risulta da altre fonti nel I secolo a.c. in gran
parte delle zone in cui sono emigrati (Egitto Libia, Italia) o in cui erano
stati inizialmente deportati, come la Mesopotamia (attuale Iraq), ma in
cui erano rimasti anche dopo avere ottenuto di poter tornare. Le deportazioni,
compresa quella successiva alla distruzione del Tempio di Gerusalemme, nel
70 d.c., riguardavano comunque solo lo strato alto della popolazione, e
in Palestina era rimasta una cospicua comunita' ebraica. Tuttavia, nei secoli
immediatamente successivi - in coincidenza con il diffondersi del cristianesimo
e la sua trasformazione in religione di Stato che perseguita le altre religioni
- avviene un processo che trasforma gli ebrei in quello che Abram Leon ha
chiamato un "popolo-classe" specializzato nel commercio. Da un
lato, la maggioranza degli ebrei dediti all'agricoltura nel Nord Africa
e nella stessa Palestina si convertono piu' o meno spontaneamente al cristianesimo
e, dopo la conquista araba, all'islamismo; dall'altro, commercianti non
ebrei (ad esempio i siriani e i fenici) si convertono all'ebraismo. La ragione
principale e' che questa religione consentiva di eludere il precetto, tratto
dal Deuteronomio e fatto proprio per molti secoli dal cristianesimo e poi
dall'Islam: "non presterai ad usura al fratello tuo ma solo allo straniero",
precetto che di fatto condannava non solo l'usura ma ogni forma di commercio.
E dopo il crollo dell'impero romano e poi ancor piu' dopo la divisione del
bacino mediterraneo in due aree ostili in seguito all'espansione dell'islam,
lo scarso commercio che vi rimaneva diventava sempre piu' rischioso, per
cui chi investiva in esso doveva ottenere una ricompensa per il rischio,
che le due grandi religioni dominanti vietavano e definivano "usura".
Il commercio, anche se ridotto a pochi generi di lusso (stoffe pregiate,
metalli lavorati, gioie, spezie), era in realta' indispensabile e quindi
veniva consentito agli ebrei e ai convertiti all'ebraismo (divenuto ormai
una religione non piu' legata a un territorio), che erano praticamente gli
unici "stranieri" esistenti, sia nel mondo cristiano sia in quello
islamico, e che svolgevano una funzione di ponte grazie alla conoscenza
delle lingue e al fatto di non essere legati al potere dei paesi rivali. Altre conversioni all'ebraismo
in ambiente cristiano erano invece dovute a fattori religiosi. Il cristianesimo nel Medioevo era diventato di fatto sempre
meno monoteista, per l'esasperato culto dei santi, delle loro immagini e
reliquie; questo spinse diversi uomini di chiesa, nell' Europa occidentale
e poi nella Russia ortodossa, verso l' ebraismo, aderendovi o accogliendone
alcuni elementi. E' il caso della cosiddetta "eresia giudaizzante"
della Russia del Quattrocento, che determinera' in quel paese persecuzioni
e divieti rigorosi al proselitismo ebraico. Ci sono state anche conversioni
in massa di interi popoli come i Chazari o una parte degli arabi yemeniti,
in seguito alla scelta dell'ebraismo da parte dei sovrani locali (dovuta
probabilmente alla necessita' di resistere alla pressione degli adiacenti
imperi cristiani o islamici). Anche l'origine dei falasha' etiopici, che
pretendono di essere discendenti della regina di Saba, che aveva visitato
Salomone a Gerusalemme, puo' essere ricondotta a un fenomeno analogo. L'insieme
di questi fattori ha provocato una forte trasformazione delle comunita'
ebraiche nel mondo; grazie alle conversioni e alle assimilazioni, esse si
sono molto differenziate tra loro, fino al caso limite degli ebrei etiopici,
i falasha', di pelle nera, di quelli indiani e cinesi, che hanno i tratti
somatici degli altri abitanti della regione e in genere parlano la lingua
locale, pur mantenendo l'ebraico antico per il culto e due grandi lingue
franche, l'yiddish nell'Europa centro orientale, e il ladino, derivato dallo
spagnolo del XV secolo tra i sefarditi, che costituiscono lo strato superiore
delle comunita' ebraiche nell'impero ottomano (erano gli ebrei cacciati
dalle persecuzioni cristiane che seguirono la reconquista alla fine del
XV secolo). La prima lingua, una derivazione del tedesco medievale, trascritta
in caratteri ebraici e naturalmente con molti vocaboli ebraici e anche parecchi
termini di origine turca (frutto dell'assimilazione dei Chazari), rivelava
il processo di fusione delle piccole arretrate comunita' locali di quelle
che sono oggi la Polonia e la Russia con gli ebrei piu' colti cacciati dalla
Germania al tempo delle Crociate che, dovunque passavano - dalla valle del
Reno a Praga alla stessa "Terra Santa" - lasciarono una traccia
sanguinosa di feroci persecuzioni antiebraiche. E' bene ricordare questo
dato per sfatare la leggenda dell'intolleranza dell'Islam: nel mondo islamico ebrei e cristiani, i "popoli del Libro",
godevano di certi diritti, compreso quello di amministrare al proprio interno
la giustizia, anche se erano esentati dal servizio militare. L'intolleranza
e' invece tipica del mondo cristiano, soprattutto quando vi compaiono mercanti
locali che aggirano i vecchi divieti religiosi e non vogliono concorrenza
(in Italia sono le Repubbliche marinare le prime a cacciare gli ebrei, anche
se piu' tardi Venezia ne ammettera' un certo numero per assicurare le sue
relazioni con l'Oriente ottomano, da cui e' stata cacciata militarmente).
Lo stesso Dante, che pure deve tanto alla cultura araba, colloca Maometto
a capofitto nel piu' profondo dell'Inferno, mentre l'Islam considera Gesu'
come un profeta, un precursore, e ha in molte zone una vera venerazione
per Maria (ad esempio a Efeso, nell'attuale Turchia). Questa ricostruzione sommaria
permette di dire che, se esisteva nell'antichita' un popolo ebraico, quello
descritto dall'Antico Testamento, esso e' praticamente sparito nel corso
dei secoli successivi, mentre la religione ebraica ha assorbito per ragioni
diverse molti strati di altra origine dediti al commercio. La pretesa dei
sionisti di "ritornare nella loro terra ereditata dai padri" e'
dunque basata su un mito infondato. La maggior parte di essi non discende
affatto da quei "padri". Paradossalmente, e' molto probabile -
viceversa - che una parte degli attuali palestinesi siano discendenti proprio
degli ebrei convertiti all'islam nel corso dei secoli. ALTRI MITI: L'IDENTIFICAZIONE TRA EBRAISMO E SIONISMO torna
in alto I mass media influenzati dai
sionisti tendono a creare un'identificazione totale tra "ebraismo"
e "sionismo". Vedremo che essa e' storicamente infondata, per
molte ragioni, e che ancora oggi molti ebrei si oppongono al sionismo, il
quale e' semplicemente una proposta politica specifica, rimasta tra l'altro
minoritaria perfino in gran parte delle comunita' ebraiche europee fino
a quando l'avvento del nazismo l'ha resa piu' credibile e trasformata in
una specie di zattera di salvataggio. Vediamo su quali argomenti si basa
questa identificazione. Gli ebrei - si dice
- per secoli hanno pregato e hanno ripetuto: "l'anno prossimo a Gerusalemme". E' vero, ma in realta' la maggior parte di essi, se si spostavano
dal paese in cui vivevano, raramente cercavano Gerusalemme. In genere, si
trattava dell'auspicio di un "ritorno" (che per molti - abbiamo
visto - non lo era affatto) in una terra mitica "di latte e miele",
in un regno di pace e di giustizia, che sarebbe stato realizzato dal messia
delle profezie: un sogno millenaristico, che trovo' in varie epoche profeti
e "falsi messia" che tentarono di realizzarlo, su un terreno puramente
religioso; ma non era un concreto progetto politico. Il sionismo, senza
alcun fondamento, si presenta come il coronamento di quel sogno. Nel corso
dei secoli, per ragioni diverse, alcuni uomini politici hanno proposto l'immigrazione
degli ebrei in Palestina, sempre senza successo. Alla meta' del secolo XVI
vi aveva provato Jose' Nassi, un ebreo portoghese sfuggito alle persecuzioni
e alle conversioni forzate rifugiandosi alla corte di Istambul, e diventato
duca di Naxos e signore di Tiberiade; ma gli ebrei a cui offriva rifugio
preferivano andare a Istambul, Smirne, Salonicco, Alessandria, non nella
misera Tiberiade o in una Gerusalemme in cui la comunita' ebraica era ridotta
a poche centinaia di pii rabbini, che facevano discussioni interminabili,
ed erano giunti li' soprattutto perche' volevano essere sepolti in quella
terra. Anche Napoleone, quando dall'Egitto giunse in Palestina, fece un
appello agli ebrei europei perche' vi si recassero: anticipava cosi' il
progetto sionista, sperando di costituire una base d'appoggio per la penetrazione
francese; ma rimase inascoltato, e vedremo perche'. Come, dove e perche'
nasce il sionismo? Il sionismo nasce negli ultimi decenni del XIX secolo nelle
grandi comunita' ebraiche annesse all'impero russo dopo la spartizione della
Polonia. La funzione tradizionale (e scomoda) di mercanti e intermediari
tra proprietari terrieri e contadini si era esaurita con l'abolizione della
servitu' della gleba e l'introduzione accelerata del capitalismo. Il sionismo
nasce come risposta alle persecuzioni e ai massacri (i pogrom) organizzati
dalla polizia zarista, che considera gli ebrei in blocco rivoluzionari e
al tempo stesso li addita ai sottoproletari incolti come sfruttatori e nemici.
In realta', rivoluzionari sono diventati alcuni giovani, che hanno rotto
con il loro ambiente, la famiglia, la religione, diventando gli "ebrei
non ebrei", come Marx, Rosa Luxemburg, Trotskij. Il sionismo inizia
come progetto culturale e diventa poi politico quando l'antisemitismo promosso
da settori reazionari del potere si estende dalla Russia alla Germania,
all'Austria e perfino alla Francia con il famoso processo Dreyfus. Il fondatore
del "sionismo politico", Theodor Herzl, propone di cercare una
"terra senza un popolo" in cui costruire uno Stato ebraico e in
cui rifugiarsi per sfuggire alle persecuzioni. Pensa dapprima all'Uganda,
all'Argentina o all'Uruguay, ma alla fine il progetto si trasforma e viene
motivato con il "ritorno" in Palestina, la "Terra d'Israele"
promessa da Dio al suo popolo. Come gli altri paesi prescelti, non si tratta
di "una terra senza un popolo"; ma questo non conta, anzi. Herzl
offre il suo progetto a diversi sovrani (dall'imperatore di Germania allo
zar, allo stesso Vittorio Emanuele III), ma alla fine trova un punto di
intesa con la Gran Bretagna: "saremo un baluardo dell'Europa contro
la barbarie asiatica, dichiara, cioe' contro i popoli coloniali. Herzl inoltre
chiede appoggio per il proprio progetto, specialmente ai ministri antisemiti
dello zar, come Witte e von Plehve, mettendo in evidenza che loro avrebbero
il vantaggio di liberarsi degli odiati ebrei, aiutandoli a farsi una patria
ben lontano. E' evidente che il sionismo non era un movimento di liberazione,
ma era anzi strettamente collegato al progetto coloniale che si affermava
in tutta l'Europa negli ultimi decenni del secolo XIX e alla vigilia della
Grande Guerra. Herzl discusse il suo progetto col grande razzista britannico
Cecil Rhodes, di cui fu amico ed estimatore, e il suo successore Weizman
lo concretizzo', smettendo di cercare aiuto indistintamente presso tutti
i sovrani, compreso il sultano di Costantinopoli, e puntando decisamente
su una stretta alleanza con l'imperialismo britannico. Comunque la maggioranza degli
ebrei europei e la quasi totalita' di quelli del mondo arabo-islamico rimasero
contrari o indifferenti al sionismo, fino a quando l'arrivo al potere di
Hitler con un programma ferocemente antisemita cambio' la situazione, almeno
in Europa. Ci sono molti elementi che lo confermano: ad esempio, nelle
numerose elezioni tenutesi in Polonia tra il 1918 e il 1939 i voti della
consistente comunita' ebraica si divisero tra comunisti, socialisti e Bund
("Lega", un'organizzazione legata alla socialdemocrazia e che
difendeva i diritti culturali ed economici della popolazione di origine
ebraica, ma era contraria al progetto di emigrazione dei sionisti), mentre
i partiti sionisti restavano nettamente minoritari. Ancora piu' significativo
e' il dato delle correnti migratorie nei primi cinquanta anni dopo l'esplosione
dell'antisemitismo: tra il 1881 e il 1929 (la prima data e' quella dei primi
pogrom, la seconda quella della crisi mondiale del capitalismo e quindi
dell'inizio della "resistibile ascesa" di Hitler), 3.975.000 ebrei
lasciarono le tradizionali zone di concentrazione tra Polonia, Russia, Romania,
ecc. Di essi 2.885.000 hanno scelto gli Stati Uniti, 210.000 l'Inghilterra,
180.000 l'Argentina, 125.000 il Canada, e cosi' via, ma solo 120.000 hanno
accolto la proposta sionista andando in Palestina (e molti non hanno retto
piu' di un anno in quella terra inospitale, che aveva gia' un popolo che
vi risiedeva e non voleva esserne cacciato, e si sono quindi spostati verso
altri paesi). Si trattava dunque di un'emigrazione non diversa da quella
di italiani, spagnoli, irlandesi, e con forti motivazioni economiche, anche
se era stata accelerata dall'intolleranza e dalle persecuzioni. Successivamente
i rapporti privilegiati con il colonialismo britannico faciliteranno questa
immigrazione in Palestina: durante la prima guerra mondiale lord Rotschild
ottiene dal ministro degli Esteri britannico Balfour la famosa dichiarazione
che promette un "focolare ebraico in Palestina", sia pure con
il "rispetto delle minoranze". Ma i palestinesi non erano una
minoranza bensi' la stragrande maggioranza degli abitanti, e la Palestina
promessa ai sionisti apparteneva ancora all'impero ottomano. Una promessa
senza fondamento giuridico, quindi. Sara' l'ascesa e poi l'avvento del nazismo,
che coincide non a caso con la grande crisi economica, a sospingere un maggior
numero di ebrei verso la Palestina, sia perche' piu' gravemente minacciati,
sia perche' l'enorme disoccupazione fa chiudere le porte dell'immigrazione
negli Stati Uniti e in altri paesi. Questa nuova immigrazione comprende
anche ebrei tedeschi ricchi (prima il loro sionismo consisteva nel pagare
il viaggio in Palestina a quelli poveri), che acquistano terre e imprese
di trasporti, allontanando i palestinesi che vi lavoravano. La rivolta araba
del 1936-1939 protesta contro le autorita' britanniche, ma anche contro
questa conquista economica del paese, e chiede il blocco dell'immigrazione
ebraica. Essa viene repressa congiuntamente dalla polizia britannica e dalle
milizie sioniste. E' questo che scava un solco definitivo tra le due comunita'
e innesca quello che stupidamente viene chiamato dai mass-media "l'odio
millenario" tra arabi ed ebrei. In realta', fino a quel momento, in
Palestina e in tutto il mondo arabo, i rapporti erano in genere di amichevole
convivenza. Dopo la rivolta palestinese,
i britannici, che devono fare i conti con una forte componente araba o comunque
islamica nelle loro colonie e protettorati, nel 1939 pongono limitazioni
all'immigrazione sionista. Una parte del
movimento sionista, guidato da Jabotinskij, Shamir, Begin e a cui si riallaccia
poi Sharon, stringe rapporti con Mussolini, che ne ospita un congresso in
Italia e addestra militarmente gli ufficiali della futura marina israeliana.
Alcuni esponenti, durante la guerra, cercarono contatti persino con i nazisti
(in Ungheria), proponendo uno scambio tra l'emigrazione in Palestina della
locale comunita' ebraica e una grossa fornitura di automezzi militari. La
destra sionista comincia a combattere i britannici (anche in piena guerra),
con un feroce terrorismo che fa molte vittime anche palestinesi ed ebree,
ad esempio facendo saltare in aria nel 1946 l'hotel King David a Gerusalemme
(anche l'ambasciata britannica a Roma viene demolita da un terribile attentato).
La stessa maggioranza laburista e' ormai in rottura con i britannici e punta
sull'imperialismo USA, ma ha anche uno strano alleato: il Sudafrica razzista,
sul cui territorio verra' allestita l'aviazione sionista, che interverra'
con forze preponderanti nella guerra del 1948-1949. D'altra parte, anche
i paesi del blocco sovietico forniscono armi all'esercito sionista, illudendosi
di approfittare delle tensioni con la Gran Bretagna. L'OCCUPAZIONE SIONISTA DELLA TERRA PALESTINESE torna
in alto Un luogo comune diffusissimo
e' che il conflitto sarebbe diventato insanabile perche' "i palestinesi
hanno rifiutato una ragionevole spartizione proposta dall'ONU nel 1947".
Si tratta di una tesi che non si regge, basata su falsi e forzature. Esaminiamoli.
La divisione era ingiusta: i sionisti nel 1947 erano ancora circa un terzo
degli abitanti, ma veniva assegnato loro il 56 % del territorio (con una
forte minoranza palestinese incorporata), mentre la grande maggioranza dei
palestinesi dovevano accontentarsi di un'area frammentata che copriva circa
il 40 % del paese; Gerusalemme doveva restare "zona internazionale"
sotto controllo dell'ONU. Era comprensibile rifiutare questo piano, che
calpestava i diritti dei due terzi degli abitanti. Ma vediamo chi lo ha
rifiutato. Non potevano farlo i palestinesi,
che dopo trent'anni di occupazione britannica e la feroce repressione del
1936-1939 non avevano una rappresentanza democraticamente eletta. Il rifiuto
venne dai regimi arabi adiacenti, tutti asserviti all'imperialismo britannico:
in Giordania, in Iraq, in Egitto, per non parlare dell'Arabia Saudita, c'erano
sovrani feudali sotto tutela britannica, e con eserciti diretti da ufficiali
inglesi. La Gran Bretagna era interessata a scatenare un conflitto tra arabi
ed ebrei, che forniva un buon diversivo ai corrotti sovrani su cui si appoggiava
in quell'area. D'altra parte, il metodo era costante: si pensi al conflitto
sanguinoso tra musulmani e indu' innescato per tentare di mantenere il controllo
sul subcontinente indiano. Ma i sionisti, oltre
a vincere la guerra grazie a una netta supremazia militare sia sul piano
dell'addestramento sia su quello dello stesso armamento
(supremazia che hanno sempre cercato di occultare presentandosi come David
contro Golia), realizzarono i loro fini occupando un'area molto piu'
ampia di quella assegnata loro dall'ONU, proprio grazie all'accordo
segreto con uno di quei sovrani feudali, Abdallah di Transgiordania, che
consenti' la spartizione definitiva lungo i confini rimasti in vigore fino
al 1967. In questo modo i palestinesi rimasti fuori da Israele finirono
sotto una tutela a loro sgradita. La loro percentuale nello Stato di Israele,
in origine vicina al 50%, fu drasticamente ridotta cacciandoli con il terrore
e le minacce. I profughi finirono in Cisgiordania e in altri Stati arabi,
ammucchiati in miseri campi. Il conte Bernadotte, il rappresentante dell'ONU
che aveva proposto tra le condizioni di pace il ritorno dei palestinesi,
fu assassinato da un commando sionista. Se gia' nel 1948-1949 sul piano
militare non era Israele ad essere la parte piu' debole, nelle guerre successive
il rapporto divenne ancor piu' squilibrato. Nel 1956 l' aggressione israeliana
all'Egitto, in appoggio alle forze di invasione colonialiste franco-britanniche
che rifiutavano la nazionalizzazione della Compagnia del Canale di Suez,
fu all'origine della cacciata degli ebrei dai paesi arabi. In Iraq, dove
la maggioranza della ben inserita comunita' ebraica - la piu' antica della
diaspora - non voleva partire, una serie di provocazioni e alcune bombe
messe nelle sinagoghe da agenti israeliani accelerarono l'esodo, di cui
il regime reazionario di Bagdad approfitto' per incamerare le proprieta'
di chi partiva (come i sionisti si erano impossessati di terre e case dei
palestinesi cacciati). Quanto alla cosiddetta
"aggressione araba" del 1967, si tratta di una leggenda senza
fondamento: i regimi arabi, a partire da quello egiziano, facevano dichiarazioni
infiammate in difesa dei palestinesi, ma non si erano preparati affatto
alla guerra, che duro' solo sei giorni proprio perche' l'aviazione egiziana,
siriana e degli altri paesi fu distrutta negli aeroporti senza neppure riuscire
a decollare. Fu quella guerra, condotta a tradimento (e presentata in tutto
il mondo come difensiva), che porto' all'occupazione della Cisgiordania
e della striscia di Gaza, creando le basi delle tragedie successive, compresa
quella odierna. Da allora e'
sempre stato negato il diritto a ritornare a chi era nato in Palestina e
ne era stato cacciato, mentre lo Stato di Israele ha continuato a incoraggiare
le conversioni, per compensare la scarsa affluenza dalle piu' grandi comunita'
ebraiche, soprattutto degli Stati Uniti. Un caso limite e' quello della
comunita' neoebraica sorta spontaneamente tra i contadini cristiani di San
Nicandro Garganico negli anni Trenta, spinti poi ad emigrare in Israele
negli anni Cinquanta, senza che avessero la piu' lontana ascendenza ebraica
(ma servivano braccia.). Anche una parte cospicua degli immigrati provenienti
dall'URSS negli anni Settanta e Ottanta non avevano una sicura ascendenza
ebraica, e volevano solo sfuggire alla crisi del loro paese. ORIGINE, ASCESA E DECLINO DELL'OLP torna
in alto Fino al 1967 i palestinesi
non avevano avuto una rappresentanza autonoma,
ed erano oppressi sia da Israele, sia dai regimi arabi, che ne assumevano
per esigenze interne una poco efficace difesa, prevalentemente verbale.
Formalmente l'OLP (Organizzazione di Liberazione della Palestina) era stata
costituita nel 1964, ma era un organismo burocratico - creato soprattutto
dall'Egitto - alla cui testa era stato collocato Ahmed al-Shuqeiri, un personaggio
senza credibilita', che non esitava a riprendere vecchi argomenti della
propaganda antisemita fascista. E' proprio dopo la penosa sconfitta dei
paesi arabi nella guerra del 1967 che emerge al Fatah, guidata gia' allora
da Yasser Arafat. Il suo nucleo centrale si era formato al Cairo nel 1957,
sotto l'impressione della sconfitta militare egiziana (il successo iniziale
di Israele era stato pero' fermato dalla resistenza delle masse egiziane,
e dall'intervento politico dell'URSS e degli Stati Uniti). Pesera' anche
molto l'esempio della lotta armata algerina, iniziata subito dopo la sconfitta
francese a Dien Bien Phu nel Vietnam. Al Fatah conquista un grande prestigio
con qualche azione di guerriglia fin dal 1965 (in particolare il sabotaggio
degli impianti israeliani per la deviazione delle acque del Giordano), e
poi nel 1968 con la battaglia di Karameh, che ferma una colonna israeliana
entrata in Giordania, e rappresenta l'unica azione militare vittoriosa realizzata
dagli arabi in quella fase. Conquistata la direzione
dell'OLP, Arafat cerca di coinvolgere altre organizzazioni, come il Fronte Popolare di Liberazione della Palestina di
George Habbash (FPLP o piu' brevemente FP) e il Fronte Democratico Popolare
di Liberazione della Palestina di Nayef Hawatmeh (FDPLP o FD), entrambi
laici e di tendenza piu' o meno marxista. Il rapporto sara' sempre difficile,
con frequenti rotture e nuove convergenze; le divergenze sono sulle tattiche
di lotta, ma anche sulla necessita' di sottrarre i palestinesi alla tutela
dei regimi reazionari arabi. L'OLP si trasforma presto in un grosso apparato
statale senza uno Stato, e ha quindi sempre piu' bisogno di contributi da
parte dei paesi della Lega Araba, soprattutto dell'Egitto, dell'Iraq e dell'Arabia
Saudita. In questo contesto i contributi dei palestinesi della diaspora,
alcuni dei quali hanno raggiunto posizioni di rilievo soprattutto nei paesi
del Golfo, diventano determinanti non solo per la sopravvivenza dell'apparato,
ma anche per l'accettazione da parte dell'OLP delle pressioni dei paesi
arabi" Cosi', per non irritare i regimi che finanziano il costoso apparato,
la maggioranza dell'OLP guidata da Arafat teorizza la "non ingerenza"
negli affari interni dei paesi arabi che, oltre ad essere in stridente contraddizione
con le diffuse aspirazioni all'unita' araba, e' praticamente impossibile,
soprattutto in Giordania, dove i palestinesi sono la maggioranza della popolazione
e influenzano inoltre i settori giordani piu' avanzati, mentre il re Hussein
(nipote di quell'Abdallah che era stato scelto dagli inglesi) si appoggia
solo sulle armatissime tribu' beduine, come lui fatte venire dal cuore dell'Arabia
saudita. Il risultato e' che i palestinesi vengono ugualmente coinvolti
nei conflitti interni, risolti da Hussein facendo bombardare i quartieri
poveri di Amman nel settembre 1970 (la risposta palestinese, tardiva ed
esasperata, sara' l'ondata di terrorismo in tutti i paesi che hanno protetto
Hussein, e prendera' il nome di "settembre nero"). La stessa situazione
si riproporra' nel fragile Libano, dominato da uno strato reazionario e
filoimperialista, che ha chiesto aiuto alla flotta e ai paracadutisti degli
Stati Uniti nel 1958 (quando una sollevazione popolare aveva spazzato via
il sovrano filobritannico dell'Iraq, e la rivoluzione araba sembrava dilagare
ovunque). Israele prepara pazientemente una rete di notabili al suo servizio
e, nel 1978, in concomitanza con le trattative di pace con l'Egitto, creera'
un sedicente "Libano Libero", affidato alle feroci milizie del
maggiore Haddad, un disertore libanese armato e stipendiato dal governo
di Tel Aviv. La zona occupata da Haddad e dagli israeliani arriva al fiume
Litani, ricco di acque che vengono dirottate verso la parte settentrionale
di Israele, che e' al contrario piuttosto arida. La propaganda sionista
e reazionaria ripete che Arafat e' un terrorista e un estremista. E' semplicemente assurdo: all'inizio della sua attivita' politica,
Arafat ha scelto la lotta armata perche' non aveva altra scelta, e perche'
aveva di fronte a se' l'esempio di come i sionisti si erano impossessati
della sua terra, con la lotta armata e un terrorismo spietato verso le truppe
di occupazione britanniche, i palestinesi, e anche tra le stesse formazioni
sioniste concorrenti. Ma ha scelto poi la strada della trattativa, della
ricerca di un'intesa anche attraverso un compromesso, al punto di provocare
lacerazioni tra gli stessi palestinesi. Arafat puo' essere definito "un
terrorista" come lo e' stato Nelson Mandela nei ventisette anni detenzione,
fino al giorno in cui la classe dominante bianca ha dovuto tirarlo fuori
dalla prigione e chiedergli di tenere a bada le masse africane (rimaste
prive del potere economico, proprio grazie alla buona disponibilita' di
Mandela e degli altri dirigenti neri dell'ANC all'accordo e alla coesistenza
basata sullo status quo). Per questo gli israeliani, che lo attaccano sui
mass media istericamente, hanno evitato di ucciderlo, pur avendo i mezzi
per farlo, come hanno fatto con tanti suoi collaboratori. Lo hanno fatto
nel 1983 con Issam Sartawi (che era per giunta un uomo che cercava l'intesa
con le componenti piu' ragionevoli della societa' israeliana), nel 1988
con Abu Jihad, e con moltissimi altri, anche in questa fase; ma hanno evitato
di ucciderlo sapendo che, morto Arafat, anche le masse palestinesi piu'
moderate esploderebbero in una rivolta esasperata e distruttiva. Arafat e' responsabile
dell'integralismo islamico? In un certo
senso si', ma non in quello riproposto sistematicamente dai mass media.
L'integralismo islamico si e' sviluppato nella societa' palestinese, che
era la piu' laica di tutto il mondo arabo, come reazione alle sconfitte
subite per effetto della linea troppo conciliante dell'OLP controllata da
Arafat, che aveva rinunciato molto presto alla lotta armata, ricercando
una soluzione diplomatica e illudendosi che questa si potesse ottenere solo
grazie alle pressioni dei regimi arabi filoimperialisti (Egitto, Arabia
Saudita e la stessa Iraq prima della Guerra del Golfo, che la trasformo'
in "nemico assoluto"). E' sintomatico che, quando si e' sviluppato,
l'integralismo islamico ha potuto realizzare un'alleanza con il FP e il
FD, le due organizzazioni di sinistra, laiche e con leader che, oltre ad
essere marxisti, sono anche di origine cristiana. La sua crescita era legata
alla necessita' di continuare la resistenza, che Arafat manteneva a parole
ma di fatto bloccava per non urtare i suoi protettori legati agli Stati
Uniti. D'altra parte, i sionisti
non hanno il diritto di parlare dell'integralismo islamico, per molte ragioni. Oggi, per loro, l'integralismo e' un grosso problema, che
non sanno come affrontare e con cui e' difficile una trattativa, ma per
anni lo hanno incoraggiato - soprattutto nella striscia di Gaza - per dare
fastidi all'OLP, il cui laicismo e non confessionalismo creava problemi
a Israele, Stato confessionale e integralista. Nella direzione dell'OLP
ci sono infatti musulmani, cristiani, marxisti, anche ebrei come Ilan Halevy.
Per la stessa ragione, gli israeliani hanno puntato da sempre alla decomposizione
del Libano che - sia pure in una forma un po' macchinosa, escogitata dalla
Francia quando aveva creato questo paese staccandolo dalla Siria dopo la
prima guerra mondiale, con un mandato della Societa' delle Nazioni (ma in
realta' in base alla spartizione del Medio Oriente con la Gran Bretagna
sancita dagli accordi Sykes-Picot) - aveva una Costituzione che assicurava
la collaborazione tra cristiani maroniti e ortodossi, musulmani sciiti e
sunniti, drusi, ecc. Per Israele, l'uno e l'altro caso facevano scandalo
e potevano dare un "cattivo esempio" alle minoranze non ebraiche
prive di diritti. Abbiamo definito Israele "Stato
confessionale e integralista". Va detto che una risoluzione dell'assemblea
generale dell'ONU del 10 novembre 1975, basandosi sulla legislazione e la
pratica dei governi sionisti, sugli stretti rapporti con il Sudafrica dell'Apartheid
e sulle analogie tra i due sistemi di dominazione, ha definito il sionismo
"una forma di razzismo e di discriminazione razziale". Naturalmente
questa e' una delle tante risoluzioni dell'ONU rimaste senza conseguenze.
Non era mai stato seriamente imposto a Israele di attenersi alla spartizione
decisa con la risoluzione n. 181 del 1947, ingiusta ma che le assegnava
"solo" il 54 % della Palestina, mentre se ne era presa l'80% fino
al 1967 e poi tutta, piu' alcuni pezzi di territorio strappati al Libano
e alla Siria. Mai si e' tentato di tradurre in pratica la risoluzione n.
242 del 22 novembre 1967, che chiedeva il ritiro dai Territori Occupati,
ecc. Privo di conseguenze pratiche anche l'invito ad Arafat a parlare all'assemblea
generale dell'ONU il 13 novembre 1974: l'effetto psicologico fu grande,
perche' Arafat apri' il suo discorso dicendo: "porto in una mano un
ramo d'ulivo, e nell'altra il mio fucile di combattente. Non fate che il
ramo d'ulivo cada dalla mia mano". Egli presento' inoltre il progetto
dell'OLP di "uno Stato democratico in cui cristiani, ebrei e mussulmani
vivano in giustizia, uguaglianza e fraternita'", un progetto che, pur
riducendo il problema etnico a quello religioso, aveva una notevole forza
morale, ma senza risultati concreti, nonostante di fatto Arafat avesse fatto
cadere dalla sua mano non l'ulivo ma il fucile. A quel risultato si
era arrivati dopo la guerra arabo-israeliana dell'ottobre 1973, l'unica effettivamente scatenata per iniziativa dei paesi
arabi, che colsero di sorpresa Israele, mettendola in difficolta' (fu salvata
soltanto da un massiccio aiuto degli Stati Uniti). Anche l'avvio di una
riduzione della produzione di petrolio aveva messo in difficolta' i paesi
capitalistici, soprattutto perche' coincideva con una recessione economica
di notevole portata. Ma quella guerra, che fu definita "di regolamentazione",
venne usata dall'Egitto per preparare una pace separata. Il successivo viaggio
di Sadat a Gerusalemme nel novembre 1977, e poi gli accordi di Camp David
del settembre 1978, furono salutati come un passo verso una soluzione generale
del problema del popolo palestinese, che fu invece abbandonato dall'Egitto,
mentre Israele, garantito sul fianco Sud, poteva cominciare la penetrazione
e poi il tentativo di conquista del Libano per cacciare anche da quel paese
i palestinesi. Alcune voci, dalla sinistra marxista palestinese, avevano
denunciato quella manovra, ma senza successo. I regimi arabi avevano dato
all'OLP un premio di consolazione, riconoscendola nel vertice di Algeri
del 27 novembre 1973 "unica rappresentante del popolo palestinese",
con una formulazione piu' che discutibile, perche' in realta' molte organizzazioni
rimanevano al di fuori dell'OLP e i criteri di formazione del gruppo dirigente
erano sempre meno democratici, basati sulla cooptazione senza nessuna elezione
dei rappresentanti dei gruppi che accettavano la linea di Arafat. Paradossalmente
l'OLP veniva riconosciuta "unica rappresentante" proprio quando
non lo era piu'. Anche la Siria, che pure criticava duramente l'opportunismo
egiziano, gia' delineatosi subito dopo la guerra del 1973, approfitto' della
situazione per impossessarsi nell'aprile 1976 del Libano, dove rimane tuttora.
La Siria tra l'altro puntello' le forze della destra falangista (armate
e istruite da Israele), che stavano soccombendo nella guerra civile, di
fronte a una coalizione tra palestinesi e progressisti libanesi. In quella
fase i falangisti furono lasciati liberi di assediare per 52 giorni il campo
profughi di Tel al-Zaatar, dove massacrarono sotto gli occhi della Croce
rossa internazionale 6.000 palestinesi, tra cui moltissimi bambini, donne,
vecchi inermi. Lo stesso Sharon ammise poi la partecipazione di ufficiali
israeliani a quell'eccidio. Ma la Siria fu complice della strage. La tragedia si compira'
nel 1982, con l'invasione israeliana e il
nuovo feroce massacro compiuto dalle milizie falangiste al servizio e sotto
la diretta e personale protezione di Sharon (ma con l'avallo dell'intero
governo Begin) nei campi di Sabra e Chatila. Durante l'invasione del Libano
le milizie palestinesi, a differenza dell'esercito regolare libanese, infliggono
forti perdite agli israeliani, ma l' abbandono del campo da parte di Arafat
innesca una guerra civile tra i palestinesi. Contro Arafat si schierano
sia le formazioni filosiriane, sia una parte di al Fatah. Inoltre, una volta
scacciati anche dal Libano, come nel 1970 dalla Giordania, i palestinesi
non hanno piu' un territorio da cui possano colpire lo Stato di Israele
con vere e proprie azioni militari. Sono per giunta sempre vessati dai regimi
arabi, che li ospitano, ma che spesso costituiscono per i loro fini piccoli
gruppi in polemica con l'OLP (in primo luogo la Siria, ma anche la Libia).
Non possono quindi piu' decidere se scegliere di far cadere il ramo d'ulivo
o il fucile. Rimane solo la possibilita' di azione diplomatica, ma non hanno
piu' i mezzi per imporla. Continueranno, sospinti dall'URSS - a cui si sono
allineati totalmente anche i due gruppi marxisti - a chiedere vanamente
una conferenza internazionale. Sotto la pressione della direzione sovietica,
FP e FD accettano di rientrare a pieno titolo nell'OLP, nel CNP di Algeri
dell'aprile 1987, lasciando carta bianca ad Arafat che, pure, aveva tentato
un assurdo accordo con re Hussein (il boia di Amman) e che subito dopo riprende
i contatti con l'Egitto, il quale ha riconosciuto Israele, senza una discussione
preliminare in seno al massimo organismo dell'OLP. Una scelta che mette
in difficolta' sia il FP e il FD, sia il PCP (il piccolo Partito comunista
palestinese), che era stato accolto nel CNP per far piacere a Mosca, sia
pure con una rappresentanza di appena la meta' di quella assegnata a una
frazione integralista islamica. Negli anni tra il 1982 e il
1987 la soluzione della questione palestinese appare in ogni caso sempre
piu' lontana. Molti commentatori parlano apertamente di "armenizzazione",
alludendo alle vicende del popolo armeno al quale, dopo i massacri operati
dalla Turchia durante e dopo la prima guerra mondiale, non e' rimasta altra
risorsa se non quella di sporadici ricorsi ad attentati alle sedi diplomatiche
turche in molti paesi, senza che nessuno se ne preoccupi troppo. Ma nel dicembre 1987
esplode improvvisamente l'Intifada, la grande
rivolta degli abitanti dei Territori occupati (letteralmente il termine
vuol dire: "scuotersi di dosso" o "sollevazione"), innescata
da una provocazione di un colono sionista che ha investito e ucciso con
un autocarro quattro lavoratori palestinesi del campo profughi di Jabaliya.
Coglie di sorpresa gli israeliani, ma anche i dirigenti dell'OLP. E' guidata
da una rappresentanza locale che non risponde direttamente all'OLP, anche
se non le si contrappone. L'Intifada attacca l'esercito di occupazione con
pietre e disobbedienza di massa, il boicottaggio di prodotti israeliani,
il rifiuto di pagare le tasse, molti scioperi (tra cui uno commerciale protratto
per ben due mesi). Ad alimentarla e' una nuova generazione, in gran parte
nata dopo l'occupazione del 1967, che rifiuta l'attendismo di Arafat e organizza
la popolazione in forma democratica, con un ruolo inedito e di grande rilievo
delle donne. Le piu' giovani partecipano agli attacchi con le pietre, o
deridono e insultano i soldati; le altre organizzano orti, forni e altre
attivita' che assicurano la sussistenza della popolazione, assediata dalle
truppe nei villaggi, senza rifornimenti e senza potersi spostare (per lunghi
periodi anche i lavoratori pendolari non possono piu' raggiungere i posti
di lavoro in Israele). L'Intifada era stata preparata
sia da un gran numero di iniziative spontanee (tra l'aprile 1986 e il maggio
1987 si erano registrati ben 3.150 incidenti nei Territori, che andavano
dal lancio di sassi contro i blocchi stradali dell'esercito ad attacchi
con esplosivi o armi da fuoco), sia sul terreno politico, con una serie
di interventi che criticavano il carattere disperato (per la netta sproporzione
dell'armamento delle due parti) di molte azioni violente spontanee e proponevano
la rinuncia alle armi, cioe' una specie di "non violenza tattica"
che mettesse a nudo la brutalita' degli occupanti e aprisse contraddizioni
all'interno della popolazione e degli stessi militari israeliani, togliendo
ad essi la giustificazione di combattere per salvarsi da un nuovo "olocausto". L'Intifada si e' protratta per
molti anni, almeno fino alla Guerra del Golfo, con varia intensita' e moltissime
vittime: nei primi tre anni sono morti 900 palestinesi, assassinati dai
militari occupanti o dagli armatissimi coloni oltranzisti. Il 25% dei caduti
era sotto i 16 anni; sull'altro fronte, nello stesso periodo, si registrano
una sessantina di morti tra militari e civili israeliani (tra cui 16 occupanti
dell'autobus Tel Aviv-Gerusalemme, fatto precipitare in una scarpata da
un palestinese di Gaza, che ha inaugurato la serie degli attentati suicidi
nel luglio 1989). Molte delle vittime israeliane sono cadute sotto i colpi
della cosiddetta "Intifada dei coltelli", consistente in gesti
disperati di giovani palestinesi che - soprattutto nell'ultima fase di frustrazione
per la mancanza di risultati visibili - si impossessavano di un coltello
in una macelleria e colpivano a caso i presenti, per vendicare amici o parenti
uccisi. Inoltre, sono state eseguite sommarie condanne a morte nei confronti
di circa 350 palestinesi collaborazionisti, o sospettati di esserlo. Molte
decine di migliaia di palestinesi sono stati arrestati e detenuti senza
processo; oltre 1.400 case sono state demolite, per rappresaglia contro
la partecipazione di un abitante a una sassaiola; 85.000 alberi - in gran
parte ulivi - sono stati sradicati. Ma i risultati ci sono stati.
Israele e' stata gravemente screditata e costretta a non partecipare alla
Guerra del Golfo, per non provocare reazioni troppo forti tra la popolazione
dei paesi arabi, i cui governi hanno partecipato alla squallida impresa
in cambio della cancellazione del debito o di concessioni di aiuti di vario
genere. Da quella guerra lo Stato di Israele e' uscito indebolito. Il suo
punto di forza, gia' dal progetto iniziale di Herzl, era presentarsi come
"baluardo" dei paesi imperialisti in quell'area, contro la rivoluzione
araba. Ma da chi avrebbe dovuto salvare l'Occidente, dopo che tutti i paesi
arabi hanno partecipato alla crociata contro l'Iraq? Rimaneva certo una
lobby israeliana negli USA - composta anche da non ebrei e perfino da convinti
antisemiti - molto importante nelle scadenze elettorali di quel paese, ma
il suo peso politico era comunque ridimensionato. E' questo che ha consentito
agli Stati Uniti di esercitare una pressione sui governi israeliani, imponendo
l'apertura della trattativa culminata nei cosiddetti accordi di Oslo, che
non hanno portato a una vera pace ma hanno obbligato Israele a fare alcune
concessioni (accettate dall'OLP, ma inaccettabili per il popolo palestinese
e, al tempo stesso, sgradite agli oltranzisti israeliani, che hanno lavorato
per dilazionarne l'attuazione). La guerra del Golfo ha comunque
peggiorato ancor piu' la condizione dei palestinesi. Non e' vero che Arafat
avrebbe sostenuto il suo vecchio protettore, Saddam Hussein (che era stato
utilizzato d'altra parte fino a pochi anni prima dagli Stati Uniti e dai
regimi reazionari del Golfo contro la rivoluzione iraniana, e a cui era
stato perdonato il massacro di curdi e sciiti); tuttavia, ha effettivamente
cercato, non meno dell'URSS, un'impossibile mediazione per evitare il conflitto.
In realta', sono stati i palestinesi dei Territori occupati e quelli dei
campi, frustrati dal mancato sbocco positivo dell'Intifada, a esultare per
i modesti e imprecisi missili iracheni che passavano sulle loro teste, e
a pagare per questo un prezzo altissimo. Ancora piu' pesanti le ripercussioni
sui palestinesi che lavoravano - spesso con incarichi qualificati e ben
retribuiti - nei paesi del Golfo, che sono stati quasi tutti licenziati
ed espulsi, facendo cosi' mancare le loro importanti rimesse ai familiari
e alla stessa OLP. Dopo la guerra del Golfo l'Intifada conosce molte difficolta'
e un sostanziale declino; aumenta il peso dell'integralismo islamico, ma
e' anche frequente il ritorno a gesti disperati di terrorismo individuale,
tra cui gli attentati suicidi. IL TERRORISMO PALESTINESE E IL TERRORISMO DELLO STATO DI ISRAELE
torna in alto E' questo contesto che va tenuto
presente per capire e non demonizzare il terrorismo che dilaga nei momenti
di sconfitta e di frustrazione. Il primo elemento che va tenuto presente
e' che il terrorismo palestinese e' frutto quasi sempre della disperazione,
mentre si trova di fronte un terrorismo di Stato che, ad esempio, pratica
sistematicamente massicce rappresaglie su familiari o concittadini sicuramente
innocenti come ritorsione al gesto di una singola persona. Il fatto che
si usino cannoni, aerei ed elicotteri o missili invece di un candelotto
di dinamite non toglie certo responsabilita', anzi le aggrava. Lo Stato di Israele ha piu'
volte abbattuto o dirottato aerei in tempo di pace, ha perfino attaccato
nel 1967 la nave spia statunitense Liberty, fingendo di credere che fosse
egiziana, provocando 34 morti e 75 feriti e danneggiandola gravemente per
impedire che controllasse i suoi movimenti. L'alleanza non era evidentemente
ancora consolidata, ma gia' era tale che gli Stati Uniti finsero di credere
alle scuse dell'aviazione israeliana; solo quest'anno si e' ammesso che
in realta' erano consapevoli, e preferirono tacere. Fin dal 1948 Israele
ha praticato la distruzione di interi villaggi, uccidendo una parte della
popolazione e mettendo in fuga con il terrore i sopravvissuti e gli abitanti
dei villaggi vicini. Il 9 aprile tocco' a Deir Yassin, con un bilancio di
circa 250 morti. Altre distruzioni "per rappresaglia" vi furono
nel 1953, a Qibya (60 morti, per reazione alla morte di tre israeliani,
uccisi non si sa da chi), mentre 500 civili furono assassinati a freddo
durante la conquista di Gaza nel 1956, 200 a Khan Yunis e altrettanti a
Rafa, e 49 contadini furono sterminati mentre tornavano dal lavoro ignari
del coprifuoco imposto da Israele a Kfar Qasim. Queste operazioni furono
compiute direttamente da militari israeliani. Alcuni di essi furono sospesi
dal servizio quando scoppio' lo scandalo sulla stampa di Tel Aviv, ma furono
successivamente richiamati e continuarono la propria carriera avanzando
normalmente nei gradi. Piu' noti i massacri che nel Libano furono delegati
ai mercenari falangisti. In varie occasioni furono dirottati aerei, o anche
abbattuti, nella convinzione di trovarvi dirigenti palestinesi (come Habbash
nel 1973), o generali egiziani ritenuti particolarmente capaci. In vari
periodi vi furono assassinii di dirigenti palestinesi con pacchi bomba o
perfino telefonini bomba, o con commandos che colpirono a Beirut o a Tunisi
(dove un bombardamento del Quartier generale palestinese provoco' decine
di morti civili). Il terrorismo del Mossad (il
servizio segreto israeliano) ha poi colpito con particolare accanimento
gli esponenti palestinesi piu' impegnati nel dialogo con i pacifisti dello
Stato di Israele, a partire da Said Hammami, rappresentante dell'OLP a Londra,
assassinato il 4 gennaio 1978. Un altro diplomatico mederato, 'Izz al-Din
Kalak, fu ucciso a Parigi il 3 agosto dello stesso anno, e il 10 aprile
1983 fu eliminato in Portogallo Issam Sartawi, erede di Hammami e principale
sostenitore del dialogo con i pacifisti israeliani. Al suo posto Arafat
nomino' Ilan Halewy, un ebreo di origine yemenita che dopo avere militato
nel Matzpen, l'organizzazione della sinistra rivoluzionaria di tendenza
trotskista, aveva deciso di lasciare Israele e mettersi a disposizione dell'OLP.
Quattro dirigenti palestinesi, d'altra parte, sono stati assassinati anche
in Italia: tra essi, gia' nel 1972, il rappresentante dell'OLP a Roma Wael
Zwaiter, che aveva stabilito importanti rapporti con molti ebrei italiani.
Gli altri tre, tutti uccisi in una Roma in cui il Mossad scorrazzava indisturbato,
erano Majed Abu Sharar, responsabile del dipartimento dell'informazione
dell'OLP (9 ottobre 1981), Kamal Hussein, vice-responsabile dell'OLP in
Italia e Nazih Maitar, giornalista (17 giugno 1982, nei primi giorni della
guerra del Libano). Meno noto, ma emerso da testimonianze di protagonisti
sulla stessa stampa israeliana, e' il fatto che il terrorismo del Mossad
colpi' anche ebrei, per esempio a Bagdad, per indurli a emigrare in Israele.
Un altro episodio sconcertante aveva provocato una grave crisi politica
in Israele ("l'affare Lavon", dal nome del ministro che risulto'
il mandante), quando alcuni ebrei egiziani furono scoperti nel 1954 mentre
mettevano ordigni esplosivi in centri culturali britannici e statunitensi
al Cairo e ad Alessandria, per addossarne la responsabilita' al governo
locale e preparare psicologicamente l'opinione pubblica occidentale all'intervento,
che poi vi fu nell'ottobre-novembre 1956. Sulla grande stampa italiana e
mondiale questo non sarebbe terrorismo: esiste solo quello palestinese!
In realta', e' proprio l'esempio del feroce ma efficace terrorismo con cui
i sionisti hanno conquistato il loro Stato, e poi lo hanno consolidato,
che ha spinto chi e' esasperato da tante sconfitte e da tanti lutti a cercare
questa strada. Il terrorismo palestinese di
oggi e' tuttavia condannato dalla direzione dell'OLP e forse da una parte
notevole della stessa popolazione, che ne subisce le conseguenze, con i
bombardamenti, le distruzioni di case, ecc. Ed e' tanto piu' assurdo - oltre
che immorale e giustamente paragonato ai metodi dei nazisti - il metodo
della rappresaglia sulla popolazione civile sicuramente innocente, dal momento
che e' evidentemente inefficace come deterrente. Chi, spinto dalla disperazione
e dalla rabbia per le ingiustizie subite, e' pronto ad allacciarsi una cintura
di esplosivo alla vita per morire insieme ai propri nemici (come fece Sansone
con tutti i filistei) non puo' certo essere fermato dall'esempio delle rappresaglie
che hanno seguito gli attentati precedenti ed e' anzi esasperato da queste
e sospinto ancor piu' decisamente su questa strada, che innesca una spirale
tragica. E' scandaloso che dopo ogni attentato suicida di un integralista
palestinese la cosiddetta "opinione pubblica" occidentale condanni
chi lo ha compiuto e non chi lo ha provocato, o almeno li metta sullo stesso
piano (come fa buona parte della stessa sinistra italiana), dimenticando
che la responsabilita' degli israeliani e' senza dubbio collettiva e ben
maggiore di quella di chi reagisce individualmente ai bombardamenti e agli
altri atti di rappresaglia dell'esercito, compiuti su una popolazione che
spesso non ha nulla a che vedere con l'integralismo e soprattutto con il
singolo "kamikaze" che si e' fatto saltare in aria in un locale
pubblico o ha fatto precipitare l'autobus su cui viaggiava in un burrone. QUALCHE APPUNTO SULLA SOLIDARIETA' NECESSARIA torna
in alto Il ruolo dell'opposizione
israeliana. Dell'opposizione interna a Israele si parla poco e spesso
a sproposito, ma esiste. Solo che in alcuni momenti e' stata isolata dall'opportunismo
dei laburisti, che in molti periodi, come quello attuale, non hanno esitato
a collaborare a governi di coalizione che hanno compiuto crimini gravissimi
(d'altra parte era stato lo stesso Rabin, che dopo la sua uccisione da parte
di un estremista di destra fu esaltato in tutto il mondo come uomo di pace,
a impartire l'ordine di spezzare le ossa delle braccia ai ragazzi palestinesi
che tiravano pietre). Ad esempio, all'inizio della guerra del Libano Peace
Now, il famosissimo movimento pacifista egemonizzato dai laburisti, teorizzo'
che non bisognava fare manifestazioni per non indebolire lo sforzo bellico,
cosi' le prime proteste raccolsero poche centinaia di militanti della vera
sinistra antagonista, che venivano represse non solo dalla polizia ma dagli
stessi concittadini, che li accusavano di essere traditori e "servi
di Arafat". Tuttavia, quando i caduti israeliani in quella guerra cominciarono
ad essere tanti (circa 600, molti di piu' che in tutti gli attentati palestinesi
dei quindici anni precedenti), le manifestazioni crebbero e coinvolsero
anche i moderati, che alla fine portarono in piazza duecentomila persone.
(Per capire l'ambiguita' e le contraddizioni dei laburisti, e dei minori
partiti di sinistra, e' utile pensare ai DS di fronte a Genova: quando sono
stati premuti da una sinistra antagonista che incideva sulla loro base hanno
finito per aderire alle manifestazioni, salvo immediati pentimenti e conseguenti
lacerazioni). Ma la coraggiosa sinistra antagonista israeliana, che ha cercato
sempre il dialogo con i palestinesi a partire dalla solidarieta' con le
vittime di soprusi, a cui ha assicurato ad esempio la difesa legale, e'
poco conosciuta nel mondo, mentre ogni blanda e ambigua dichiarazione laburista
viene amplificata dall'Internazionale socialista (quindi in Italia dal PCI-DS,
e a volte, per forza di inerzia, anche da una parte del PRC) e da tutti
i mass media. Bisogna quindi assolutamente sostenere i militanti israeliani
che si oppongono da sempre alla politica criminale (e in prospettiva suicida)
dei loro governi, e prima di tutto farli conoscere. Sono loro che potranno
garantire, un giorno, la pacifica convivenza tra israeliani e palestinesi. L'inconsistenza dell'Onu. Abbiamo piu' volte ricordato come le poche prese di posizione
corrette dell'ONU non sono state applicate. Cio' si deve in primo luogo
al peso schiacciante degli Stati Uniti attraverso il Consiglio di Sicurezza
in cui hanno diritto di veto, ma anche alla subordinazione di tantissimi
governi di paesi ex coloniali all'imperialismo. Per questo non ci sono state
che blande proteste quando all'inizio della guerra del Libano i carri armati
israeliani hanno spazzato via le forze di interposizione delle Nazioni Unite,
o quando nell'aprile 1996 l'aviazione sionista ha attaccato una caserma
dell'ONU, uccidendovi oltre 100 civili libanesi che vi si erano rifugiati.
Non puo' quindi essere una soluzione quella di richiedere un maggiore intervento
dell'organismo internazionale: per renderla possibile e utile bisogna creare
nel mondo un movimento di solidarieta' con il popolo palestinese ben piu'
forte e cosciente di quello oggi esistente. A questo, per quanto ci riguarda,
abbiamo cercato di contribuire anche con questo opuscolo informativo.
Effettivamente molti soldati, dopo avere ubbidito agli ordini di sparare
o spezzare le braccia ai giovanissimi che lanciavano pietre, dovettero ricorrere
a cure psichiatriche, mentre una minoranza rifiuto' di partecipare alle
azioni nei Territori, pur accettando di prestare servizio all'interno di
Israele, come altri nel 1982 avevano rifiutato di combattere nel Libano,
preferendo il carcere alla partecipazione a una guerra non difensiva.