L'impatto degli attentati negli USA sulla questione palestinese.
Intervista a Leila Shahid, rappresentante della Palestina in Francia. Dal sito belga Solidaires du peuple palestinien. Ottobre 2001.

Quale impatto avrà l'attentato del 11 settembre a New York e Washington sul conflitto israelo-palestinese?

Penso che l' impatto del terribile attentato di New York e Washington sarà, disgraziatamente, grave e pericoloso. Questa tragedia, che influenzerà il mondo intero per lungo tempo, avviene in un momento in cui il governo di Sharon pratica da più di sette mesi una politica di repressione senza precedenti contro la popolazione civile rifiutando a tutt'oggi ogni dialogo politico.
La coalizione di lotta al terrorismo messa in piedi dal governo americano al fine di punire gli autori dell'attentato, autori che essi descrivono come facenti parte della rete di Bin Laden, rischia di diventare la copertura per le azioni di Sharon, che desidera "finire il lavoro" portato avanti in questi sette mesi e cioè: distruggere l'Autorità Palestinese e ciò che resta delle sue infrastrutture e assassinare tutti i suoi maggiori dirigenti. La strategia di Sharon mira a fare fuggire il maggior numero possibile di palestinesi in Giordania: come voi sapete egli ha sempre spinto per la costruzione di uno stato palestinese in Giordania e non in Palestina. Ciò che trattiene Sharon e dunque l'esercito israeliano, è il veto della comunità internazionale, in particolare la Comunità Europea e in una qualche misura gli USA. Ora che tutta l'attenzione é concentrata sulla tragedia che il popolo americano sta vivendo e che tutte le forze della diplomazia europea sono concentrate sulla creazione di una alleanza in vista di una risposta, temo molto che Sharon creda che gli sia tutto permesso. Egli ha già avuto il pessimo gusto di dichiarare a Colin Powell, presentandogli le condoglianze di Israele, che anche Israele, come l'America, ha il suo Bin Laden e cioè Arafat.
Questo dimostra come Sharon non mancherà di approfittare della campagna mondiale contro il terrorismo per confondere le idee e far credere all'opinione pubblica mondiale che esista un falso legame tra la resistenza palestinese e il terrorismo, seguendo in questo modo passo passo Vladimir Putin che ha già fatto questa connessione, tra il terrorismo islamista e per quello ceceno.

Quale è la vostra posizione riguardo il terrorismo?

Io definisco come terrorismo tutte le azioni condotte, da individui, gruppi o Stati, contro civili innocenti.
L'Autorità palestinese ha sempre condannato, senza la minima ambiguità, tutte le azioni terroristiche che hanno avuto come obiettivo civili israeliani o quelle che hanno preso di mira civili palestinesi. E, chiariamo, la stessa cosa vale per i terribili attentati che hanno colpito il popolo americano. La condanna da parte dell'autorità palestinese di tutte le forme di terrorismo non è solo di tipo morale, non è solo il rifiuto categorico di prendere in ostaggio le popolazioni civili di un conflitto: si tratta di una posizione politica.
Dal giorno in cui l'Autorità palestinese (e prima l'Organizzazione per la Liberazione della Palestina - OLP) ha sostenuto la scelta della vicinanza dei due Stati - uno Stato palestinese e uno israeliano - abbiamo iniziato a lavorare con dei partner israeliani che riconoscevano la necessità della creazione di uno Stato palestinese.
A partire da quel momento, tutta l'azione ha visto il coinvolgimento di civili israeliani, all'interno d'Israele stesso, sulla base del principio di coesistenza tra Israeliani e Palestinesi.

Quale strategia, secondo voi, perseguono i movimenti islamisti?

Prima di tutto, penso che sia necessario ricordare che la strategia dei movimenti islamisti nel mondo - non solo verso gli Stati Uniti- rappresenta uno stravolgimento totale dei valori dell'Islam. L'utilizzo di questa religione, il suo stravolgimento per farne un'ideologia politica: questo è totalmente inaccettabile. Come una traduzione tragica delle leggi della fisica, che vogliono che la "natura abbia orrore del vuoto", questi movimenti islamisti fondamentalisti hanno preso il posto occupato in precedenza dai movimenti progressisti, di sinistra, che esistevano nel mondo arabo e musulmano. All'epoca in cui esisteva il nazionalismo arabo (il periodo nasseriano in Egitto fu l'episodio più prestigioso) e in cui erano presenti numerosi movimenti progressisti, l'islamismo politico non esisteva. L'islamismo politico, è necessario che voi lettori lo capiate, è stato incoraggiato e sostenuto dagli Stati Uniti e dalla CIA nel periodo della guerra al regime comunista di Kabul. Gli Americani avevano fatto, al tempo, la scelta di sostenere l'organizzazione islamica dei Moudjahidin (i Combattenti). Bin Laden che li dirigeva, è stato, al tempo, finanziato, formato militarmente e utilizzato dagli Stati Uniti. Una volta terminata quella guerra, i "residui" di quei movimenti islamisti sostenuti e finanziati dagli Americani si sono "riciclati", da una parte, in Algeria, dove quelli che sono detti (non a caso) gli "Afghani" conducono una guerra terribile e orribile contro le forze democratiche e contro il governo algerino e, dall'altra parte, in Bosnia e prima nei Balcani. Quanto a Bin Laden, nato da questa "scuola americana di anti-comunismo" in Afganistan, oggi si ritorce contro gli Stati Uniti. Dalla formazione ricevuta dalla CIA trae la sua diabolica efficacia.

Quali mezzi esistono per lottare contro questa nuova forma di terrorismo?

Che si tratti del Medio-Oriente o di un'altro posto nel mondo, non esiste una soluzione miracolosa.
Una soluzione militare, motivata da sentimenti di vendetta di una popolazione straziata come è quella degli Stati Uniti oggi, non è assolutamente auspicabile. Prima di tutto perché è difficile trovare i movimenti terroristi, per definizione clandestini, che hanno una grande capacità di fondersi con la popolazione di un paese. Dei bombardamenti in Afganistan, non farebbero altro che aumentare le sofferenze di una popolazione già straziata da venti anni di guerra. Non bisogna ripetere gli errori del passato.
Penso al Sudan, tristemente noto, al bombardamento di quella che gli Stati Uniti pensarono, in maniera arbitraria, fosse una fabbrica di armi e che invece si dimostrò essere una fabbrica farmaceutica. Gli Americani finirono poi per riconoscere il fatto di aver agito sulla base di cattive informazioni. Penso che il solo modo per lottare contro il terrorismo è avere una politica a lungo termine, che consista nello sradicare la "giustificazione" principale, che è generalmente basata sulla denuncia politica di conflitti che non possono essere risolti perché il diritto internazionale non è applicato con la stessa determinazione in tutte le parti del mondo; il famoso "due pesi, due misure". La comunità internazionale non deve più generare conflitti sulla base dei propri interessi regionali. Per esempio, il conflitto israelo-palestinese, utilizzato dagli islamisti come terreno per l'odio, non ha mai avuto l'attenzione che meritava da parte della comunità internazionale.
La mancanza di volontà di quest'ultima nel fare applicare le risoluzioni 242 e 338, decise da anni, che esigevano la ritirata dell'armata israeliana dai territori che occupa in Palestina rappresenta uno degli esempi più spiacevoli. Al contrario, abbiamo visto che la comunità internazionale si è mossa quando si è trattato di liberare il Kuwait dall'occupazione irachena, e si è impegnata in una vera e propria guerra mondiale per fare applicare le risoluzioni delle Nazioni Unite. E' una necessità primaria quella di dare risposte politiche, se si vogliono isolare efficacemente gli elementi estremisti che richiamano ad azioni terroristiche. E' noto che i terroristi approfittano del malessere prodotto da situazioni come quelle che perdurano in Medio-Oriente.

Queste nuove forme di terrorismo non annunciano uno "scontro tra civiltà" come sostiene Hillary Clinton?

Io respingo totalmente la visione di Hillary Clinton e di tutti coloro che vedono in questa nuova forma di terrorismo uno scontro di civiltà. Quello che stiamo, ahimè, vivendo oggi, è il risultato di un fallimento politico nel risolvere correttamente i conflitti sul pianeta, ma anche nel ripartire equamente le ricchezze, ciò che porta alla costituzione di un mercato globale che funziona, in ultima analisi, secondo gli interessi degli Stati Uniti ed in funzione delle loro esigenze. Così, le nazioni "periferiche" che spesso, come in Africa, detengono le risorse più importanti del mondo, si ritrovano nella posizione di consumatori dei prodotti trasformati altrove e messi sul mercato dalle economie capitalistiche. Così, il termine di "mondializzazione" manca, come minimo, di precisione, poiché riguarda solo coloro che detengono la proprietà, i mezzi di produzione ed i mercati solvibili. C'è una dimensione economica e sociale molto importante nell'humus umano che sostiene questa forma di terrorismo, in particolare contro l'America, percepita oggi (dopo la scomparsa del blocco sovietico) come la nazione che detiene l'egemonia totale nel mondo, sul piano finanziario, commerciale, politico e militare. Si vede bene che i recenti attentati negli Stati Uniti, hanno un solo scopo, animati, come sono, dall'odio: punire (per di più, ahimè, degli innocenti) fare più male possibile. E' l'espressione di un rifiuto totale, alimentato dalla frustrazione, l'emarginazione delle nazioni dette "povere" attraverso un certo numero di contrade. E non è un caso se queste reti terroristiche trovino i loro militanti ed i loro sostegni in una regione come l'Asia del Sud-Ovest, che è stata vittima di guerre terribili, in Afghanistan, in Pakistan, nel Cashmire o, ancora, in Medio-Oriente... Sarebbe molto grave, oggi, cadere nella trappola dell'amalgama, cioè vedere nelle azioni delle reti islamiche una dimensione culturale che farebbe dell'Islam, in quanto religione, ma anche in quanto cultura, il nemico da abbattere per la cultura giudeo-cristiana. La Storia prova il contrario. Analisi di questo tipo contribuiscono ad alimentare le ideologie dei vari Bin Laden e soci, i quali vedono nel loro terrorismo non si sa quale lotta del mondo musulmano contro il mondo cristiano. Le confusioni, molto pericolose, che esse alimentano - quando non le creano dal nulla, ben lontane dal solo costituire gli annessi e i connessi di una lettura socio-politica totalmente aberrante ­ alienano alla civiltà occidentale un sacco di gente in un mondo musulmano nelle cui ferite non fanno altro che girare il coltello di frustrazioni accumulate, che sono effettivamente reali.

Oggi, il popolo palestinese commemora il diciannovesimo anniversario del massacro dei campi dei rifugiati di Sabra e Chatila, in Libano. Che cosa evoca per lei questo anniversario?

In questo diciannovesimo anniversario, la più grande tragedia, è pensare che l'uomo che è stato denunciato dai suoi propri soldati e da una commissione d'inchiesta israeliana come direttamente responsabile dei massacri di Sabra e Chatila, si ritrovi eletto Primo ministro del governo israeliano. C'è qui qualcosa che dovrebbe intimare il popolo israeliano che, a causa della sua paura dell'"altro", ha finito per votare un criminale di guerra Ariel Sharon, che esso stesso aveva denunciato nel 1982, anno in cui 400.000 israeliani avevano manifestato per reclamare le sue dimissioni. Bisognerebbe che la popolazione israeliana avesse il coraggio di guardare in faccia la sua storia e di non fare l'errore di rigettare troppo facilmente la sua responsabilità sul popolo palestinese. La società israeliana deve ora saper estirpare dal suo seno i propri demoni. Sul piano internazionale, accanto a questa constatazione angosciosa che traiamo dal triste spettacolo che ci dà la società israeliana, ci sono dei segnali molto rassicuranti. In primo luogo, il fatto che oggi certe giurisdizioni permettano l'applicazione delle convenzioni internazionali contro la tortura, i crimini di guerra e i crimini contro l'umanità. Il fatto che Ariel Sharon sia oggi intimato dalla giustizia belga per i crimini che ha commesso nel 1982 a Sabra e Chatila, che Augusto Pinochet sia stato interpellato dalla giustizia spagnola per i suoi crimini commessi in Cile e che Slobodan Milosevic sia imprigionato e giudicato dal Tribunale internazionale dell'Aia, mostra che il rispetto delle convenzioni internazionali diventa uno strumento diplomatico più forte della "ragion di Stato", e ciò è incoraggiante. Qualunque sia il risultato della procedura avviata dalla giustizia belga all'incontro con Ariel Sharon, le vittime palestinesi di Sabra e Chatila hanno già vinto una battaglia, dal momento che dei giudici e dei magistrati hanno accettato di intentare causa a Sharon e che lui stesso ha dovuto rinunciare, qualche mese fa, al suo spostamento in Belgio, per paura di dover rispondere alla convocazione dei magistrati.

D'altra parte, l'affare che ha circondato la nomina in Danimarca di Carmi Gillon, il nuovo ambasciatore di Israele, è a sua volta incoraggiante. Infatti, la nomina di Carmi Gillon, ex-capo della Sicurezza interna israeliana, ha suscitato una protesta generale in Danimarca, dopo che questi avrebbe confessato di essere ricorso a "pressioni fisiche moderate" (detto in altre parole: alla tortura) nei confronti dei prigionieri palestinesi.

Questi casi hanno il merito di aver condotto i servizi israeliani a formulare la raccomandazione che si eviti, in futuro, di assegnare posti ed inviare in certi paesi ex-capi militari o ex-responsabili dei servizi di informazione, suscettibili di essere perseguiti per atti di tortura o per crimini di guerra perpetrati sulla popolazione palestinese. E' un progresso di cui devono essere felici tutti i democratici del mondo. E' anche, per i Palestinesi, un riconoscimento dei torti che essi hanno subito e che non avevano trovato, all'epoca, i Tribunali internazionali capaci di condannarne i colpevoli. Ariel Sharon, da Primo ministro qual è, dovrà rispondere un giorno dei crimini di guerra che egli ha commesso e che continua ancor oggi a commettere (fino a quando, fino a dove?) contro il popolo palestinese.