Ricordando Rachel.
"Chi lo vuole capire lo capirà da solo che non è per fare gli eroi che andiamo giù, che non è perché l'occupazione è eccitante e avventurosa. L'occupazione è orribile, la negazione di ogni diritto umano è orribile, e quando capisci questo è così facile prendere la decisione di partire, per capire, per vedere, e poi per cercare di fare qualcosa, qualsiasi cosa sia in tuo potere." A cura di Roberto De Maria e Christian Elevati. Aprile 2003.


Rafah, Palestina, estremo confine della striscia di Gaza con l'Egitto.

E' il luogo della Palestina dove l'occupazione israeliana ha prodotto il più alto numero di morti tra i civili palestinesi. Dove le tivù non entrano, i giornalisti la ritengono troppo pericolosa. Dove i soldati israeliani si aggirano ma solo avvolti da tank e bulldozer. Oppure se ne stanno appollaiati sul confine, su alte torrette, e da li non esitano a sparare, magari agli operai che tentano di riparare la rete idrica distrutta dai soldati. Qui dove Hamas trova con facilità chi è pronto a farsi saltare come martire.

A Rafah è attivo un gruppo di pacifisti dell'International Solidarity Movement (ISM).

Ne faceva parte da tre mesi anche Rachel Corrie, una studentessa americana di 23 anni.

Uccisa il 16 Marzo 2003, alle cinque del pomeriggio, durante l'ennesima azione di interposizione pacifica, nel tentativo di difendere, usando il proprio corpo di cittadina occidentale, l'abitazione di una famiglia palestinese dai bulldozer israeliani che tentavano di abbatterla.

In questo servizio riportiamo alcune parti, messe a disposizione dalla famiglia di Rachel, di una e-mail che lei stessa ha scritto ai suoi genitori, e il racconto di chi aveva lavorato con lei, a Rafah, fino al giorno prima del suo assassinio da parte dell’esercito israeliano.

Segnaliamo infine un sito interamente dedicato a Rachel: http://www.redaart.com/rachelcorrie.html.
Per inoltrare proteste al Governo israeliano: http://www.palsolidarity.org/rachelcalltoaction.htm.

----------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------

Parole di Rachel ai suoi genitori (7 febbraio 2003)

traduzione M.T — InfoPalestina (http://www.infopalestina.it/varie/Rachel.htm)

"Sono in Palestina da due settimane ed un giorno ed ho ancora poche parole per descrivere ciò che vedo. E' più difficile per me pensare a ciò che sta succedendo qui quando mi siedo a scrivere negli Stati Uniti, qualcosa come il portale virtuale del lusso.

Io non so se molti dei bambini qui abbiano mai vissuto senza i buchi di carri armati alle pareti e senza le torri di un esercito di occupazione che li sorveglia costantemente da un orizzonte vicino.

Io penso, sebbene non sia del tutto sicura, che anche il più piccolo di questi bambini capisce che la vita non sia così ovunque.Un bambino di otto anni è stato ucciso da un carro armato israeliano due giorni prima del mio arrivo e molti bambini mi sussurrano il suo nome, Alì, oppure mi indicano i suoi poster sui muri.

Ai bambini piace farmi usare il poco arabo che conosco chiedendomi "Kaif Sharon?", "Kaif Bush?" e ridono quando io dico "Bush Majnoon" "Sharon Majnoon" rispondendo nel mio arabo limitato (come sta Sharon? Come sta Bush? Bush è pazzo, Sharon è pazzo).

Naturalmente questo non è proprio ciò che credo, e qualche adulto che conosce l'inglese mi corregge: Bush mish Majnoon... Bush è un uomo d'affari.

Oggi ho cercato di imparare a dire "Bush è un oggetto", ma non credo sia stato tradotto giusto.

Ad ogni modo ci sono qui più bambini di otto anni consapevoli della struttura del potere globale, di quanto lo fossi io qualche anno fa, almeno riguardo ad Israele.

Nonostante ciò, penso che nessuna quantità di libri, di partecipazione alle conferenze, di visione di documentari, né di parole mi avrebbero potuto preparare alla realtà della situazione qui.

Non si può immaginare se non si vede, ed anche allora sei ben consapevole che la tua esperienza non è tutta la realtà: cosa dire della difficoltà che l'esercito israeliano dovrebbe affrontare se sparasse ad un cittadino statunitense disarmato, del fatto che io ho il denaro per comprare l'acqua mentre l'esercito distrugge i pozzi, ed, ovviamente, il fatto che io ho la possibilità di partire.

Nessuno della mia famiglia è stato mai colpito, guidando la sua macchina, dal lancio di un razzo da una torre alla fine della strada principale della mia città. Io posso andare a vedere l'oceano.

Apparentemente è piuttosto difficile per me essere trattenuta in prigione per mesi o anni senza processo (questo perché sono una cittadina americana bianca, come opposta a molti altri).

Quando vado a scuola o al lavoro posso essere relativamente certa che non ci sarà un soldato armato pesantemente ad aspettare a mezza strada tra Mud Bay ed il centro di Olimpya ad un posto di blocco un soldato con il potere di decidere se posso andare per la mia strada, e se posso tornare a casa quando ho fatto.

Così, se percepisco violenza arrivando ed entrando brevemente ed in modo incompleto nel mondo in cui esistono questi bambini, per contro mi chiedo cosa succederebbe a loro arrivando nel mio mondo.

Essi sanno che i bambini negli Stati Uniti, di solito non hanno i genitori uccisi e che qualche volta vanno a vedere l'oceano.

Ma quando tu hai visto l'oceano, vissuto in un posto tranquillo dove l'acqua è un bene scontato e non rubata di notte dai bulldozer, e quando hai passato una notte in cui non ti sei meravigliato che le pareti della tua casa non siano crollate svegliandoti dal sonno, e quando hai incontrato gente che non ha perso nessuno, quando hai sperimentato la realtà di un mondo che non è circondato da torri di morte, carri armati, insediamenti armati ed ora da una gigantesca parete metallica, mi chiedo se puoi perdonare il mondo per tutti gli anni della tua infanzia spesa esistendo, solo esistendo, in resistenza al costante strangolamento della quarta più grande potenza mondiale, sostenuta dall'unica superpotenza mondiale, nel suo sforzo di cancellarti dalla tua casa.

Come retropensiero a tutto questo vagabondaggio, mi trovo a Rafah, una città di circa 140.000 persone di cui circa il 60 per cento sono rifugiati, molti dei quali per la seconda o la terza volta. Rafah esisteva prima del 1948, ma molte delle persone qui sono essi stessi discendenti di persone dislocate qui dalle loro case della Palestina storica, ora Israele. Rafah venne divisa in due quando il Sinai tornò all'Egitto.

Al momento l'esercito israeliano sta costruendo un muro alto quattordici metri tra Rafah in Palestina ed il confine, tracciando una terra di nessuno dalle case lungo il confine.

Seicentodue case sono state completamente abbattute dai bulldozer secondo la Commissione Popolare dei Rifugiati di Rafah.

Il numero di abitazioni parzialmente abbattute è maggiore.

Oggi ho camminato sulla collina dei detriti dove una volta sorgevano le case, soldati egiziani mi chiamavano dall'altra parte del confine, "Vai!, vai!" perché stava arrivando un carro armato.

Seguivano agitarsi di mani e "come ti chiami?".

C'è qualcosa che disturba in questa amichevole curiosità.

Mi ricordava di quanto, fino a quale grado, siamo tutti ragazzini curiosi di altri ragazzi: ragazzi egiziani che strillano ad una donna strana che passeggia sul sentiero dei carri armati.

Ragazzi palestinesi sparati dai carri quando si affacciano dal muro per guardare quello che succede.

Ragazzi internazionali in piedi davanti ai carri con striscioni.

Ragazzi israeliani nei carri anonimamente, occasionalmente urlando - ed anche occasionalmente salutando - molti forzati ad essere lì, molti semplicemente aggressivi, che sparano nelle case dei palestinesi mentre noi gironzoliamo.

Oltre alla costante presenza dei carri armati lungo il confine e nella regione occidentale tra Rafah e gli insediamenti lungo la costa, ci sono più torri IDF qui di quante ne possa contare lungo l'orizzonte, alla fine delle strade.

Alcune sono grigioverde militare. Altre come strane scale camuffate alla maniera dei capanni di cacciatore per rendere anonima l'attività all'interno. Alcune nascoste, proprio sotto l'orizzonte degli edifici.

Una nuova è stata costruita l'altro giorno mentre ci lavavamo la biancheria e abbiamo attraversato la strada due volte per innalzare striscioni.

A parte il fatto che alcune tra le zone più vicine al confine sono originali della vecchia Rafah con famiglie che hanno vissuto in questa terra per almeno un secolo, solo il campo del 1948 al centro della città è controllato da Oslo. Ma, per quanto io possa dire, ce ne sono davvero pochi che non siano sotto il controllo visivo di una torre o l'altra.

Certamente non esistono luoghi invulnerabili agli elicotteri apache o alle telecamere di invisibili fannulloni che ronzano sulla città per ore ed ore.

Ho dei problemi all'accesso di notizie dall'estero, ma sento che un crescendo verso il conflitto in Iraq sembra inevitabile.

C'è molta preoccupazione qui per la "rioccupazione di Gaza".

Gaza viene rioccupata ogni giorno in vara misura, ma io penso che la paura sia che i carri occupino tutte le strade e restino lì, invece di entrare solo in alcune strade e quando si ritirano dopo alcune ore o giorni osservano e sparano dalla cima delle comunità.

Se la gente non è già pronta a pensare alle conseguenze di questa guerra per le persone dell'intera regione, allora spero che comincino.

Io spero anche che veniate qui.

Siamo stati in dubbio tra cinque e sei internazionali. I vicini che ci hanno chiesto la nostra presenza sono Yibna, Tel El Sultan, Hi Salam, Brazil, Block J, Zorob e Blocco O.

C'è anche bisogno di costante presenza notturna ad un pozzo nelle adiacenze di Rafah dato che l'esercito israeliano ha distrutto i due pozzi più grandi.

Secondo la municipalità i pozzi distrutti la settimana scorsa fornivano la metà del fabbisogno di Rafah.

Molte comunità hanno chiesto agli internazionali di essere presenti la notte per cercare di salvare le proprie case da ulteriori demolizioni.

Dopo le dieci di sera è molto difficile muoversi perché l'esercito israeliano tratta chiunque nelle strade come resistente e spara.

E’ per questo che siamo così pochi.

Io continuo a credere che casa mia, Olympia, possa guadagnare tanto per poter fare un gemellaggio con Rafah. Alcuni gruppi di insegnanti e di bambini, hanno manifestato il desiderio di corrispondere in e-mail, ma questa è solo la punta dell'iceberg del lavoro di solidarietà che potrebbe essere fatto.

Molta gente vuole che le loro voci siano udite, e penso che abbiamo bisogno di usare i nostri privilegi come internazionali per farle udire direttamente negli Stati Uniti, piuttosto che attraverso altri filtri come me.

Io sto iniziando ad imparare, da ciò che mi aspetto diventi una tutela intensa, sulla capacità della gente di organizzarsi contro tutte le stranezze, e di resistere a tutte le stranezze."

Rachel Corrie, 7 febbraio 2003

------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------

Testimonianza di Giulia Palego, attivista italiana dell’International Solidarity Movement

"Sono tornata dalla Palestina sabato sera, ho dormito un po', poi domenica stavo cercando di fare un po' di ordine nella mia mente, di realizzare che ero di nuovo in Italia, stavo cercando di capire un po' di cose. E poi è arrivato un messaggio da un amico a Rafah, dove sono stata per tre settimane e mezzo, diceva che era successa una cosa orribile, senza specificare.

Ho chiamato, ed ho saputo.

Erano tutti in ospedale, si sentivano voci, urli, confusione. E Rachel è morta, e da qui non mi sembra possibile, l'ho vista solo qualche giorno fa, abbiamo lavorato molto insieme, ma non starò qui a dire che brava attivista, che splendida persona era.

Chi lo vuole capire lo capirà da solo che non è per fare gli eroi che andiamo giù, che non è perché l'occupazione è eccitante e avventurosa. L'occupazione è orribile, la negazione di ogni diritto umano è orribile, e quando capisci questo è così facile prendere la decisione di partire, per capire, per vedere, e poi per cercare di fare qualcosa, qualsiasi cosa sia in tuo potere.

L'azione durante la quale Rachel è stata uccisa è un tipo di azione che a Rafah abbiamo fatto molte volte.

Rafah è al confine con l'Egitto, confine supercontrollato e pericoloso. Per rinforzare questo confine, Israele sta costruendo un muro. A ridosso del confine si snodano diversi quartieri, sobborghi di Rafah, ed è in questi quartieri che fino ad ora, dall'inizio di questa Intifada, più di 600 case sono state demolite dall'esercito israeliano, per lasciare una "terra di nessuno" tra il muro e la prima casa abitata.

Una delle attività principali che l'International Solidarity Movement svolge a Rafah è quella di cercare di proteggere le ultime case rimaste ancora in piedi, e che non sono state ancora abbandonate dagli abitanti (come a volte accade, visto la continua intimidazione messa in atto dall'esercito).

Di notte dormiamo in queste case, con le famiglie.

Nel muro esterno, quello che dà sul confine, ci sono perennemente striscioni che segnalano la nostra presenza. E quando, sia di giorno che di notte, arrivano i bulldozer e i carri armati pronti per la demolizione, usiamo i nostri corpi come scudi umani, come protezione, saliamo sul tetto della casa, o rimaniamo davanti ai bulldozer, come ha fatto Rachel.

I soldati non hanno nessun problema ad ammazzare palestinesi, di qualsiasi età, ma con gli internazionali è diverso, o almeno era diverso fino a ieri.

Israele deve salvare la faccia, deve salvaguardare i rapporti con gli stati amici.

Ma negli ultimi tempi neanche questo principio opera più, e le intimidazioni nei confronti degli internazionali sono aumentate, ed ora questo.

La protezione delle case non è l'unica attività che l'ISM svolge a Rafah.

Il gruppo ha preso contatti con molte associazioni internazionali e palestinesi che lavorano nella zona, abbiamo fatto molti incontri: con associazioni di donne, gruppi giovanili, altri che operano con i bambini; abbiamo aderito ad una manifestazione contro la guerra in Iraq, siamo entrati pian piano nella vita della comunità. C'è il progetto di lavorare con le scuole il prossimo mese, e altre mille cose. Il gruppo è pieno di energia, di speranze, di voglia di fare.

Nelle ultime settimane la nostra attività principale è stata quella di proteggere con la nostra presenza gli operai che stanno riparando tre pompe dell'acqua, distrutte alla fine di gennaio dall'esercito israeliano.

Queste pompe fornivano l'acqua a più del 50 per cento della popolazione locale, il problema dell'acqua è uno dei più seri a Rafah. Il tasso di cloro e nitrato è spesso molto alto, e pericolosissimo per i bambini al di sotto due anni, che posso venire colpiti da una sindrome chiamata "blue baby".

Dalle postazioni militari e dalle torri israeliane che sono dislocate tutto intorno a Rafah hanno sparato spesso nella nostra direzione (quindi in quella dei lavoratori). Prima di partire ho avuto l'enorme piacere di vedere una delle pompe funzionare di nuovo, e così spero che succeda per le altre.

Ci sarebbero mille cose ancora da dire su Rafah, sulla striscia di Gaza, sulla Palestina, sul nostro lavoro lì. Sarà per un'altra volta, sono sempre disponibile a farlo.

Ma prima di concludere voglio parlarvi di una speranza. La speranza che questo orribile avvenimento non fermi gli internazionali che vogliono andare in Palestina. C'è un gran bisogno della nostra presenza, e in questo momento, con questa guerra pronta da mesi, più che mai.

Giulia Palego, 16 marzo 2003