La "Road Map" e il cul de sac di Oslo.
Dagli accordi di Oslo ai pericoli della Road Map. Di Adam Hanieh and Catherine Cook. Da MERIP. Traduzione di Giancarlo Giovine. Da ZNet Italia.Giugno 2003.


 

Adam Hanieh è un ricercatore, operatore per i diritti umani, che abita a Ramallah. Catherine Cook è la coordinatrice del Middle East Research Information project.

La 'road map' per la soluzione del conflitto israelo-palestinese, l'oggetto della recente azione diplomatica del Segretario di stato Colin Powell in Medio Oriente, forse non arriverà mai al termine della sua prima fase. Ad oggi, il primo ministro israeliano Ariel Sharon deve ancora accettare l'iniziativa sviluppata dal quartetto composto da USA, ONU, UE e Russia. Gli incontri dell'11 maggio di Powell con Sharon e col primo ministro palestinese Mahmoud Abbas non è riuscita a produrre sviluppi significativi: i loro esiti sono stati sottolineati dalla smentita pubblica di Sharon del congelamento dell'insediamento di coloni e da consiglieri vicini ad Abbas che hanno riferito che i Palestinesi non intraprenderanno nessuna azione nei confronti dei gruppi armati, fin quando Sharon non accetta formalmente la 'road map'. Nelle capitali arabe Powell ha raggiunto con i governi un accordo al fine di appoggiare la dirigenza palestinese a colpire i gruppi armati, ma ha incontrato diffidenza a proposito della non accettazione da parte israeliana del documento del 'quartetto'.

Mentre la maggior parte dell'informazione è permeata dalla sensazione che è l'unica opzione possibile e, pertanto, costituisce la migliore chance per raggiungere una vaga pace fra israeliani e palestinesi, le cronache 'nella scorsa settimana- hanno prestato maggiore attenzione agli andirivieni dei dirigenti USA e alla posizione di Israele sul congelamento degli insediamenti di coloni, richiesto per la prima fase del documento. Ma la limitata messa a fuoco di questa prima fase della 'road map' si lascia scappare i difetti strutturali che affliggono l'iniziativa, anche se riuscisse a scampare ai tentativi di neutralizzarla fin dall'inizio.

La 'road map' non presenta nessuna novità, ma riconfeziona semplicemente molti difetti che hanno condotto al fallimento del 'processo di pace' di Oslo negli anni '90. Fin dall'accordo di Oslo del 1993 sono state fatte molte critiche a proposito del fatto che il processo di Oslo non era un piano di pace, ma un piano per istituzionalizzare l'occupazione israeliana. Trasferendo limitati poteri all'Autorità Palestinese, da poco costituita, l'esercito israeliano poteva trasferirsi fuori dai centri della popolazione palestinese, diminuendo il livello di rischio per i suoi soldati, mantenendo l'occupazione per mezzo dei checkpoint e delle chiusure periodiche. L'adempimento, programmato fase per fase, di Oslo rinviava alla fine la discussione delle questioni centrali 'confini, insediamenti dei coloni, Gerusalemme, rifugiati-, permettendo ad Israele di pregiudicare l'esito dei negoziati sullo 'status finale' con 'situazioni di fatto' create ex novo.

Elementi dell'accordo di Oslo vengono ripetuti nella 'road map': essa ripropone un approccio programmato per fasi, rinviando nuovamente la discussione sui punti cruciali, non contiene nessun meccanismo dettagliato di applicazione ed è vaga su come saranno risolti i contenziosi. Avendo visto i rischi di questo approccio nei sette anni del processo di Oslo, i Palestinesi rimangono in larga parte scettici sulla 'road map'. Abbas, che ha accettato il documento, raccoglie 'secondo un recente sondaggio- solo il 3% del sostegno popolare, in parte perché i Palestinesi sospettano che obbedirà agli ordini dei USA e di Israele, in qualsiasi prossimo eventuale negoziato. Molti Palestinesi vedono la 'road map', come Oslo, come la condizione per il compimento dei disegni politici di Israele sulla West Bank e sulla striscia di Gaza: un processo che è cominciato subito dopo il 1967 e che continua ancora oggi.

LE FONDAMENTA DEL CONTROLLO ISRAELIANO.

Dopo l'occupazione della West Bank, di Gerusalemme Est e della Striscia di Gaza nel 1967, ad Israele si è posto un dilemma: come poteva assicurarsi il controllo sul territorio e sulle risorse di quelle aree, evitando la responsabilità diretta per i milioni di Palestinesi che vi vivevano? La risposta era uniforme per tutto l'arco delle forze politiche israeliane: i Palestinesi avrebbero avuto una qualche voce per i loro affari, mentre il controllo finale della terra, delle risorse e dell'economia rimaneva nelle mani di Israele.

Il piano Allon, proposto dal gen. Yigal Allon, vice primo ministro per il Partito Laburista dopo la guerra del 1967, fu il primo di una serie di piani finalizzati alla realizzazione di questa prospettiva. Il piano Allon prevedeva l'annessione di circa un terzo della West Bank lungo il fiume Giordano e il Mar Morto. Gli insediamenti di coloni israeliani si sarebbero dovuti costruire lungo un asse nord-sud a partire dalla base della valle del Giordano sulla parte orientale della West Bank. Una seconda linea di insediamenti si sarebbe dovuta formare sulle colline sovrastanti la valle con una strada che unisse i due blocchi di insediamenti. Fu allora che si programmò un anello di insediamenti attorno alla città di Gerusalemme. In questa maniera 110.000 Palestinesi, che vivevano nella parte orientale di Gerusalemme, sarebbero stati circondati e sarebbe stato impedito loro di espandersi nell'hinterland della West Bank. La versione finale del piano, nel luglio 1967, raccomandava l'istituzione di una qualche forma di 'entità' araba o palestinese in circa il 50% della West Bank, mentre Israele si annetteva la parte orientale di Gerusalemme, la valle del Giordano, le colline di Hebron, a sud della West Bank e la parte meridionale della striscia di Gaza.

Quando, nel 1977, il partito Likud giunse al potere, il piano Allon fu integrato con tre precisazioni concernenti il concetto base di controllo del territorio, senza alcuna assunzione concreta di responsabilità nei confronti della popolazione. Il piano Sharon, elaborato nel documento strategico del 1977 intitolato 'Una Visione di Israele alla fine del secolo', prevedeva una nuova cintura di insediamenti di coloni israeliani sulla riva occidentale della West Bank, da Jenin a nord fino a Betlemme a sud, che di fatto cancellava il confine ufficioso della Linea Verde, che separava Israele dalla West Bank. Concepito dall'attuale primo ministro Ariel Sharon, allora ministro dell'agricoltura e degli insediamenti dei coloni, il piano prevedeva questa ulteriore confisca del territori della West Bank, quasi a formare una barriera fra Israele e la popolazione palestinese. Il piano di Sharon prevedeva la costruzione di autostrade più grandi che attraversassero la West Bank da est ad ovest, che avrebbero collegato i nuovi insediamenti con quelli della valle del Giordano.

La logica del piano Sharon fu ulteriormente estesa con uno schema, comprensivo dell'insediamento dei coloni, proposto dall'Organizzazione Sionista Mondiale (OSM) nel 1978. Questo piano quinquennale prevedeva la costruzione di insediamenti di coloni tutt'intorno e in mezzo alle maggiori aree palestinesi della West Bank. Il risultato finale di questo programma, seguito con molta attenzione dai governi del Likud e laburisti negli ultimi due decenni, è la divisione della West Bank in tre aree separate: le città settentrionali di Jenin, Tulkarm, Qalqilya e Nablus, l'area centrale di Ramallah e le aree esterne a Gerusalemme, e la regione meridionale attorno a Betlemme ed a Hebron. Inoltre, la strategia della OSM prevedeva la costruzione di insediamenti israeliani fra le città palestinesi all'interno di ciascuna area. Secondo il piano, con questi insediamenti aggiuntivi, 'la popolazione di minoranza (i Palestinesi) avrebbero trovato difficile formare una continuità politica e territoriale'.

Un terzo piano, adottato nel 1977 dalla Knesset, si riferiva maggiormente alla natura dell''entità', che si sarebbe istituita nelle aree palestinesi. Il piano Begin, così chiamato dal nome dell'allora primo ministro Menachem Begin, prevedeva l''autonomia' per la popolazione palestinese dei territori occupati, espressa in un consigli amministrativo eletto dai Palestinesi con sede a Ramallah o Betlemme. Secondo la previsione di Begin, questo consiglio amministrativo avrebbe avuto la responsabilità per gli affari interni palestinesi, mentre Israele avrebbe mantenuto il controllo della politica estera, dei confini e dell'economia.

Il progetto politico di Begin si tradusse in realtà politica con l'istituzione delle Leghe di Villaggio, iniziata a Hebron nel 1978 e poi estesasi alle altre città della West Bank nei primi anni '80. Queste Leghe venivano istituite con il sostegno del governo israeliano per tirar su una leadership palestinese locale 'moderata', che avrebbe fatto da intermediaria nelle relazioni fra Israele e i residenti palestinesi. Attraverso una serie di ordinanze militari emesse nei primi anni '80, le Leghe erano autorizzate da Israele ad arrestare e incarcerare gli attivisti politici e a istituire milizie armate, oltre ad eseguire funzioni più innocue, quali rilasciare patenti di guida e altri permessi. Il piano Begin era il completamento degli accordi di Camp David fra Israele ed Egitto, che prevedevano un''autorità autonoma' nella West Bank e nella striscia di Gaza.

Fino ai primi anni '90, questi piani furono immediatamente respinti dal movimento nazionale palestinese, che li riteneva una ricetta per la costituzione di bantustans, stile apartheid, in cui la foglia di fico dell'autonomia avrebbe nascosto la realtà dell'occupazione. L'Intifada del 1987-1993 accompagnò un'estesa rivolta popolare contro la presenza militare di Israele nelle città e nei villaggi palestinesi. Molti sindaci e rappresentanti delle Leghe di Villaggio furono bersaglio di attentati da parte di attivisti palestinesi e fu intrapresa anche una campagna per il boicottaggio dell''amministrazione civile' israeliana.

INIZIA OSLO.

Tutto questo è cambiato con l'accordo di Oslo del 1993. Ancora una volta l'accordo ha costruito lo spettro di un''autorità di autonoma' palestinese, sebbene questa volta sotto la leadership del movimento nazionale palestinese, che è ritornato dall'esilio e ha proclamato che uno stato palestinese sarebbe stato presto costituito nella West Bank e nella striscia di Gaza. Nonostante la speranza dei Palestinesi e la generale fiducia della comunità internazionale, che il processo di Oslo conducesse a portare a compimento questa prospettiva, Israele non aveva affatto tale impressione. Due anni dopo la firma dell'accordo di Oslo del 1993, l'allora primo ministro e capo del partito laburista Yitzhak Rabin descrisse la sua prospettiva al programma giornalistico 'Evans and Novak' della CNN in questi termini:

'Il miei obiettivi sono la coesistenza pacifica dentro Israele, in quanto stato ebraico, non su tutta la terra di Israele, o sulla sua maggior parte; la sua capitale, la Gerusalemme riunificata; la ricostituzione del suo confine di sicurezza con la Giordania; dopo di essa un'entità palestinese, non uno stato, che governi i palestinesi. [L'entità palestinese] non è governata da Israele. È governata dai Palestinesi. Questo è il mio obiettivo, non il ritorno alle linee di confine precedenti alla guerra dei 6 giorni, ma la creazione di due entità, una separazione fra Israele e i Palestinesi, che risiedono nella West Bank e nella striscia di Gaza. E saranno distinti'un'entità, che governa se stessa'.

Mentre gli insediamenti erano definiti una questione 'definitivamente chiusa' in conformità agli accordi di Oslo, il governo laburista lanciò la massiccia espansione degli insediamenti di coloni, che era stata pianificata dal governo Sharon nel 1991. Attraverso una politica di attrazione di coloni attraverso l'offerta di grossi incentivi economici, il numero di coloni israeliani che vivono nella West Bank e nella striscia di Gaza, dal 1994 all'inizio del 2000, è raddoppiato. Chiaramente disposti in maniera strategica, estesi blocchi di insediamenti di coloni si protendono fuori nella West Bank, per impedire il movimento fra i centri della popolazione palestinese e la loro crescita naturale.

Gli insediamenti di coloni israeliani sono stati collegati fra loro dalle cosiddette strade bypass, un'innovazione dell'era di Oslo. Frutto dell'immaginazione di Rabin, queste autostrade ad accesso limitato hanno collegato i diversi blocchi di insediamenti fra loro e con le città israeliane e hanno ampliato la serie di strade originariamente proposte dai piani di Allon e di Sharon. Il secondo accordo di Oslo del 1995 ha messo fuori legge le costruzioni palestinesi entro i 50 metri a lato delle strade bypass, esponendo alla distruzione centinaia di case di Palestinesi. Nel 1997, dopo il ritorno al potere del Likud, il primo ministro Benjamin Netanyahu ha realizzato il suo progetto, denominato in maniera appropriata piano 'Allon-Plus'. In quel tempo Sharon commentò: 'I dettagli possono variare ma, in linea di principio, l'essenza [della mappa di Netanyahu] è proprio la stessa' del piano Sharon del 1967.

Dall'inizio del 2000 sono state costruite, su terreni confiscati, quasi 250 miglia di strade bypass. Queste autostrade hanno aggravato l'isolamento delle città della West Bank, circondate da blocchi di insediamenti israeliani. La mancanza di un effettivo meccanismo di monitoraggio e di applicazione di Oslo, insieme all'assenza di un'efficace pressione su Israele per porre termine alla costruzione di insediamenti di coloni, non ha lasciato ai Palestinesi alcuna possibilità per prendere di mira i cambiamenti fisici allo status quo apportati da Israele.

Nello stesso tempo, Israele ha introdotto quello che è stato definito 'controllo a distanza' sui Palestinesi nella West Bank e nella striscia di Gaza. Sebbene le aree sotto l'egida dell'Autorità Palestinese sembrassero avere un certo grado di indipendenza, ogni Palestinese è stato obbligato a percorrere un sistema di checkpoints israeliani, di barriere e permessi per uscire e per muoversi fra queste aree. La seconda Intifada del settembre del 2000, generata dalla rabbia e dalla frustrazione dei Palestinesi nei confronti di questa situazione, era il rifiuto del processo di Oslo e del progressivo completamento da parte di Israele dei piani inaugurati dal piano Allon del 10967.

LA STRADA VERSO I CANTONI.

Israele ha risposto all'Intifada con una strategia di punizione collettiva mirata al ritorno alla logica di Oslo, per mezzo della quale una debole direzione palestinese sarebbe acquiescente alle richieste israeliane e una popolazione trattata con brutalità sarebbe costretta ad accettare uno 'stato sovrano' composto da una serie di 'bantustan'.

Sharon e Abbas si sono incontrati secondo programma la terza settimana di maggio 2003, sullo sfondo straordinariamente familiare di bastoni e carote israeliane per i Palestinesi. Mentre continua ad assassinare attivisti palestinesi e a tenere le maggiori città sotto il coprifuoco e il blocco, Israele ha anche promesso varie 'concessioni' e misure di 'buona volontà'. Proprio come durante il processo di Oslo i prigionieri palestinesi sono stati usati come merce di scambio: Israele ha rilasciato circa 200 prigionieri palestinesi. Inoltre, a circa 25.000 Palestinesi sarà permesso di cercare lavoro in Israele. L'efficacia di queste misure deriva dal sistema di controllo e di dipendenza instaurato da Israele sulla popolazione palestinese. Indebolendo e rafforzando di volta in volta la pressione sulla popolazione palestinese, Israele spera di attirare la popolazione lungo la strada che conduce ai cantoni.

La 'road map', che si prevede vada avanti attraverso tre fasi verso un accordo permanente sullo status da raggiungere nel 2005, si trova all'interno di questo contesto. Ogni fase assegna la priorità alla responsabilità palestinese di assicurare la sicurezza di Israele, caratteristica chiave del primitivo piano Begin. Nella prima fase i Palestinesi ricostruiranno un apparato di sicurezza che prenderà di mira la resistenza palestinese. Questo apparato sarà supervisionato dalla CIA, con addestramento cui provvederanno le forze di sicurezza giordane ed egiziane. La 'road map' richiede ad Israele di tornare alle posizioni, che occupava all'inizio dell'Intifada, al fine di 'restaurare lo status quo che esisteva prima del 28 settembre 2000'. Contrariamente a quanto comunemente si crede, la 'road map' non richiede lo smantellamento di tutti gli insediamenti israeliani. Più propriamente richiede un congelamento degli insediamenti (compresa la loro crescita naturale) e lo smantellamento degli avamposti di insediamento costruiti dopo il marzo 2001 (la quale ultima cosa non avrà alcun impatto di qualsiasi tipo sui più grandi blocchi di insediamento).

Le dichiarazioni pubbliche di Sharon durante e dopo la visita di Powell gettano il dubbio sulla volontà di Israele di aderire al congelamento degli insediamenti. Citando fonti dell'ufficio del primo ministro, Ha'aretz ha riferito che Sharon avrebbe detto a Powell: 'Cosa volete, che una donna gravida abbia un aborto solo perché è una colona?' In un'intervista di questa settimana sul Jerusalem Post, Sharon ha rafforzato il suo impegno a mantenere gli insediamenti nella West Bank, affermando che i coloni ebrei continueranno a vivervi sotto la sovranità israeliana.

La trappola più grossa della 'road map' è la sua indeterminatezza. Questa è particolarmente problematica nella fase 1, perché rimangono differenze d'opinione, fra gli stessi membri del quartetto, riguardo ai termini temporali del congelamento degli insediamenti e a proposito della questione se gli obblighi sottolineati nel documento debbano essere portati avanti contemporaneamente o l'uno dopo l'altro.

La fase successiva, programmata per la seconda metà del 2003, è definita in una frase veramente tortuosa come 'incentrata sull'opzione di creare uno stato palestinese indipendente con confini e attributi di sovranità provvisori'. La 'road map' non contiene alcuna spiegazione di cosa s'intenda per 'attributi di sovranità'. Ma si rimanda all'opinione consolidata di Sharon, ripresa in un discorso del dicembre 2003 a Herzliya, secondo cui Israele dovrebbe controllare la sicurezza esterna, i confini, lo spazio aereo le risorse idriche del sottosuolo di un qualsiasi 'stato' palestinese, e avere il veto sui trattati palestinesi con altri paesi.

La fase 3 inizia nel 2004 e termina 'nel 2005 con un accordo permanente di status', che comprenderà l'aaccordo finale sui problemi chiave dei confini, di Gerusalemme, dei rifugiati e degli insediamenti. Come per Oslo, l'assenza di un effettivo meccanismo di monitoraggio, sostenuto dalla pressione internazionale per garantire che Israele cessi immediatamente ogni attività di insediamento di coloni, potrebbe offrire ad Israele l'opportunità di creare 'situazioni di fatto'. In realtà, come gli ultimi dieci anni hanno dimostrato in maniera fin troppo chiara, queste 'situazioni' sono già state ampiamente create e la loro esistenza getta un serio dubbio sul fatto che la soluzione dei due stati rimanga un'opzione percorribile.

Occorre anche esercitare pressione per por fine e mandare all'aria l'ultimo pezzo del puzzle israeliano: un muro concreto di 'separazione' da costruirsi su territorio palestinese confiscato, che circonderà completamente i cantoni palestinesi nella West Bank. È significativo che la 'road map' non menzioni affatto il muro o il fatto ch'esso sia stato pianificato, per annettere più di 300.000 coloni israeliani da Israele, secondo le proiezioni delle organizzazioni palestinesi per i diritti umani.

Un gruppo di Ong palestinesi ed israeliane hanno preparato una mappa eccezionale, che mostra il percorso definitivo del muro, basata sugli ordini di confisca di terra dati ai Palestinesi e su mappe ufficiali del governo israeliano. Questa mappa, pubblicata sul sito web del gruppo israeliano contro l'occupazione, Gish Shalom, illustra la completa corrispondenza 'quasi al miglio quadrato- fra la visione finale israeliana della West Bank e le primissime mappe disegnate da Allon e da Sharon.

'E' OCCUPAZIONE O NO?'

Se Israele riuscirà a realizzare la visione della West Bank e della Striscia di Gaza, disegnata 35 anni fa, è ancora una questione aperta. Mentre Abbas è stato largamente elogiato sulla stampa israeliana e internazionale per il suo atteggiamento 'moderato' e chiamato a por fine alla lotta armata, l'opposizione alla 'road map' è quasi generalizzata in tutto l'arco politico palestinese. Anche ampi settori del partito al governo, al Fatah, hanno espresso la loro opposizione al piano, e il giorno dell'incontro di Powell con Abbas a Ramallh c'è stato uno sciopero generale, che ha provocato lo spostamento della sede dell'incontro da Ramallah all'isolata città di Jerico nella Valle del Giordano.

L'intensa pressione internazionale esercitata sul presidente palestinese Yasser Arafat, perché nominasse Abbas, un uomo senza nessun potenziale sostegno popolare, e approvasse il suo gabinetto, è stata considerata da molti Palestinesi la prova della volontà della comunità internazionale di assicurarsi una leadership palestinese compiacente che non si batterà contro i provvedimenti discutibili della 'road map'. Elementi di al Fatah oppositori di Abbas, lo hanno pubblicamente paragonato all'afgano Hamid Karzai: un modo per indicare la sua presumibile volontà di governare per conto di una potenza straniera.

Se la 'road map' procede secondo le intenzioni israeliane e USA, si prevede che le rinnovate forze di sicurezza palestinesi daranno presto inizio a una campagna di arresti nei confronti degli attivisti che intendono continuare operazioni armate. Nella grossa città di Nablus nella parte settentrionale della West Bank, in reazione alle posizioni assunte nei confronti dei ministri e delle forze di sicurezza palestinesi, agli attivisti di al Fatah è stato ordinato dalla leadership palestinese di lasciare le armi. Mentre alcuni hanno accettato questa decisione, una parte consistente di al Fatah si è rifiutata e ha portato nuovi attacchi armati contro i soldati e i coloni israeliani. Le altre fazioni principali, Hamas, la Jihad islamica e il Fronte Popolare per la liberazione della Palestina (FPLP) hanno tutte condannato la 'road map' e hanno solennemente dichiarato di continuare la resistenza all'occupazione.

Altri leader politici palestinesi hanno espresso la loro opposizione alla 'road map'. Mustafà Barghouti, un ex laeder del Partito del Popolo Palestinese (prima Partito Comunista Palestinese), in un'intervista del 6 maggio alla TV di Ramallah, ha definito la 'road map' 'una ricetta per la divisione in cantoni, mentre garantisce la sicurezza di Israele'. Barghouti oggi dirige una nuova forza politica denominata al-Mubadara (L'iniziativa), che fa appello a un nuovo movimento palestinese, che raggruppi insieme in un fronte unico contro l'occupazione gruppi nazionalisti e gruppi islamici.

Riza Tarazi, Presidente dell'Unione Generale delle Donne Palestinesi, si è anch'essa opposta in un'intervista del 6 maggio alla 'road map', dichiarando che 'l'occupazione non è una cosa su cui negoziare'. I commenti della Tarazi mettono in rilevo una delle debolezze fondamentali del processo di Oslo e della 'road map'. Accettando di fatto che gli insediamenti ed altre terre palestinesi sequestrate siano oggetto di negoziato, la 'road map' mette in secondo piano l'illegalità dell'occupazione, trasformando in oggetto di 'disputa' quelli che sono obblighi di Israele.

Il maggior ostacolo ai vari piani israeliani sulla West Bank e sulla striscia di Gaza è sempre stata la resistenza della popolazione palestinese. Di conseguenza è opinione comune fra i Palestinesi oggi che Israele può riuscire a reprimere l'attuale campagna di resistenza nel breve periodo, solo per piantare il seme per una terza Intifada nel 2005.