Un posto per i nostri sogni?
Mentre
la discussione sulla Roadmap continua, e il popolo Palestinese è soggetto
a nuove forme di orrore mai viste prima, possiamo trovare utile mettere da
parte i dettagli di tale orrore per un momento, e tracciare un profilo generale
della situazione. Di Mustafa Barghouti. Traduzione di Bruno Moscetti. 13 luglio
2003. Da AMIN.
Prima parte.
Mentre
la discussione sulla Roadmap continua, e il popolo Palestinese è soggetto
a nuove forme di orrore mai viste prima, possiamo trovare utile mettere da
parte i dettagli di tale orrore per un momento, e tracciare un profilo generale
della situazione.
Il processo di pace di Oslo ha prodotto una tregua che è durata per
sette anni. Ma è stata, con poche eccezioni, una tregua unilaterale
- che i Palestinesi hanno in genere osservato mentre gli Israeliani continuavano
i loro attacchi contro i nostri interessi e le nostre terre, distruggendo
così ogni prospettiva di pace. Questo assalto è stato effettuato
a tre livelli:
Primo, dall’assassinio di Rabin, Israele è stato governato dalla
destra. A dire il vero c’è stato Barak nell’intervallo
fra Netanyahu e Sharon; ma, una volta al potere, Barak ha seguito politiche
che erano totalmente in linea con gli interessi della destra. In particolare,
ha minato la legittimità della Autorità Palestinese (PA) diffondendo
il mito che fu la PA a respingere la “generosa” offerta politica
che gli fu fatta, perché era determinata a distruggere Israele. Questo
mito ha nutrito il momentum della destra Sionista mentre cercava di bloccare
la creazione di uno stato palestinese indipendente.
Secondo, sotto Oslo, la costruzione di insediamenti continuò indisturbata.
Dalla firma degli accordi, oltre 100 nuovi insediamenti sono stati creati,
e il numero di coloni Israeliani nei territori occupati è raddoppiato.
Questa non è stata un'espansione "spontanea". E’ stata
il risultato di un tentativo deliberato e programmato di cambiare lo status
quo a un punto tale mai raggiunto durante i precedenti 27 anni di occupazione.
In effetti, l’unico periodo durante il quale il ritmo della costruzione
degli insediamenti è significativamente rallentato fu quello che ha
preceduto la firma degli accordi di Oslo nel 1993, a seguito dell’Intifada
del 1987. Il periodo di espansione post-93 fu un processo elaborato. Non solo
gli insediamenti stessi erano spesso di larga scala, ma ebbero bisogno di
un intricato network di strade per essere collegati agli altri e ad Israele.
La mira non era di creare spazio per una popolazione Israeliana in incremento,
ma di cambiare la geografia politica ed economica dei territori occupati.
Attraverso le attività dei suoi insediamenti, Israele ha cercato di
trasformare la Cisgiordania in un territorio etnicamente israeliano, nel quale
paesi e villaggi palestinesi sono niente di più di avamposti isolati.
Fra il 1967 e il 1993, Israele ha cercato di alterare dei fatti particolari
sul terreno, principalmente in Gerusalemme. Durante la tregua di Oslo essi
cercarono di trasformare interamente il carattere geografico dei territori
per rivendicarli per loro stessi. Questo non è una novità, visto
che Israele lo ha già fatto in Galilea, nel Negev ed a Jaffa, dove
sono riusciti a cambiare la demografia. I territori occupati, comunque, presentano
ad Israele un problema molto più complesso, dato che i Palestinesi
lì sono sempre rimasti sulla loro terra. Sin dal 1967, le richieste
palestinesi sono progressivamente diminuite, mentre quelle israeliane sono
aumentate continuamente. I palestinesi erano preparati ad accettare un semplice
22% della Palestina storica, invece del 45% a loro garantito sotto le risoluzioni
di spartizione delle NU. A seguito degli accordi di Oslo, l’illusione
che potesse esserci una soluzione su due stati basata sui confini del 1967
svanì velocemente. I negoziati seguenti furono essenzialmente centrati
sul come la Cisgiordania dovesse essere divisa fra le due parti. In questo
senso, le proposte di Barak non erano sostanzialmente differenti da quelle
fatte di recente da Sharon.
C’è anche un terzo fattore. La sistematica distruzione della
PA ha fatalmente minato la propria capacità di migliorare le sue proprie
strutture e muovere verso la creazione di uno stato indipendente. Israele
ha sfruttato la frammentazione del mondo Arabo e la complicata situazione
internazionale per riformulare il suo conflitto, non solo con i Palestinesi,
ma in tutta la regione. A questo fine, Israele è rimasto fermamente
ancorato a tre regole di base (magistralmente descritte e documentate da Raja
Shehadah):
1) A nessuna entità palestinese dovrebbe essere permesso di controllare
i propri confini con qualsiasi altro stato. Qualsiasi futura entità
palestinese deve essere, in effetti, “senza confini”, circondata
per sempre dalla popolazione e l’esercito israeliani.
2) Qualsiasi potere di autogoverno possa avere l’entità palestinese
dovrebbe essere funzionale e non sovrana.
3) A nessuno degli accordi conclusi con Arabi o Palestinesi (e qui, Oslo è
in discussione) dovrebbe essere permesso di ostacolare la capacità
di Israele di cambiare lo status quo e creare nuove situazioni nei territori
occupati.
Per ottenere questi obiettivi, Israele ha preso vantaggio della mancanza di
un approccio strategico coesivo da parte dei negoziatori arabi e palestinesi.
Israele ha sempre favorito soluzioni parziali e di transizione, mentre sviluppava
una ragnatela di leggi e decreti militari che lo hanno abilitato a costruire
strade, creare insediamenti ed applicare punizioni collettive sui palestinesi.
Dopo lo scoppio della seconda Intifada, Israele ha anche iniziato ad utilizzare
i media mondiali in maniera più efficace per cambiare le percezioni
internazionali delle realtà storiche e attuali del suo conflitto con
i palestinesi. Il suo scopo principale non era solo di negare i diritti dei
rifugiati, ma anche di distorcere l’interpretazione di questi diritti,
cosicché chiunque domandi questi diritti verrebbe accusato di voler
distruggere Israele. Nel corso di questa campagna, i territori occupati sono
stati rappresentati come “territori disputati”, l’Intifada
fu reinventata come un conflitto militare fra due forze uguali, e la parola
“occupazione” è stata cancellata dal vocabolario. Sharon
sembra vedere se stesso come l’uomo che è destinato a finire
il lavoro che Ben Gurion iniziò nel 1948. Se questo fosse il caso,
perché qualcuno dovrebbe preoccuparsi della roadmap? Perché
lo stesso Sharon apparentemente ha accettato l’idea di uno stato palestinese?
E perché Israele non si annette tutti i territori occupati, come ha
fatto con Gerusalemme e il Golan?
Il
problema demografico: la prima ragione per l’esitazione israeliana ad
annettersi i territori è quantitativa. A dispetto di tutti i suoi sforzi,
Israele non ha ancora trovato una soluzione ai problemi demografici posti
dai palestinesi. Avendo appreso la dura lezione del 1948, quei palestinesi
che stanno ancora vivendo sulla loro terra hanno rifiutato di andarsene. Il
mero fatto della loro presenza in queste aree è il successo principale
della lotta palestinese. E questa presenza non è solo un successo numerico,
come lo era prima del 1967. Oggi la presenza palestinese è dinamica,
consapevole e dedita alla resistenza. La sua esistenza continuativa è
costosa per Israele; in effetti, per molti versi, Israele è semplicemente
incapace di reggere i costi dell’occupazione.
L’opinione pubblica israeliana è eccessivamente sensitiva ai
costi dell’occupazione in termini di vite umane. Inoltre, la società
israeliana e la sua economia semplicemente non possono sostenere un confronto
aperto per un lungo tempo. Questa è la ragione per cui Israele ha cercato
così a lungo di fermare sia la prima che la seconda Intifada. Il collasso
dell’economia israeliana sotto le pressioni generate dall’Intifada
è sotto gli occhi di tutti. Oggi, Israele sta soffrendo la peggior
recessione nella sua storia, accompagnata dai più alti livelli di disoccupazione
e di fuga di capitali che il paese abbia mai conosciuto. Le perdite israeliane
dall’inizio dell’Intifada sono state stimate in 23 miliardi di
dollari. Il reddito pro-capite è sceso del 12 per cento. Israele è
anche molto sensibile all’opinione pubblica mondiale. Gli israeliani
sono coscienti che, anche se sono riusciti ad ottenere l’appoggio americano,
stanno soffrendo una drammatica perdita di credibilità in tutto il
resto del mondo.
L’appoggio del pubblico in Europa è collassato. La normalizzazione
araba con Israele si è fermata. Stanno nascendo movimenti di solidarietà
internazionale, alcuni dei quali forniscono ai palestinesi protezione popolare
diretta. A dispetto delle proteste israeliane, il movimento di solidarietà
ai palestinesi si è unito alla campagna mondiale anti-globalizzazione,
e i due si stanno rinforzando a vicenda. Israele sta perdendo il supporto
del parlamento europeo, e anche quello britannico si sta allontanando da loro.
Oggi, la liberazione della Palestina è diventata il principale movimento
di liberazione del mondo. Anche la deplorevole attitudine verso l’argomento
palestinese che tuttora prevale nei Stati Uniti, grazie all’egemonia
della lobby pro-israeliana, è reversibile. Se i palestinesi che vivono
negli Stati Uniti potessero riuscire, anche per un breve momento, a trascendere
le loro divisioni, superare le loro paure, e unirsi in una lobby le cose potrebbero
cambiare. E’ degno di nota che, a dispetto dell’attuale sbilanciamento
di potere, anche il presidente Bush non è stato capace di ignorare
le due condizioni di base per qualsiasi accordo fattibile: la nascita di uno
stato palestinese indipendente e democratico e la fine dell’occupazione
del 1967. E nemmeno sarà capace di ignorare tali condizioni nel futuro,
a meno che alcuni partiti palestinesi o arabi gli forniscano una scusa per
fare così.
Israele sta anche fronteggiando ostacoli più immediati e concreti all’annessione
pura e semplice. Senza mezzi termini, non c’è maniera militare
di completare l’Intifada e la lotta palestinese. Israele ha tentato
la soluzione militare più di una volta, e questi tentativi sono sempre
falliti. Non solo, ma è impossibile far abbandonare le proprie case
agli abitanti dei territori occupati – l’infame “trasferimento”
sul quale Sharon ha a lungo vagheggiato. L’ultima chance di Israele
per portare a termine tale “trasferimento” venne durante la recente
guerra in Iraq, ma anche allora non potè essere effettuato. Ci sono
limiti a ciò che la forza può ottenere, anche quando quella
forza è travolgente. Così, se non può risolvere i suoi
problemi annettendo i territori, cosa vuole il governo di Israele? Vuole una
nuova Oslo, un’altra tregua che gli darà il tempo di intagliare
ciò che rimane dei territori occupati e rompere la volontà del
movimento nazionale palestinese. Il governo israeliano vuole un nuovo periodo
di cessate il fuoco purchè esso valga solo per i palestinesi. Vogliono
una sembianza di pace, non quella vera.
Vogliono che i palestinesi accettino lo status quo nella speranza e che, indeboliti
dalle divisioni e esauriti dalle difficoltà economiche e giornaliere,
essi si arrendano.
Questo è il contesto nel quale è maturata l’idea di uno
stato provvisorio. E Israele obietta sulla roadmap perché, sebbene
proponga uno stato provvisorio, viene posto un congelamento sugli insediamenti
durante la sua prima fase. Come palestinesi, abbiamo bisogno di apprendere
dai nostri errori. Gli accordi di Oslo, appoggiati dagli Stati Uniti e dalle
garanzie internazionali, prevedevano un rischiaramento dell’esercito
israeliano e la sua evacuazione per il 1999 da tutte le aree della Cisgiordania
e da Gaza, con l’eccezione delle aree di confine, gli insediamenti,
e Gerusalemme. Questo voleva dire ritirarsi dal 90 % della Cisgiordania e
Gaza in cambio di un rinvio sulle questioni dei rifugiati, di Gerusalemme
e dei confini.
Tali questioni sarebbero poi state risolte attraverso negoziati da completare
nel corso dello stesso anno. Non è passato niente di tutto questo.
A settembre 2000, Israele aveva abbandonato solo il 18% della terra e non
aveva nemmeno discusso e men che mai risolto, le questioni di Gerusalemme,
dei rifugiati e degli insediamenti. La sola cosa che stava facendo progressi
durante tale periodo erano gli insediamenti e il loro network stradale, la
cui presenza, insieme all’esercito e ai blocchi stradali, cresceva.
Allora, perché Israele continua a proporre uno stato ad interim se
non c’è intenzione di allestirne mai uno definitivo? E’
possibile distinguere un certo numero di ragioni dietro questo modo di agire
solo in apparenza inconsistente.
Tanto per iniziare, uno stato in interim permetterà ad Israele di posporre
indefinitamente tutte le discussioni di certe questioni essenziali quali i
confini, i rifugiati, gli insediamenti e Gerusalemme. La loro speranza, naturalmente,
è che nel tempo tali questioni diventino impossibili da risolvere così
che la ricerca di una soluzione diventi impossibile da risolvere e la ricerca
di una soluzione possa essere semplicemente abbandonata. Uno stato ad interim
è anche utile per i loro tentativi di riformulare il conflitto israelo-palestinese
in modo di ignorare i diritti di base dei palestinesi. L’obiettivo qui
è trovare una soluzione che solleverà Israele dal peso demografico
dell’annessione, mentre gli permetterà di andare avanti ed annettersi
gran parte della terra. Ecco perché da parte loro si propone uno stato
sul 42% dei territori occupati: perché uno stato palestinese “indipendente”
verrebbe ridotto ad una collezione di enclavi geograficamente scollegati,
uno stato senza sovranità e/o confini. I palestinesi potranno tirare
avanti nei ghetti.
Potrà anche esistere un sistema per governare – e perseguire
– gli abitanti. Potranno avere la responsabilità per quel che
riguarda il proprio cibo, la salute pubblica e l’economia. Ma non avranno
la sovranità sulla loro terra e nessuna prospettiva di trasformare
i loro ghetti in uno stato accettabile. I palestinesi si stanno avvicinando
gradualmente a questo terribile fato, nella maniera in cui a qualcuno viene
fatta ingoiare una medicina amara, col pretesto che questa situazione è
solo temporanea. Ma come abbiamo visto con Oslo, il temporaneo diventerà
presto permanente; ci saranno sempre dei pretesti per le mancanze di progresso
e gli argomenti di Gerusalemme e dei rifugiati saranno sempre presentati non
come materie di negoziato ma come ostacoli insuperabili.
Proprio ora, Sharon sta chiedendo ai palestinesi di rinunciare al diritto
di ritorno dei rifugiati e di dichiarare la fine del conflitto. In cambio,
offre ai palestinesi niente al di fuori di pochi ed affollati ghetti dove
vivere. La soluzione di Sharon è la giudaizzazione e l’annessione
di molto della Cisgiordania e della striscia di Gaza, e sta chiedendo ai palestinesi
delle concessioni storiche per permettere che ciò avvenga. Egli vuole
che i palestinesi rinuncino ai loro diritti così che
possano vivere in schiavitù permanente sotto il peggior regime di apartheid
razzista nella storia. Per quel che riguarda la roadmap, Sharon vuole scegliere
gli elementi che gli stanno bene e eliminare quelli che non gli piacciono.
Ecco perché sta presentando oltre 100 alterazioni al testo sotto 15
rubriche. Egli vuole fermare la lotta palestinese mentre rifiuta di fermare
gli insediamenti. Vuole abrogare il diritto a tornare dei palestinesi mentre
rifiuta di discutere su Gerusalemme.
Le mappe qui presenti mostrano come Sharon è un altro anello nella
catena sionista. Le mappe mostrano come i confini dello stato putativo palestinese
continuano a rimpicciolire fino all’edificazione di un muro che consacra
la segregazione razziale e i territori occupati sono ridotti a piccoli pezzi.
La spartizione del 1947 dava ai palestinesi il 45% della terra, mentre le
due soluzioni basate sui confini del 1967 gli davano il 22% della terra. La
proposta di Sharon gli dà un misero 9%. Le cifre parlano da sole; ma
ciò che realmente interessa è il trend di fondo.
Mentre i palestinesi perdevano più terra ad ogni confronto, la loro
resistenza è cresciuta. Si sono rifiutati di andarsene, il loro numero
è cresciuto, ed essi si sono impegnati in una vita di lotta, per rinforzare
le loro strutture istituzionali, per aumentare la coscienza dei diritti della
propria nazione e per raccogliere supporto internazionale.
Attraverso tutto questo, come un filo, corre il fatto che il fattore umano
è l’elemento di maggior valore che lavora per noi.
Nel passato abbiamo impiegato, ed a volte esaurito, le nostre risorse umane
domestiche. E non siamo riusciti ad organizzare, in particolare dopo Oslo,
il potenziale umano che vive all’estero. Ottenere questo è una
delle mire principali dell’Iniziativa Democratica Nazionale Palestinese,
lanciata nel giugno 2002. La roadmap è destinata a fallire perché
Sharon lo vuole e perché gli Stati Uniti non sono ancora dell’umore
giusto per spingerlo ad accettarla. Lo scenario più probabile è
che la roadmap sarà alterata per accomodare le riserve di Sharon. Questo
porrà i palestinesi in una situazione di pericolo mai toccata. Perché
il conflitto non sarà più sulle percentuali di terra che ci
sarà concesso di mantenere, ma sul nostro diritto di sopravvivere come
nazione con una causa per la quale vivere e un’identità da mantenere.
E’ essenziale non permettere che Israele distorca dal suo punto di vista
questa lotta. Il conflitto fra palestinesi e israeliani non è una disputa
fra parti uguali; non è un disaccordo su una transazione immobliare.
Non è possibile porre sullo stesso piano oppressori ed oppressi, o
gli occupati con quelli sotto l’occupazione. La lotta palestinese è
quella di una nazione privata della libertà, dell’indipendenza
e del suolo natìo per 55 anni e soggetta ad occupazione per altri 36.