Gli accordi di Ginevra.
Deve
essere decisamente rigettata la concezione della pace emersa a Ginevra, che
intende la “pace” come mezzo per tenere i palestinesi fuori dalla
loro vista – al di là del muro – e considera i palestinesi
un pericolo esistenziale. Di Shiko Behar e Michael Warschawski. 24.11.2003.
Da Guerre e Pace, tradotto da “Middle East report”.
Gli accordi di Ginevra, l’ultima cornice non ufficiale per la pace israelo
palestinese, reso pubblico a metà ottobre del 2003, non sono diventati
la base per i negoziati ufficiali. Ma l’iniziativa ha già avuto
successo su un aspetto: ha suscitato tante voci di speranza quante di protesta
tra gli israeliani e i palestinesi anche se il governo israeliano li ha rifiutati
e l’autorità palestinese non li ha formalmente sottoscritti.
Gli accordi di Ginevra – essenzialmente un riproposizione del piano
di pace presentato dal presidente Clinton alla fine del 2000, fissano diversi
principi base sui quali costruire un accordo di pace permanente.
L’iniziativa di Ginevra richiede una seria valutazione critica da parte
di coloro che sono interessati in una pace duratura – una pace più
giusta possibile – tra israeliani e palestinesi. I negoziati hanno coinvolto
un consistente numero di importanti personaggi guidati da Yossi Beilin, già
ministro nel governo laburista israeliano, e Yasser Abed Rabbo, fino a tempi
recenti ministro degli affari di gabinetto dell’autorità palestinese
e uno dei maggiori rappresentanti nei passati colloqui ufficiali. Fino ad
oggi gli accordi di Ginevra rappresentano il documento più avanzato
sul quale si è trovato un accordo tra politici palestinesi e israeliani
di alto livello. Comunque, in un modo che ricorda le iniziative dell’epoca
di Clinton, questo apparentemente coraggioso documento è intrinsecamente
debole. Ed è anche presentato in maniera ingannevole - e quindi votata
alla sconfitta – dai suoi firmatari israeliani.
Doppia
urgenza
In base agli accordi Israele è autorizzata a legalizzare e mantenere
insediamenti nella Cisgiordania occupata (che ospitano oltre 3000.000 coloni),
inclusi tutti gli insediamenti ebraici costruiti dopo il 1967 nella parte
orientale araba di Gerusalemme. In cambio i palestinesi ricevono quale compensazione
territori equivalenti da Israele. I Palestinesi avranno la garanzia della
sovranità sui territori scambiati e sulle restanti parti di Cisgiordania
e Gaza, inclusi i sobborghi arabi i Gerusalemme est. Questa entità
sovrana palestinese rimarrà smilitarizzata. La sicurezza del Monte
del Tempio/Spianata delle Moschee, luoghi sacri di Gerusalemme sarà
assicurata da una forza internazionale permanente, mentre gli aspetti non
riguardanti la sicurezza saranno sotto controllo palestinese; sarà
garantito agli ebrei il pieno accesso al sito.
I palestinesi resi profughi nel 1948 riceveranno risarcimenti, mentre sarà
ad unica discrezione israeliana decidere a quanti rifugiati, sul totale di
oltre 4,1 milioni registrati dall’Onu, sarà permesso ritornare
nelle loro case in Israele.
Questa clausola rappresenta un forte compromesso da parte palestinese rispetto
al diritto al ritorno dei rifugiati – benché non sia il suo totale
abbandono. A questo riguardo l’opposizione agli accordi tra i palestinesi
è legittimata non solo da un punto di vista politico e morale ma anche
dal punto di vista a loro favorevole della legge umanitaria e internazionale.
Per giustificare questa concessione, i palestinesi che hanno partecipato ai
negoziati di Ginevra sottolineano una doppia urgenza che attualmente prevale
su altre questioni nell’arena politica israelo-palestinese.
La prima urgenza è che sta scadendo il tempo per arrivare ad una soluzione
negoziata: nel prossimo futuro potrebbe non esistere più nulla di sostanziale
da negoziare, dati i continui insediamenti israeliani nei Territori Occupati
e la costruzione del muro all’interno della Cisgiordania, che sta di
fatto rafforzando un sistema di apartheid.
La seconda deriva dalla crescente convinzione tra le opinioni pubbliche palestinesi
ed israeliane che non esistono partner dall’altra parte e quindi i negoziatori
palestinesi sostengono che presto potrebbe diventare impossibile convincere
palestinesi e israeliani che un qualsiasi tipo di soluzione negoziata del
conflitto possa essere raggiunta. I partecipanti israeliani ai negoziati di
Ginevra condividono questa sensazione di doppia urgenza; ecco perché
giustificano l’importanza della loro iniziativa, valorizzando la sua
potenziale capacità di capovolgere la spirale di disperazione (di Israele),
o perlomeno di frenarla.
Le
lezioni di Oslo
Benché le prospettive degli Accordi di Ginevra siano incerte, un altro
ministro palestinese, Ghassan Al Khatib, ha risposto a diversi commentatori
che tali accordi “stanno creando utili rumori” in Israele. Arrivando
dopo tre anni di assenza di iniziative ufficiali da parte del governo sharon,
e tra le critiche provenienti dal capo dello Staff delle forze armate israeliane
Moshe Yaalon e da quattro ex dirigenti dei servizi di intelligence, l’iniziativa
di Ginevra ha il potenziale di interrompere lo spostamento a destra dell’opinione
pubblica ebraica israeliana. Ma le analisi sul possibile impatto degli accordi
devono tenere in considerazione l’esperienza degli accordi di Oslo del
1993, che sembravano anch’essi promettere pace, e la loro disintegrazione
nella seconda metà degli anni ’90.
Molti di coloro che pensavano che gli accordi di Oslo avrebbero prodotto una
pace che fosse la più giusta possibile, limitavano la loro analisi
al testo degli accordi stessi, che portava loro a premettere che tali accordi
incontravano le aspirazioni minime del popolo palestinese.
Benché gli accordi non soddisfacevano queste aspirazioni minime, avrebbero
comunque potuto rappresentare un modesto punto di partenza per una pace israelo-palestinese
che soddisfacesse i bisogni basilari di israeliani e palestinesi (solo per
quanto riguarda Gaza e Cisgiordania) – a condizione che israeliani e
palestinesi avessero compreso il testo in maniera simile e provveduto a portare
avanti i negoziati in buona fede. Sfortunatamente non è stato così.
Se i negoziatori palestinesi sembravano sinceramente intenzionati a raggiungere
quello che definivano “storico compromesso” basato sulla risoluzione
242 del Consiglio di Sicurezza dell’Onu – che significava rinunciare
a nulla di meno del 78% della loro rivendicazione storica dell’intero
territorio della Palestina mandataria – i politici israeliani usarono
i documenti di Oslo per consolidare ulteriormente il loro controllo coloniale
sulle vite e sulla terra palestinesi. Durante il “processo di pace”
le colonie esistenti si sono allargate, ne sono state costruite ulteriori
e il numero dei coloni è più che raddoppiato. Questi fatti portano
ad una sola conclusione: i primi ministri Yitzhak Rabin e Shimon Peres intendevano
sfruttare sin dall’inizio l’equilibrio asimmetrico tra le forze
dello stato occupante israeliano e la società palestinese occupata
per imporre all’Autorità Palestinese una concezione di pace basata
sulla continua dominazione.
Molti osservatori del processo di Ginevra trascurano il fatto che gli anni
‘90 in Israele sono stati principalmente un periodo di governo della
sinistra sionista, e non del Likud e della destra ultra- nazionalista: tra
l’elezione di Rabin nel 1992 e la vittoria elettorale schiacciante di
Sharon sull’ex Primo Ministro Ehud Barak nel febbraio 2001, ci sono
stati quasi sei anni di governo del Partito Laburista con l’appoggio
a sinistra del Meretz. Contrariamente alle percezioni prevalenti è
la sinistra sionista – piuttosto che la destra – che ha la principale
responsabilità del fallimento del “processo di pace” negli
anni ’90. dato che gli accordi di Ginevra nascono dalla stessa “scuola”
israeliana che ha prodotto gli accordi di Oslo, Beilin e i suoi associati
avrebbero potuto aumentare la praticabilità politica del loro nuovo
processo di Ginevra se avessero ammesso pubblicamente il loro fallimento degli
anni ’90. Essi non lo hanno fatto, ancora una volta rifiutandosi di
offrire all’opinione pubblica una spiegazione alternativa per la nascita
dell’intifada rispetto al luogo comune dei palestinesi che avrebbero
“scelto la violenza”.
Nel 1993, invece che cercare di convincere gli israeliani che stava per iniziare
una nuova era basata sull’eguaglianza e sulla coesistenza pacifica,
i leader della coalizione Labour-Meretz hanno bastato la loro strategia di
marketing unicamente sulla sicurezza, sulla separazione dai palestinesi e
la continuità della supremazia coloniale israeliana. Tale leadership
non ha voluto riconoscere alcuna responsabilità israeliana o sionista
per gli oltre 100 anni di conflitto; al contrario, consciamente questa leadership
ha legato il conflitto, politicamente e retoricamente, al “terrorismo”
e allo storico rifiuto permanente palestinesi.
Ascoltando
attentamente le personalità israeliane legate al processo di Ginevra
– soprattutto quando parlano ebraico – è subito evidente
che non hanno dimenticato, o imparato da, il loro stesso fallimento di Oslo.
Infatti si rivolgono all’opinione pubblica israeliana, per sostenere
l’iniziativa di Ginevra, con lo stesso comportamento e le stesse strategie
di marketing.
“Realismo”
e “generosità”
Il testo degli accordi di Ginevra ha scarso significato al di fuori del contesto
politico e giornalistico nel quale è stato “venduto” all’opinione
pubblica israeliana. In pratica, la reale sostanza degli accordi è
fissata nella “esegesi” verbale e scritta che circonda il testo
degli accordi. Questo contesto di spiegazioni già preannuncia il fiasco
politico a cui sembra destinato il testo nel prossimo futuro.
Un articolo pubblicato su “The Guardian” da uno dei più
importanti partecipanti israeliani agli accordi di Ginevra, il famoso scrittore
Amos Oz, illustra queste posizioni. L’articolo di Oz, intitolato “We
have done the gruntwork of peace”, era basato su un articolo pubblicato
precedentemente in ebraico in Israele.. Oz spiega che i colloqui di Ginevra
erano differenti dai passati rapporti israelo- palestinesi: per esempio, non
vi è più discussione sul “diritto al ritorno dei profughi”
ma piuttosto “una soluzione al problema dei profughi”; non c’è
più discussione sul “ritorno ai confini del 1967” ma “una
mappa logica che tenga anche conto della realtà presente e non solo
della storia”. Lettori innocenti potrebbero concludere che la logica
è una caratteristica mentale della sola sinistra sionista e che gli
israeliani, al contrario dei palestinesi, non hanno mai basato alcuna loro
rivendicazione nazionale sulla storia. Il messaggio principale di Oz è
il seguente: negli accordi di Ginevra i palestinesi hanno finalmente scelto
di essere “realistici” e di rinunciare non solo al diritto al
ritorno ma anche alla richiesta di un completo ritiro nei confini del 1967.
Oz, che è uno dei principali “guru” del movimento israeliano
“Peace Now”, fa uno sforzo ulteriore per ribadire che è
stata l’ostinazione palestinese che ha portato al fallimento di Oslo
e del vertice di Camp David del luglio 2000; Oz sostiene che i pacifisti israeliani
alla fine hanno avuto successo convincendo gli irrazionali palestinesi che
devono accettare i “paletti” stabiliti dalla sinistra israeliana.
Questi “paletti”, secondo un collega di Oz, rappresentano un grande
sacrificio da parte loro perché egli “è pronto a rinunciare
a niente di meno che ad una parte della propria fede religiosa, poiché
sono pronto, con il cuore a pezzi, ad accettare la sovranità palestinese
sul Monte del Tempio”. E ancora, Oz ricorre ad un simile simbolismo
propagandistico dichiarando che “noi cediamo la sovranità di
una parte della Terra di Israele, dove rimangono i nostri cuori”. Quali
sono, allora i principali problemi, per Oz e per la scuola israeliana di Ginevra
che egli ben rappresenta, per quanto concerne l’opinione pubblica israeliana?
Mancando della capacità di autocritica, Oz rinforza l’autostima
di Israele e sottrae ai palestinesi la posizione di vittime, rappresentando
sé stesso e Israele come le vere vittime; egli non fa alcun tentativo
per comprendere gli enormi sacrifici fatti dalla sua controparte palestinese.
La sua prosa rispecchia gli assunti che sottostavano alle “generose”
offerte di Barak ad Arafat a Camp David nel luglio 2002.
Per convincere l’opinione pubblica israeliana, gli israeliani che hanno
sottoscritto gli accordi di Ginevra devono mostrare – o così
almeno credono – che gli israeliani “hanno vinto” e che
i palestinesi “hanno rinunciato”. Il più grande difetto
degli accordi di Ginevra è che la basilare nozione dei diritti umani
e politici inalienabili del popolo palestinese è totalmente ignorata
da Oz e dai suoi soci, come fu il caso degli accordi di Oslo. Seguendo Barak,
Oz sostituisce il concetto di diritti con quello di carità –
“se avessimo offerto loro nel 1967 quello che offriamo oggi…”.
Quando non è riconosciuto alcun posto ai diritti, e l’equilibrio
delle forze favorisce in maniera così evidente l’occupante illegale,
il racconto corrente israeliano si legge in questo modo: i palestinesi hanno
rinunciato ai loro obiettivi distruttivi (perché per Oz e la scuola
di Ginevra “‘ritorno’ è una parola in codice per
significare la distruzione di Israele”) perciò noi, campo pacifista
israeliano, abbiamo deciso di essere estremamente generosi.
Sistematicamente
controproducente
A parte la sua valenza morale, gli argomenti di “marketing” del
contesto dei partecipanti israeliani a Ginevra sono controproducenti politicamente
rispetto all’obiettivo di generare un cambiamento dell’opinione
pubblica israeliana. Se i diritti politici ed umani non esistono e il conflitto
deriva dall’irrazionale determinazione palestinese di cacciare gli ebrei,
come possono gli israeliani credere che i palestinesi possano cambiare? E
se i palestinesi cambiano solamente perché il campo pacifista israeliano
è stato abbastanza duro nel trattare con loro, allora perché
non essere ancora più duri e costringerli ad accettare la dominazione
israeliana senza alcuna concessione di nessun tipo?
Anche gli alchimisti politici del calibro della scuola di Ginevra non possono
costruire fiducia basandola sulla menzogna: per convincere l’opinione
pubblica israeliana alcuni dei partecipanti di Ginevra sostengono che, questa
volta i palestinesi hanno rinunciato al loro diritto al ritorno. Una semplice
lettura dell’articolo 7 degli accordi rivela che i palestinesi che hanno
partecipato ai colloqui di Ginevra sono davvero pronti a fare notevoli compromessi
rispetto ai diritti dei profughi palestinesi; in ogni caso essi non sono andati
così lontano da rinunciare al “diritto al ritorno”, come
stabilito dalla risoluzione 194 dell’Onu approvata nel 1948, dato che
una tale mossa cancellerebbe immediatamente e totalmente la loro legittimità
agli occhi dell’opinione pubblica palestinese.
Coloro che sono interessati ad una pace duratura – la più giusta
possibile – tra israeliani e palestinesi devono pertanto porsi una domanda:
perché la scuola di Ginevra cerca di comprarsi l’opinione pubblica
israeliana sostenendo esattamente il contrario di quello che la controparte
palestinese dice alla propria opinione pubblica, in modo da ottenere il suo
supporto all’iniziativa congiunta? Il risultato finale del processo
di Ginevra consisterà così in un aumento delle differenze tra
le letture di israeliani e palestinesi, preparando in questo modo ancora una
volta il campo per l’accusa israeliana, spesso rilanciata dai decani
della stessa scuola di Ginevra, che i palestinesi sono bugiardi.
Alcuni dei più cinici partecipanti israeliani al processo di Ginevra
sanno perfettamente che esiste una contraddizione esplosiva tra la lettura
palestinese degli accordi e il modo in cui vengono venduti all’opinione
pubblica israeliana. Questi israeliani sembrano credere che un’esposizione
falsata della posizione palestinese possa aiutarli a indurre gli israeliani
a riportare il Partito Laburista al potere, dove troverà il modo per
imporre gli “accordi”.
Ma i laburisti non riusciranno a tornare al potere perché le loro politiche
sono una pallida replica delle convinzioni dei partiti di destra. Le dimissioni
dell’ultimo candidato laburista a primo ministro, Amram Mitzna, da presidente
del partito, insieme alla rinuncia degli esponenti di sinistra del partito
come Beilin e Yael Dayan a formare un nuovo partito socialdemocratico –
testimonia l’impossibilità di una seria riforma del partito.
In campo socio- economico il Partito Laburista sostiene posizioni neoliberiste
simili a quelle di Binyamin Nethanyahu del Likud. In merito al conflitto arabo-israeliano
parlamentari laburisti come il gen. Binyamin Ben Eliezer, Efraim Sneh e Dany
Yatom sono probabilmente peggiori di alcuni parlamentari del Likud. La questione
per l’elettore medio rimane la stessa: perché votare per una
copia (laburista) quando si può votare per l’originale (Likud)?
Che
fare?
Se sono davvero interessati ad una pace per la loro popolazione sostenibile
e praticabile, i politici israeliani avranno in definitiva bisogno di presentare
un piano di pace che abbia il sostegno della base palestinese. A questo scopo
l’opinione pubblica israeliana dovrà sviluppare una più
seria comprensione delle dinamiche sottostanti il conflitto arabo-israeliano.
Piuttosto che insistere su questa o quella clausola del testo degli accordi
di Ginevra, gli israeliani interessati a raggiungere una pace giusta e duratura
devono immediatamente concentrarsi sulle sincere spiegazioni scritte e verbali
necessarie a contestualizzare in maniera produttiva questi accordi.
In primo luogo, gli israeliani critici devono dire all’opinione pubblica
israeliana che il conflitto non è la conseguenza del terrorismo o del
fanatismo palestinesi, ma piuttosto il risultato dell’espropriazione
e occupazione israeliane; la responsabilità israeliana del conflitto
deve essere smascherata dagli israeliani stessi. I diritti umani e politici
fondamentali dei palestinesi negati dalle politiche israeliane di occupazione
e colonizzazione devono essere riconosciuti in ogni accordo che intende raggiungere
una pace giusta. Deve essere reso chiaro all’opinione pubblica israeliana
che le sole “generose offerte” tra Israele e Palestina è
la volontà da parte di alcuni palestinesi di rinunciare al 78% delle
rivendicazioni sulla loro patria storica.
Il diritto al ritorno è un diritto umano fondamentale. La volontà
di alcuni palestinesi di considerarlo oggetto di negoziato, tenendo in considerazione
le preoccupazioni demografiche di Israele, deve essere percepito come ulteriore
generosa offerta palestinese. Gli israeliani critici devono chiedere ai loro
concittadini israeliani – inclusa la scuola di Ginevra – come
possono chiedere ai palestinesi di rinunciare al loro diritto la ritorno prima
ancora che gli israeliani riconoscano la sua stessa esistenza?
Quello che è richiesto inoltre agli israeliani critici – e in
definitiva ai politici israeliani – è di promuovere seriamente
una concezione positiva di pace basata sulla coesistenza e l’eguaglianza.
Deve essere decisamente rigettata – non solo per la sua corruzione morale
ma perché non ha possibilità di funzionare - la concezione della
pace di Oz e i suoi soci di Ginevra, che intendono la “pace” come
mezzo per tenere i palestinesi fuori dalla loro vista – al di là
del muro – e considera i palestinesi un pericolo esistenziale.
Come nel caso degli accordi di Oslo del 1993, negli accordi di Ginevra il
contesto è molto più importante del testo, tanto più
per quanto concerne l’opinione pubblica israeliana.