La strategia di Ariel Sharon…
per i prossimi cinquant’ anni.
Il
mondo intero celebra la “nuova atmosfera” che dovrebbe ipoteticamente
regnare in Israele/Palestina, senza dimenticare di lodare il “pragmatismo”
del primo ministro israeliano, Ariel Sharon, che si sarebbe convertito in
un esempio di moderazione e avrebbe abbandonato le sue ambizioni guerresche
per un eventuale e prossimo premio Nobel per la pace. Non si tratta del lupo
che vivrebbe finalmente in pace con l’ agnello, bensì del lupo
trasformato in agnello! Di
Michel Warschawski. Luglio 2005.
Traduzione Antonello Zecca. Il seguente articolo sarà pubblicato nel
numero di Settembre della rivista ERRE
. REDS, Settembre 2005.
Il
mondo intero celebra la “nuova atmosfera” che dovrebbe ipoteticamente
regnare in Israele/Palestina, senza dimenticare di lodare il “pragmatismo”
del primo ministro israeliano, Ariel Sharon, che si sarebbe convertito in
un esempio di moderazione e avrebbe abbandonato le sue ambizioni guerresche
per un eventuale e prossimo premio Nobel per la pace. Non si tratta del lupo
che vivrebbe finalmente in pace con l’ agnello, bensì del lupo
trasformato in agnello!
Forse stiamo sognando.
Delle due l’ una: o i media internazionali e i governi si prendono gioco
del pubblico, e sarebbe grave, o credono in ciò che dicono, e sarebbe
ancora peggio. Il lupo non si è trasformato in agnello, e Ariel Sharon
non aspira affatto a unirsi al suo collega e amico Shimon Peres nella lista
dei beneficiari del prestigioso premio norvegese. A rischio di apparire come
un guastafeste, devo dire di essere completamente contrario a questa percezione
che condividono molte persone, uomini e donne, anche in Israele, e che risponde
alla naturale necessità di credere che alla fine le cose vadano finalmente
per il verso giusto.
Da Yasser Arafat a Mahmud Abbas
Alla morte di Arafat, Ariel Sharon – che lo aveva falsamente presentato
come il primo responsabile del fallimento della politica di negoziato, desideroso
di riprendere la lotta armata con l’ obbiettivo di distruggere Israele
(sic) – ha perso la scusa principale per giustificare una politica di
guerra totale e preventiva contro il popolo palestinese e l’unilateralismo
come strategia politica. La situazione (per Sharon, n.d.t) si è fatta
più difficile quando si è venuto a sapere che il successore
del Rais sarebbe stato Mahmud Abbas, lo stesso Mahmud Abbas che gli statunitensi
presentavano come alternativa moderata, conciliatrice e civilizzata, al “capo
terrorista” palestinese.
Un presidente palestinese moderato, che d’ altra parte non ha mai nascosto
le sue critiche nei confronti dell’ “intifada armata” –
“legittima ma inefficace” secondo il numero due dell’OLP
– avrebbe potuto obbligare il primo ministro israeliano a rinunciare
alla sua politica unilaterale e a riprendere i negoziati, l’ esatto
contrario della strategia di Sharon. Come neutralizzare il nuovo presidente
palestinese? Questa è la domanda che si è posta la classe politica
israeliana il giorno seguente l’ elezione di Abu Mazen alla presidenza
dell’ autorità palestinese, dandosi tre diverse risposte. Una
minoranza, di sinistra, credeva che Abu Mazen avrebbe potuto effettivamente
accettare le offerte politiche respinte da Yasser Arafat (annessione dei blocchi
di colonie, rinuncia al diritto al ritorno dei rifugiati, ecc…). Però
solo la sinistra sionista, dotata di una mentalità coloniale arcaica,
poteva credere che il cofondatore dell’ OLP sarebbe stato sensibile
alle sue carezze/minacce, e avrebbe accettato la capitolazione e il cedimento
su principi fondamentali del programma nazionale palestinese. I dirigenti
del Likud hanno mostrato, ancora una volta, una maggiore capacità di
previsione dei loro amici di sinistra, conoscendo bene i limiti della moderazione
di Mahmud Abbas. Sapendo che questi non avrebbe accettato un piano più
arretrato del “compromesso storico palestinese” del 1988, cioè
delle linee generali delle risoluzioni delle Nazioni Unite (ritiro totale
e decolonizzazione di tutti i territori occupati nel giugno 1967, riconoscimento
del diritto al ritorno dei palestinesi), una parte dei dirigenti del Likud
intendeva attaccare Abu Mazen sin dalla sua elezione, presentandolo come il
continuatore di Yasser Arafat – invero lo è – e quindi
come una persona da delegittimare ed eliminare, almeno politicamente.
Ariel Sharon, per parte sua, ha difeso una politica molto più sottile:
contribuire all’ immagine moderata di Mahmud Abbas, dando a intendere
che, al contrario di Yasser Arafat, si sarebbe trattato di un uomo moderato
e pragmatico, e perciò disposto a fare i compromessi che il suo predecessore
non aveva voluto fare. Al momento giusto però lo avrebbe dipinto come
un dirigente tanto inaffidabile quanto il suo predecessore che, posto tra
l’ incudine e il martello, avrebbe rifiutato le concessioni cui pareva
disposto alcuni mesi prima. Per Ariel Sharon, Abbas deve essere delegittimato
tanto quanto Arafat, e come lui, dopo aver dato ad intendere (in quel momento
con il tramite della sinistra sionista) che era disposto ad accettare i diktat
israeliani. L’unica differenza seria risiede nel fatto che, come abbiamo
già indicato, diversamente da gente come Beilin e Ben-Ami, Sharon crea
una falsa immagine di Mahmud Abbas con piena cognizione di causa, in maniera
del tutto cinica.
Proseguire con l’ unilateralismo
Contrariamente allo spirito e alla lettera della “Road Map” del
quartetto, la strategia di Ariel Sharon esclude ogni simultaneità:
non verrà posto un freno alla violenza israeliana che in seguito allo
smantellamento, agli occhi degli israeliani evidentemente, delle reti terroristiche
ad opera di Abu Mazen; non riprenderanno i negoziati se non dopo che Abu Mazen
abbia dato prova, ecc… Nel frattempo la politica israeliana resta unilaterale.
È in quest’ ottica che vanno compresi i risultati del vertice
di Sharm el-Sheikh, svoltosi meno di sei mesi fa: per Israele non c’è
alcun accordo di Sharm el-Sheikh, ma solo understandings (notazioni). Ciò
vuol dire che Israele prende nota dell’ impegno palestinese di dichiarare
una tregua unilaterale e di riformare le istituzioni dell’ Autorità
Palestinese, e contempla di prendere, per parte sua, misure di allentamento
dell’ occupazione qualora la tregua cominci effettivamente e Abu Mazen
soddisfi le esigenze israeliane. Non c’è alcun negoziato ma esigenze
israeliane ed eventuali misure unilaterali suscettibili di ridurre la tensione
nei territori occupati: liberazione di prigionieri politici, sospensione degli
omicidi mirati, riduzione del blocco.
Ma mentre la tregua da parte palestinese è stata, nel corso dei primi
due mesi, quasi totale, Israele non ha fatto praticamente nulla: 400 prigionieri
liberati in totale su più di 8000, la maggior parte dei quali di diritto
comune o sul punto di terminare la pena; secondo un rapporto della Commissione
dell’ONU, l’OCHA[1], meno del 10% dei check point sono stati eliminati,
mentre nuovi sono stati messi in piedi, e gli omicidi mirati, benché
ridotti, non sono cessati; e ciò che è peggio, le autorità
israeliane si rifiutano di garantire l’ incolumità dei militanti
palestinesi ricercati, che, di conseguenza, rifiutano di consegnare le proprie
armi all’ Autorità Palestinese. La maggior parte delle città
da cui Israele aveva deciso di ritirarsi non sono state consegnate al controllo
dell’ Autorità Palestinese, e laddove è stato formalmente
il caso, come a Tulkarem, Israele continua a fare incursioni e ad arrestare
militanti.
Di certo, da tre mesi a questa parte, ci sono molti meno morti – sia
nei territori occupati, sia in territorio israeliano – e ciò
è, evidentemente, una cosa buona. Però a parte questo, nulla
è cambiato: il muro continua ad essere tirato su, le colonie ad estendersi,
il blocco ad essere applicato. In termini politici ciò significa che
Abu Mazen è costretto a non poter mostrare al suo popolo che la sua
politica abbia ottenuto risultati, e che l’ arresto della lotta armata
palestinese abbia prodotto una moderazione sostanziale della politica israeliana.
Questa realtà provocherà contemporaneamente un rafforzamento
degli oppositori islamici che, pur rispettando la tregua, non smettono di
affermare che la politica di Abu Mazen non potrà sfociare che in un
disastro, e una ripresa delle operazioni armate. Entrambi questi prevedibili
sviluppi, consentiranno ad Ariel Sharon di discreditare il presidente palestinese
e di proseguire con una politica di rifiuto dei negoziati, affermando: “ancora
una volta, non abbiamo una controparte”.
Il ritiro unilaterale e il piano Sharon
Il ritiro unilaterale non è, come indica il suo nome, la prima fase
del ritiro dai Territori Occupati, bensì un ritiro più razionale
dell’ Esercito di occupazione Israeliano. Questo ritiro non è
neanche un compromesso che Sharon sarebbe stato obbligato ad accettare per
soddisfare la comunità internazionale o una parte dell’ opinione
pubblica israeliana. Sharon ritira la sue truppe da Gaza perché ciò
è parte del sul piano strategico, le cui grandi linee furono definite
già nel 1979, quando era il responsabile per la colonizzazione, nel
primo governo Begin.
In che consiste il piano Sharon? Il primo ministro israeliano ha la virtù,
rara tra i politici, di dire apertamente ciò che pensa, e di fare,
o almeno provare a fare, ciò che dice. Sharon non ha nascosto nulla
dei suoi obbiettivi politici strategici, in particolare in due documenti estremamente
dettagliati e chiari: in una intervista concessa dal primo ministro al giornalista
israeliano Ari Shavit, nel marzo del 2001, e in una intervista concessa meno
di sei mesi fa da Dov Weisglass, ex capo di gabinetto di Sharon e suo stretto
collaboratore allo stesso Ari Shavit. Gli elementi che seguono sono tutti
frasi o citazioni di Sharon e del suo consigliere:
“La guerra di indipendenza non è finita, e l’ errore di
Yitzhak Rabin è stato voler fissare, nell’ ambito dei negoziati
di Oslo, frontiere all’ impresa sionista”
“La pace non è, per quanto ci riguarda, all’ ordine del
giorno per i prossimi cinquant’ anni” (altrove parla di cento
anni)
“La nostra priorità è proseguire il processo di colonizzazione
che, in cinquant’ anni, determinerà le frontiere definitive dello
Stato di Israele”
“Eretz Israel [Terra di Israele, la patria sionista, che equivale al
territorio della Palestina mandataria, cioè quella che fu posta sotto
mandato britannico alla Conferenza di Versailles nel 1919] è, dal Mediterraneo
al Giordano, la nostra zona di colonizzazione, per poter giungere alla realizzazione,
a medio termine, dello Stato di Israele”.
Ad Ariel Sharon resta da risolvere un problema fondamentale: che fare della
popolazione palestinese? Nella misura in cui, come tutti i sionisti, Sharon
vuole uno Stato di Israele demograficamente ebraico e non uno stato democratico
o binazionale, deve trovare una soluzione alla presenza palestinese, presto
maggioritaria, in quello che si suppone sarà, a medio termine, lo Stato
di Israele. Lo stratega sionista ha come sempre due piani: il primo è
stato per molto tempo il suo obbiettivo prioritario, con il titolo “La
Giordania è lo Stato Palestinese”; si tratta del tristemente
celebre piano di “trasferimento dei palestinesi” verso la Transgiordania,
dove questi ultimi sono già la maggioranza, dove sarebbero liberi di
abbattere la monarchia hashemita per creare uno Stato Palestinese di Giordania.
Il progetto di trasferimento ha tuttavia un difetto molto rilevante: esige
un contesto politico regionale suscettibile di giustificare un’ ampia
operazione di pulizia etnica, e presenta il rischio di provocare un effetto
boomerang e causare un intervento internazionale, che è la cosa che
più teme l’ insieme dei dirigenti israeliani. Conservando questo
piano come un’ eventualità da mettere in pratica in un contesto
appropriato, Ariel Sharon ha ripiegato, sin dal 1979, su un secondo piano,
che egli stesso ha battezzato “bantustanizzazione”.
Consiste nell’ escludere da Eretz Israel le zone non colonizzabili,
cioè a forte densità di popolazione palestinese, e fare di queste
“cantoni palestinesi”, in altri termini, “bantustans”.
Il muro è inscritto in questa logica, come pure il ritiro da Gaza.
Per Sharon, le colonie non devono essere enclaves israeliane in uno spazio
palestinese, ma il contrario: sono le aree palestinesi che devno diventare
enclaves in un territorio israeliano che si estenda dal Mediterraneo al Giordano.
È evidentemente qui che si sbagliano due volte quanti, come la mia
amica Tanya Reinhardt, affermano con insistenza che Sharon non si andrà
via da Gaza. In primo luogo perché è probabile che il ritiro
avrà effettivamente luogo; Sharon lo vuole e farà tutto il possibile
affinché abbia luogo. Poi perché ciò da a intendere che
Sharon “sia costretto” a ritirarsi da Gaza, cosa che non è
corretta: è il suo piano, la sua volontà, il suo desiderio,
e non un compromesso accettato a mala voglia.
La colonizzazione della Cisgiordania e il piano E1
Torniamo a Dov Weisglass che afferma: “il piano di ritiro unilaterale
da Gaza cerca di congelare qualsiasi piano di pace”, ha per obbiettivo
“rafforzare i blocchi di colonie in Cisgiordania” e “impedire
qualsiasi possibilità di uno Stato Palestinese indipendente”.
Si può essere più chiari?
Colonizzare tutto lo spazio che si trovi fuori dalle zone a forte densità
demografica palestinese (ciò che, conseguenza del piano originale di
Sharon, furono definite come zone A e B negli accordi di Oslo); circondare
le aree palestinesi con un blocco che acquista sempre più la forma
di un muro; smantellare eventualmente alcune colonie che si trovino nelle
enclaves palestinesi; trasferire la presenza palestinese fuori dal muro e
dalle vecchie zone A e B. Questo piano, guida della colonizzazione israeliana
da almeno due decenni, ha acquisito, con il ritorno al potere di Ariel Sharon,
una velocità superiore. Le “postazioni avanzate”, punti
di fissazione delle coordinate al di là delle colonie già esistenti,
che il governo chiama ipocritamente “colonie illegali”, costituiscono
uno degli elementi di questa politica accelerata: minicolonie che servono
a tracciare gli assi di continuità della presenza ebraica in Cisgiordania,
prima dell’ installazione di colonie vere e proprie.
È con questo piano in testa che bisogna comprendere il progetto E1
che ha provocato alcune tensioni con in presidente Bush in occasione della
visita di Sharon ad aprile. Se Sharon ha rifiutato la richiesta-suggerimento
del presidente statunitense, è perché il progetto è per
lui essenziale nella sua strategia di colonizzazione: si tratta dell’
ampliamento della colonia di Maale Adumim verso ovest, in modo tale che ci
sia una continuità urbana tra Gerusalemme e la parte già esistente
di questa colonia, che è la più grande di tutta la Cisgiordania
(al di là delle colonie di Gerusalemme). La realizzazione di questo
progetto taglierà la Cisgiordania in due, cioè, delimiterà
due insieme di enclaves palestinesi nel cuore di un territorio interamente
israeliano. Quando l’ Alternative Information Center, già più
di dieci anni fa, avvertì la direzione palestinese dell’ esistenza
del piano E1, si trovò di fronte ad un’ alzata di spalle, poiché
questo piano sembrava ad essa inimmaginabile. In quel momento poteva ancora
essere fermato, essendo il governo israeliano realmente interessato a negoziare
una separazione con la direzione palestinese. Oggi non c’è alcuna
volontà di negoziare ma di imporre, unilateralmente, la chiusura dei
palestinesi in bantustans che, se lo desiderano, saranno liberi di chiamare
“stato palestinese” o, meglio ancora, “stati palestinesi”.
Il ruolo della direzione palestinese
Il piano Sharon è, dal suo punto di vista, non negoziabile. Pertanto,
per il governo israeliano sono accettabili due tipi di direzione palestinese:
o una direzione cosiddetta “pragmatica”, cioè di collaboratori
disposti ad accettare i diktats israeliani, o una direzione che possa essere
presentata all’ opinione pubblica e alla comunità internazionale
come incapace di moderare le proprie posizioni, o come terrorista. Sebbene
individui come Shimon Peres credano che Abu Mazen possa accettare il gioco
di Sharon, quest’ ultimo è più lungimirante e meno arrogante,
e prepara sin d’ora il processo di delegittimazione del presidente palestinese.
Non senza aver prima strappato il massimo di concessioni e di misure “antiterrorismo”:
disarmo di alcuni militanti, interruzione delle operazione armate (e non solo
degli atti terroristi all’ interno di Israele), scioglimento di alcune
milizie, ristrutturazione delle unità di polizia palestinesi. Ariel
Sharon continuerà quindi a esercitare pressioni su Abu Mazen, fino
al momento in cui sarà obbligato a dire “no”. In quel momento
potrà essere presentato come il continuatore di Yasser Arafat che,
in maniera più subdola del suo predecessore, si sarebbe nascosto dietro
una giacca e una cravatta, e un’ immagine di moderazione.
Il rifiuto israeliano a prendere misure reali di distensione (tra le altre
e anzitutto l’ allentamento del blocco), fa evidentemente, ad alcuni
mesi dalle elezioni legislative palestinesi, il gioco di Hamas che non ha
grandi difficoltà a mostrare che Mahmud Abbas non è riuscito
a ridurre la pressione israeliana sulla popolazione palestinese, e a maggior
ragione a rilanciare un processo che rompa con l’ unilateralismo. Tutto
sembra indicare che la scelta di Sharon sia caduta su Hamas: una vittoria
degli integralisti islamici permetterebbe al primo ministro israeliano, in
effetti, di motivare le sue decisioni unilaterali con l’ assenza di
una controparte palestinese ragionevole. Ma Ariel Sharon ha molte frecce al
suo arco, e prende in considerazione l’ eventualità di pressioni
internazionali favorevoli a una ripresa dei negoziati con la direzione palestinese:
è l’ unilateralismo sotto forma di negoziato o anche il progetto
di un “accordo provvisorio a lungo termine”. La proposta che Sharon
farebbe a un eventuale interlocutore palestinese, sarebbe il suo piano originale,
cioè quello delle enclaves palestinesi nella Striscia di Gaza e su
circa il 60% della Cisgiordania, mantenendo Israele il controllo delle “frontiere”
di questi cantoni, lo spazio aereo, le risorse naturali (l’ acqua in
particolare). In questo caso, i palestinesi potrebbero chiamare questi bantustans
“Stato Palestinese”, al singolare o al plurale. Sapendo che nessun
interlocutore palestinese potrebbe accettare un piano simile come soluzione
del conflitto israelo-palestinese e realizzazione delle aspirazioni nazionali
del proprio popolo, Sharon è disposto a vedere in questo piano un accordo
provvisorio. Ma non provvisorio nel senso di tre o cinque anni: “provvisorio
a lungo termine” vuol dire per cinquant’ anni! In mezzo secolo,
i palestinesi si saranno così abituati a coesistere con uno Stato di
Israele che consacrerebbe questi decenni a “israelizzare” definitivamente
il restante 40% della Cisgiordania.
Conclusione: il figlio spirituale di Ben Gurion
Bisogna evitare due errori quando si cerchi di analizzare la politica di Ariel
Sharon. Il primo consiste nel non vedere che brutalità in lui. Sharon
è di certo un bulldozer, uno di quei Caterpillar D9 che hanno seminato
distruzione nei territori palestinesi, in particolare a Nablus, a Rafah e
nel campo profughi di Jenin. Però la brutalità di Sharon non
è gratuita e il suo bulldozer è dotato di una cartina e di una
bussola: sa dove va, o almeno dove vuole andare, e agisce secondo le grandi
linee di un piano prestabilito.
E questo piano si situa nel solco della eredità diretta, non degli
ideologi mistico-nazionalisti della destra sionista tradizionale, come Menachem
Begin o la maggior parte dei suoi colleghi del Likud, ma di David Ben Gurion.
Per il fondatore dello Stato Ebraico, ciò che contava era dove il trattore
segnasse il suo ultimo solco, dove fosse stato stabilito un nuovo insediamento
ebraico, tutto il resto era da lui considerato filosofia e idiozia. L’
obbiettivo di Ben Gurion era la colonizzazione della Palestina e tutti gli
accordi politici sottoscritti o accettati di mala voglia, erano mezzi tattici
per guadagnare tempo, un tempo utilizzato all’ estremo per i trattori
e i bulldozer… fino agli accordi successivi.
Ariel Sharon intende “finire la guerra di indipendenza”, cioè,
portare a termine nei prossimi cinquant’ anni il progetto di Ben Gurion.
Ci riuscirà? Niente è meno sicuro, però dipenderà,
tra l’ altro e anzitutto, dalla capacità del movimento nazionale
palestinese di comprendere la razionalità interna di questo piano,
al fine di poter formulare una strategia di resistenza per farlo fallire.
[1] Office for the Coordination of Humanitarian Affairs – Ufficio di
Coordinamento degli Affari Umanitari n.d.t.