Perché la chiamiamo pace?
La vera natura del cosiddetto "processo di pace" tra Israele e palestinesi. Di Alisa Klein da The Alternative Information Center di Gerusalemme. Ottobre 1999

In Israele, la stampa di "sinistra", congratulandosi con se stessa, sta parlando molto della venuta dell'età della pace. Si potrebbe pensare che Ehud Barak sia un messia dei tempi moderni, un vero eroe della sinistra. Le stesse parole di Barak pronunciate il 4 settembre firmando il cosiddetto accordo di pace, chiamato ufficialmente "Il memorandum di Sharm El Sheikh" - in modo non ufficiale Wye II - elevano questo documento vago ed evasivo ad uno status epico e il coinvolgimento di Barak nella preparazione dello stesso lo fa sembrare qualcosa di sacro: "La gente del Medio Oriente é pronta per l'alba di una nuova era. Credo che sia nostro dovere, leader di ogni partito, spianare la strada .... Dobbiamo cogliere l'occasione e per amore delle nostre madri, dei nostri padri, figli e nipoti far diventare realtà la visione di una pace duratura..." (Jerusalem Post, 5/9/99).

Ma se diamo uno sguardo alla stampa palestinese ed araba del Medio Oriente, leggiamo un'altra storia. Se escludiamo la stampa egiziana (controllata dal governo) e un tiepido sostegno della stampa giordana (controllata dal governo), le critiche sull'accordo di pace abbondano. Il governo siriano, che ha espresso il suo interesse nel riprendere le trattative di pace con Israele, ha detto in risposta agli accordi di pace appena siglati, che la Siria non sarebbe mai stata d'accordo a firmare un affare come quello di Wye II. Inoltre, le cronache della Siria affermano che non c'é da essere entusiasti sulle prospettive di pace del post-Wye II nella regione. Tishrin, il giornale di governo della Siria ha sostenuto: "La Siria non appoggerebbe mai il gioco di questi accordi a implementare altri accordi e negoziati per gradi" (agenzia France-Press, 5/9/99). Un portavoce del Ministero degli Esteri Iraniano ha sostenuto che l'accordo "continua a calpestare i diritti dei Palestinesi" (ibidem).

Il giorno dopo la firma del nuovo accordo, manifestanti palestinesi hanno paralizzato Gerusalemme Est (occupata) con uno sciopero generale. Ahmed Sab Laban, presidente del Comitato Nazionale a sostegno dei prigionieri a Gerusalemme, il gruppo che ha organizzato lo sciopero, ha riferito alla stampa: "Siamo arrabbiati, perché sentiamo che i negoziatori palestinesi hanno abbandonato i prigionieri di Gerusalemme" (Agenzia France-Press 5/9/99).
L'accordo chiedeva che 200 prigionieri politici venissero rilasciati nel giro di una settimana, poi altri 150 l'8 ottobre e un numero indeterminato a dicembre. Comunque l'accordo non parla del rilascio di prigionieri a Gerusalemme, Arabi Israeliani, membri dei gruppi Hamas e Jihad Islamico e quelli arrestati prima degli accordi di Oslo del 1993 (ibidem). Il numero complessivo dei prigionieri che verranno rilasciati secondo l'attuale accordo é ben lontano dal numero di cui si parlava nell'accordo originale di Wye che era stato firmato, ma mai realizzato dal governo Netanyahu.

In molte altre città e paesi palestinesi del West Bank e di Gaza, i dimostranti hanno organizzato marce per protestare contro l'accordo appena firmato e per chiedere il rilascio di tutti i prigionieri della difesa (???). A Betlemme alcuni dimostranti hanno tirato sassi ai soldati israeliani. Sheikh Ahmed Yassin, il leader spirituale del movimento di Hamas, ha definito l'accordo Oyet un altro tradimento/svendita da parte di Arafat. (Jerusalem Post 5/9/99). Quando i giornalisti hanno chiesto a Sheikh se Hamas avrebbe fatto qualcosa per bloccare gli attuali negoziati di pace, Yassin ha risposto che i suoi sostenitori si sono riservati il diritto di resistere all'occupazione israeliana (ibidem). Si pensa che i 5 attacchi realizzati il 2 settembre in Israele con delle autobombe siano stati delle forme di protesta
contro gli accordi di pace (per i dettagli vedi "1948 Palestianians" sezione di questa edizione dell'Altro Fronte).

I Palestinesi sono anche cauti per quanto riguarda il destino di Gerusalemme Est che vorrebbero come capitale del loro stato futuro, ma Israele insiste che é una parte indivisibile della sua capitale. Gerusalemme é uno dei problemi da affrontare presenti sull'agenda per il
cosiddetto status finale delle trattative per un insediamento permanente che dovrebbero cominciare la prossima settimana (agenzia France-press, 5/9/99). La questione degli insediamenti ebrei rimane ancora irrisolta e diventa un punto incendiario per entrambe le parti, ma in particolare modo per i Palestinesi che ora capiscono che gli abitanti di Israele resteranno incollati per sempre al territorio del loro futuro stato. Il giornalista Yoel Marcus discute questa questione nella settima edizione di settembre del Haoaretz:

"... Secondo l'approccio di base di Barak, anche in un insediamento permanente, gruppi di insediamenti ebrei rimarranno ancora nei territori. Ciò in pratica significa che il futuro stato palestinese occuperà il 54% del West Bank. Questo é non solo irragionevole, ma anche inaccettabile per i Palestinesi e non l'accetteranno né in un anno né in un lasso di tempo di 5 anni. E aspetteranno fino a che Israeliani e Palestinesi non verranno al sodo e
cominceranno a negoziare lo status di Gerusalemme!"

Sembrerebbe che deliberatamente nel nuovo accordo non ci siano discussioni sulla questione degli insediamenti. Immediatamente dopo la firma dell'accordo, il Ministro per l'Edilizia Yitzhak Levy (appartenente al Partito Religioso Nazionale) ha affermato in maniera inequivocabile che la costruzione negli insediamenti andrà avanti e che lui si oppone allo sradicamento di qualsiasi insediamento ebreo nel West Bank. Inoltre si rifiuta di cancellare lo status degli insediamenti nel West Bank in quanto parte di "un'area a priorità nazionale. (Globes, 5/9/99).

Poiché c'é la sensazione che le autorità palestinesi e Yasser Arafat abbiamo svenduto in fretta il popolo palestinese, la maggioranza dei Palestinesi si oppone al processo di pace così come é stato condotto oggi. La questione dei rifugiati, particolarmente delicata, deve essere ancora discussa. Con una diaspora che vede 5 milioni di Palestinesi distribuiti in tutto il
mondo e molti ancora in campi per rifugiati sparsi in tutto il territorio arabo e nei territori occupati, la questione dei rifugiati deve essere affrontata con giustizia e integrità da parte degli Israeliani. Se Israele non comincia veramente a mettersi in una posizione difficile che assicuri risarcimenti ed equità per i Palestinesi (invece di continuare con l'ossessione della "sicurezza" che non si risolverà mai finchè Israele continuerà ad angustiare il popolo palestinese con ingiustizie come quelle che commette contro di loro), quest'ultimo accordo di pace e quelli che seguiranno "creeranno una bomba a scoppio ritardato che potrebbe esplodere in ogni momento" come suggerisce il giornale Al-Bilad dell'Arabia Saudita. (Agenzia France-Press, 5/9/99).