L'etnia e la rivoluzione.
Un lungo intervento, di straordinario interesse, relativo al rapporto esistente tra marxismo ed etnicità. Di Michel Cahen. Traduzione di Andrea Vigni. Febbraio 2001.


Nelle correnti marxiste, comprese quelle antistaliniste, l'etnicità è spesso esorcizzata sempre collegata a drammi spaventosi o, nel migliore dei casi, sottostimata o associata a un'epoca trascorsa. Ci si attiene all'idea, assai contestabile, della 'falsa coscienza': solo la coscienza di classe sarebbe pertinente e portatrice di movimenti sociali emancipatori. In base a questo, le correnti rivoluzionarie non tentano nemmeno di prendere la testa delle mobilitazioni etnico-nazionali, abbandonandole alla destra (come in Yugoslavia o in Casamancia). Tuttavia, proprio perché l'etnicità è l'aspetto interclassista di una comunità umana, essa può essere un potente fattore di mobilitazione e di liberazione: ma ciò dipende appunto dall'attitudine nei suoi confronti del movimento operaio, tanto nei paesi del terzo mondo che del Nord. I marxisti devono dunque rinunciare esplicitamente ad associare sempre la questione nazionale a una tappa della rivoluzione democratico-borghese. La questione nazionale è effettivamente un problema per la democrazia, ma può essere un aspetto di tutte le rivoluzioni: in altri termini siamo tutt'ora all'epoca delle rivoluzioni nazionali e la 'nazione' non è affatto superata quando è sentita. Si è fatta troppa confusione fra internazionalismo e antinazionalismo. Un africanista è al suo posto in un incontro sul Bund e le comunità ebraiche europee? Senza alcun dubbio, poiché l'identità ebraica è stata, per lo meno in certi contesti, una forma di etnicità. Ora il concetto di etnicità e di etnia è oggi molto spesso riferito ai paesi selvaggi, ai paesi violenti ricordiamoci come la stampa ha abbandonato l'espressione 'problemi delle nazionalità' per quella di 'conflitti inter-etnici' in occasione della guerra civile yugoslava o lasciati, quanto a umanità, sostanzialmente ai margini. Ad esempio, non scandalizzerò probabilmente nessuno se parlo di etnie africane, ma rischio di farlo se parlo dell'etnia francese Si deve dunque affermare con forza che non c'è un'etnicità dei Neri, un'etnicità degli Orientali, un'etnicità dei Bianchi. C'è un'etnicità umana attinente ad un movimento sociale generale delle identità che beninteso si coniuga in forme diverse secondo i contesti storici e geografici. Quindi, utilizzando certamente considerazioni derivate spesso dal mio campo professionale la storia contemporanea dei paesi africani sortiti dalla colonizzazione portoghese tenterò qui di utilizzare la ricerca africanista in una prospettiva generale. Peraltro, interamente fedele al marxismo, io cerco di sviluppare una critica marxista del marxismo, tante sono le scorie giacobine o staliniste da spazzar via quando si tratta in special modo dell'appoccio all'identità. Tuttavia, in quanto africanista storico del politico, non è affatto l'etnicità per l'etnicità che mi interessa, ma il rapporto di questo fenomeno soggettivo con il politico. Parto dal politico per andare verso l'etnicità. Illustrerò questo passaggio con una breve descrizione del mio percorso professionale.

Garofani per i partiti unici
Nel 1974, quando si manifestò in Portogallo la Rivoluzione dei Garofani provocata in larga misura dalle guerre di liberazione in Africa dopo il 1961, i militari antifascisti che abolivano il partito unico a Lisbona non videro alcun inconveniente ad accettarlo a Maputo, Bissau, Praia o anche a Luanda. Bisogna dire che all'epoca, per una specie di "paternalismo progressista", una schiacciante maggioranza di intellettuali di sinistra in Europa e nei paesi anglo-sassoni non avevano niente da ridire sui partiti unici di sinistra (sotto questo aspetto c'è stata una sorprendente contraddizione con il loro atteggiamento verso le dittature latino-americane a partito unico: è vero che ad eccezione di Cuba quei partiti unici erano di destra). Si trattava, in Africa, della "tappa della creazione della nazione" che comportava partiti unici "antitribalisti": era l'idea che si potesse innescare un processo di modernizzazione autoritaria per creare da zero la nazione a partire dallo Stato. Sono stato per la prima volta in Mozambico nel 1975, proprio dopo l'indipendenza e, essendo per principio ostile ai partiti unici, anche di sinistra, mi ponevo alcune domande che altri giovani stranieri simpatizzanti non si ponevano affatto (o rimuovevano). In effetti, fino dai primi mesi del nuovo Stato, si notavano gli effetti deleteri prodotti dall'unicità settaria e dalla fusione partito-Stato, che impediva al movimento sociale africano, urbano e rurale, di esprimersi. Il partito unico prendeva semplicemente il posto del vecchio apparato statale coloniale, questa volta sotto spoglie marxisteggianti. Ma già da allora si poteva riconoscere che la politica di modernizzazione autoritaria senza però le risorse di una Terza Repubblica francese socialmente propulsiva, nell'intento di creare rapidamente una nazione moderna di tipo europeo e giacobino, si avviava per forza a determinare un atteggiamento quanto mai ostile alle espressioni etniche, cosa che, di rimando, avrebbe pesantemente favorito la ribellione sostenuta dalla Rhodesia e dall'apartheid. In altri termini, il nazionalismo di stato si faceva passare per lo Stato-nazione, peraltro inesistente, con la negazione delle identità reali. Tutto ciò si manifesta sotto la doppia natura dell'antirazzismo e dell'antitribalismo dei nazionalisti al potere. Nonostante che queste caratteristiche abbiano loro valso molto spesso una persistente simpatia in Europa, non si è mai abbastanza notato che si trattava anche del disprezzo della diversità culturale ed etnica e del divieto della loro espressione organizzata. Non c'erano più Bianchi, Neri, meticci, Indiani, Cinesi, ma neanche più Macondi, Yaos, Cianganesi, Ndaus; solamente dei nuovi uomini Mozambicani omologati: dalla negazione delle comunità si passò immediatamente alla repressione delle loro forme di organizzazione sociale.
C'era dunque una relazione stretta fra l'assenza di democrazia politica e il disprezzo dei fenomeni etnici, che lascia senza risposta il problema della costruzione integrata dell'etnicità e della democrazia politica. Una volta individuato in Africa, questo problema è evidentemente reale anche altrove: la possibile democrazia politica attraverso, e nient'affatto contro, l'identità etnica. Il problema in Africa era e resta tanto più cruciale in quanto si sarebbe dovuto pur constatare che, a più d'un secolo dal Congresso di Berlino (1884-85) e la conquista effettiva dei territori, dopo un secolo di Stato moderno coloniale e post-coloniale, d'industrializzazione, di urbanizzazione, di proletarizzazione o "plebeizzazione", l'etnicità, la cui intensità avrebbe dovuto "logicamente" diminuire, manteneva una bella vitalità. Non c'era stato alcun legame meccanico fra modernizzazione e declino delle etnicità, anche se, evidentemente, quest'ultime erano state prepotentemente stravolte dalla colonizzazione e lo sono oggi dalla mondializzazione. In ciò è sempre viva una scommessa enorme per la democrazia politica, che tante correnti di sinistra e antirazziste che demonizzano l'etnicità, rischiano di trascurare.

I guasti della demonizzazione etnica.
La demonizzazione etnica è forte nella tradizione marxista francese, e parigina in particolare, a diversi livelli: dalla sottostima alla pura denuncia di principio l'etnia quasi sempre citata fra virgolette è stata sistematicamente supposta manipolata dal colonialismo, dall'imperialismo, dallo stalinismo, sempre da qualcosa di estraneo alle società di riferimento. Poco o tanto, generazioni di marxisti hanno vissuto con l'equazione "tribalismo = reazione" nella testa.
Ora questo approccio ostile, o per lo meno a ritroso, influisce pesantemente per un verso sull'analisi dei fenomeni etnici (cfr. infra), ma per un altro anche sui fenomeni stessi. Infatti, qualificando come reazionari i fenomeni etnici o tribali, li si respinge nelle braccia di reazionari autentici, non si permette a un normale operaio, socialista, di venirne a capo.
La sinistra francese dovrebbe riflettere sulla deriva dei nazionalismi corsi o basco. Ora l'etnicità, cosi come il tribalismo, può essere fattore di liberazione come altri movimenti sociali. Ma ciò dipende appunto dall'atteggiamento nei loro confronti delle correnti rivoluzionarie. Citerò alcuni esempi volutamente disparati. L'evoluzione attuale dell'ETA basca non era fatale. Nel 1973 (ancora sotto il franchismo) una corrente socialista (vicina al trotskymo) ne aveva preso la direzione. Il miglior collegamento fra nazionalismo e socialismo che ci si sarebbe potuto attendere tuttavia non si verificò, perché la nuova direzione adottò da subito un orientamento di fatto "spagnolista" sotto forma d'internazionalismo: la soluzione del problema basco sarebbe venuta dalla democratizzazione della Spagna, ma per contro, divenendo la Spagna socialista, senza dubbio l'indipendenza non sarebbe stata più,necessaria. L'ETA non era più un movimento espressione del nazionalismo basco, ma un partito socialista insediato nei paesi baschi.
Il risultato fu immediato: la vecchia direzione si scisse e riconquistò il grosso dei militanti, scivolando da quel momento verso un puro nazionalismo militarista. La corrente socialista proseguì la sua evoluzione, esemplificando bene il fallimento del legame fra nazionalismo e socialismo: la LKI (cioè, in basco, Lega comunista internazionalista) oggi non è più che un gruppuscolo. Anche l'esempio del dramma della Krajina dovrebbe fare riflettere. Questi territori "di confine", integrati alla Croazia nella Yugoslavia di Tito, erano abitati per il 70% da Serbi. Ciò nonostante la Croazia titoista non era uno Stato-nazione, ma lo "Stato dei Croati e dei Serbi di Croazia". Una volta indipendente la nuova Croazia si proclama croata, riducendo i Serbi nella condizione di minoranza e, in pratica, cacciandoli dall'esercito e dalla funzione pubblica. Tuttavia la sinistra democratica yugoslava ed europeo-occidentale non difese affatto il diritto della Krajina a votare la sua riunione alla Serbia, col pretesto che si sarebbero rimesse in causa le frontiere e che in Krajina vi erano anche dei non Serbi. Si contrappose disastrosamente la multi-etnicità all'autodeterminazione, ciò che fornì una base sociale ai militari guerrafondai estremisti, in tal modo promossi a soli difensori dell'identità serba di Krajina. I non-Serbi dei confini furono allora cacciati, mentre si sarebbe potuto difendere i loro diritti di minoranza molto meglio nel quadro del diritto all'autodeterminazione, piuttosto che contro questo diritto. In seguito l'offensiva militare croata sostenuta dagli Stati Uniti riconquistò la Krajina e la ripulì dei Serbi.

L'evoluzione dell'ANC in Africa del Sud è anche interessante. Per lungo tempo esso mantiene l'orientamento: "For the Nation to live, the Tribe must die" ("affinché la nazione viva, la tribù deve morire", n.d.t.). Ora contrariamente all'obbiettivo dichiarato, questo atteggiamento era fomentatore di tribalismo, dal momento che le "tribù" che si sentivano più prese di mira erano evidentemente quelle meno rappresentate in seno all'ANC, allora accusato di essere legato agli Xhosas. Il fututro dirà se sono state messe le basi di un nuovo approccio positivo, ma Nelson Mandela, diffondendo l'immagine della "Rainbow Nation" ("nazione arcobaleno", n.d.t.), ha fatto un passo in questo senso.
Tuttavia altrove in Africa, il rifiuto del riconoscimento delle identità si manifesta, per esempio, nell'approccio strettamente "sociale" della sinistra di Dakar all'analisi dell'endemica ribellione casamancese e diola: se la Casamancia si sviluppa (e vengono liberati i prigionieri politici), la guerriglia diola cesserà, si dice in questi ambienti. Ora, l'amministrazione francese non ha risolto la guerra d'Algeria installando gli scarichi fognari nella casbah: non può esserci trattamento puramente sociale dell'identità. A questo proposito, è chiaro il fallimento completo della Repubblica francese nella gestione della questione rom. Nella migliore delle ipotesi essa è un surrogato della politica adottata nei quartieri difficili o con gli immigrati: il "trattamento sociale" (limitato numero di allievi per classe nei quartieri dove si raccolgono, terreni attrezzati da municipalità comprensive, etc.). Ma queste comunità non hanno alcun diritto legale di farsi carico di sé stesse, di avere scuole (pubbliche e laiche) comunitarie, terreni di competenza di una "regione non territoriale" autogestita, il proprio collegio elettorale, etc. Vorrebbe dire ammettere l'esistenza di minoranze nazionali nel santuario giacobino che non accetta nessuna categoria intermedia fra lo Stato e l'individuo. Frattanto il risultato è che queste comunità, in situazione di declino di ogni spazio vivibile per l'economia nomade, sono respinte verso l'arte di arrangiarsi e i traffici di tutti i generi, ciò che evidentemente rafforza il razzismo di cui sono vittime e quello che esse stesse esprimono nei confronti dei "forzati" (i non-rom). Su un altro piano, si è potuto constatare che l'ostilità al trattato di Maastricht di una parte della sinistra e dell'estrema sinistra è stata fondata unicamente sulla sua denuncia in quanto disegno capitalista delle borghesie europee, mentre le stesse correnti affermano contemporaneamente che "in ogni caso la nazione è un concetto superato" e, così facendo, ignorano totalmente i problemi d'identità indotti dalla tendenza all'uniformità dell'Europa.

Eppure i grandi scioperi dell'autunno 1995 in Francia hanno bene evidenziato il nesso fra lotte di classe e lotta per la difesa etnico-nazionale: la difesa della Sicurezza sociale e degli altri servizi pubblici è stata percepita non solo da un punto di vista di classe, ma anche della difesa di un'idea consolidata della Francia a fronte delle conseguenze della mondializzazione nel passaggio rappresentato da Maastricht. Questo aspetto "nazionalista" delle lotte di classe nell'autunno 1995 in Francia fu anche contestato da certi intellettuali di sinistra, mentre era proprio l'incontro fra la coscienza di classe e la coscienza etnico-nazionale ad aver permesso l'ampiezza di quella mobilitazione sociale.
Infine, per chiudere questa serie di esempi, riprenderei le situazioni post-coloniali. Generalmente si sottostima l'aspetto culturale della colonizzazione: la denuncia contemporanea del neo-colonialismo stigmatizza soprattutto l'imperialismo come fenomeno di sfruttamento e di oppressione economica. Lo Stato neo-coloniale sarebbe quindi uno Stato che lavora in favore degli interessi materiali dei vecchi colonizzatori. Si dimentica che questo stesso Stato è semi-coloniale, nel senso di semi-francese, semi-portoghese, semi-inglese in ogni sua forma d'espressione.

Questa sottostima della natura culturale del neo-colonialismo ha molte conseguenze e, in particolare comporta una visione semplicistica delle correnti islamiche. Queste ultime sono tuttavia per un verso molto diverse (dai pazzi assassini alla sinistra democratica) e per un altro incomprensibili senza ricorrere all'intera storia della dipendenza, del fallimento degli Stati post-coloniali (nel mondo arabo spesso laici e con partiti unici "progressisti") e della chiusura della parentesi coloniale. Così il dramma algerino non è una lotta fra la civilizzazione e la barbarie, o fra Stato e "terroristi", ma una vera guerra civile. La sbrigativa assimilazione dell'islam politico al fascismo è del tutto inappropriata nelle condizioni storiche della periferia del capitalismo.

La guerra dei concetti.
Nel dibattito sulle identità è come essere all'interno delle identità stesse, ossia in un campo assai mutevole dove il senso delle parole cambia a seconda dei paesi e degli autori. Si noterà subito che la parola 'ethnicité' non si trova nei dizionari francesi! Ma 'ethnicité' in francese (o in portoghese 'etnicidade') non vuol dire esattamente la stessa cosa che 'ethnicity' in inglese, che esprime il complesso dei problemi delle razze, e l'americano 'ratian relations', impensabile in Francia. Allo stesso modo 'tribu' e 'tribalisme' in francese non vogliono affatto dire la stessa cosa che 'tribe' e 'tribalism' (molto vicini a 'ethnie' e 'ethnicité').
In Francia si nota che resta predominante l'antico significato della parola 'ethnie', con un senso quasi biologico, certamente culturale, ma dove la cultura è seconda natura e si trasmette col sangue, donde il suo aspetto "inassimilabile" per l'estrema destra. Le correnti di sinistra, denunciando, per esempio a proposito della Yugoslavia, l'etnicità con argomenti antirazzisti, dimostrano di mantenere la visione razziale dell'etnia e di ignorarla come comunità dell'immaginario. Così facendo rispondono con la negazione etnica al senso antico dell'etnia e si rivelano incapaci di un approccio dinamico ed efficace all'identità. Si è addirittura contro l'idea di etnia serba perché si è contro il razzismo dei capi guerrafondai serbi. Anche il termine nazione è molto cambiato. Mentre in Francia è strettamente legato al diritto del suolo, la parola deriva tuttavia dal latino nascor, nascere, quindi legato al sangue. Si conoscono anche gli svariati significati del concetto di nazionalismo. Tradizionalmente si è fatto differenza fra due nazionalismi, quello dei regimi oppressori (pangermanesimo, panslavismo, panetiopismo degli Amari, sionismo di Stato, etc.) e quello dei popoli oppressi (nazionalismo polacco, movimenti di liberazione del terzo mondo, etc.). Ma questa distinzione, per quanto mantenga la sua utilità, è del tutto insufficiente. Infatti il nazionalismo polacco del XIX secolo è l'espressione politica della nazione polacca esistente, è prodotto dal movimento sociale di quel paese. Il nazionalismo mozambicano non esprime alcuna nazione esistente, è il progetto di una piccola élite europeizzata, imposto al dibattito politico, e ha a che fare con il movimento sociale anticoloniale africano. Questo nazionalismo ('nazionismo', come ha sritto un collega mozambicano per esprimere questa "fabbrica di nazioni") è conseguentemente minoritario, elitario, all'interno di un movimento sociale anticoloniale di massa. Ma condanna tutte le espressioni etniche dell'anticolonialismo.
Si è anche parlato di "lotta di liberazione nazionale" in Africa: perché "nazionale"? Si tratta in realtà di una legittimante assimilazione alle lotte di liberazione nazionale in Europa nel XIX e all'inizio del XX secolo. Ma è anche una tardiva convenzione staliniana: in effetti, nella vulgata kruscioviana o brezneviana, in Africa si trattava in realtà di una tappa della rivoluzione democratico-borghese. Solo che, volendo stabilire dei legami con i movimenti anticoloniali, era più legittimante parlare di lotta di liberazione nazionale che di tappa della rivoluzione borghese. Il risultato è tuttavia che in Africa nera si è assegnato valore di vittoriose formazioni di nazioni a ciò che fu la creazione di stati post-coloniali contro le nazioni e le etnie africane esistenti. Queste considerazioni non rimettono affatto in causa la legittimità delle lotte anticoloniali: vogliono solo puntualizzare che i movimenti anticoloniali in sé non erano portatori della nascita di nazioni nel quadro immutato delle frontiere coloniali. Per uscire dall'impasse occorre imboccare risolutamente la strada di una visione soggettiva dell'etnia, quella che del resto è anche di Ernest Renan (quando non viene falsata), basata sui sentimenti reali delle genti. In questo modo non è un'etnia atemporale e primordiale che definisce l'etnicità, bensì l'etnicità del giorno d'oggi che delinea l'etnia. La formulazione marxista di "idea socialmente organizzata" è significativa a questo riguardo. L'etnia sarà dunque, a un certo momento, una cristallizzazione identitaria totalizzante. Totalizzante ­per niente totalitaria­ nella misura in cui essa ha influenza sulla totalità degli aspetti della vita, quali che siano gli ambienti sociali e purché non dipendano, contrariamente alla coscienza di classe, da categorie orizzontali.

L'etnia è per definizione interclassista: il che la rende peraltro sospetta a svariate correnti marxiste. Ma la visione "soggettiva", che faccio mia, non significa per niente che l'etnia galleggi a mezz'aria, rendendo impossibile ogni analisi materialista: essa è il risultato del confronto fra i rapporti sociali d'oggi e la memorizzazione culturale dei rapporti sociali del passato. In questo senso essa è vicina all'identità religiosa o di casta, ma non riposa sugli stessi livelli dell'immaginario. Tuttavia occorre riprendere questa questione dell'immaginario. In realtà, se questo concetto mi sembra indispensabile, esso è spesso frainteso, specialmente nei testi in lingua francese. Vi si parla di "comunità immaginarie", di "invenzione della tradizione" come "illusione identitaria", cosa che si spiega perfettamente se e solo si dà a "immaginario" il significato di "riguardante l'immaginario" e non quello di "immaginifico"; se e solo si smette di confondere l'immaginario con l'inesistente, cosa che hanno fatto e continuano a fare numerose correnti marxiste, con il concetto di "falsa coscienza" e altre giacobinate. Eppure gli stessi che parlano di "invenzione della tradizione" parlano del ruolo dello Stato, cioè delle élites, nell' "invenzione della nazione", che sembrerebbe un fatto ben reale. Ma può un'élite inventare una nazione senza l'esistenza almeno di un substrato identitario? Un esempio di questo problema è la polemica tutta francese sulla "creazione della Francia" in occasione delle prossime commemorazioni del 1989 ("tesi": il bicentenario della Rivoluzione) e 1996 ("antitesi": il millecinquecentesimo anniversario del battesimo di Clodoveo). Le due date sono, la prima per la sinistra, la seconda per la destra, quelle presunte per la "creazione della Francia".
Beninteso, l'una e l'altra sono fuori tema poiché una nazione non è mai "creata", ma è un lento processo storico di cristallizzazione identitaria. Sarebbe lo stesso che cercare la "data" della "creazione" della lingua francese. Quando il re Francesco I promulga il famoso editto di Villers-Cotteret nel 1539 che fa del francese la lingua ufficiale dello Stato, "crea" la nazione francese o ratifica il fatto che essa già esiste? In realtà egli si rendeva pragmaticamente conto che era più pratico che i testi dello Stato fossero in francese, perché una parte del suo regno e la maggioranza dei suoi gruppi dirigenti parlavano quella lingua: in altri termini si era in pieno processo di espansione della nazione Francia in seno al territorio del regno. Questa espansione ha proseguito fino al nostro secolo. La difficoltà di comprensione di questo processo e la ricerca di una "data della creazione" rivelano in realtà la confusione paradigmatica fra Stato e nazione, e in particolare fra Stato e Stato-nazione, o fra cittadinanza e nazionalità. Questa concezione mira a "oggettivare" la nazione, valutandola col metro dello Stato e non dei sentimenti collettivi. Viene allora negato il valore culturale dell'identità, cioè del valore etnico, della nazione per non farne altro che un'identità politica. Con l'occasione si nega anche il rapporto storico fra identità etnica e espressione politica del movimento sociale.

Per esempio, nel corso di una spiacevole polemica, Samir Amin mi ha rimproverato di vedere nella rivolta kikuyu dei Mau-Mau nel Kenia (anni cinquanta) una rivolta etnica, mentre secondo lui si trattava di una rivolta di "un popolo di contadini contro il colonialismo che li aveva spogliati". L'equivoco di S. Amin va benissimo per la dimostrazione. In realtà egli ha pienamente ragione nella sua affermazione e pienamente torto nella sua opposizione: si trattava chiaramente di una rivolta di contadini depredati delle loro terre (radice sociale), ma che si espresse secondo i modi d'identificazione disponibili e da tutti conosciuti, etnici in questo caso. Per cui questa rivolta non ha generato la "Lega del Proletariato rurale del Kenia" che avrebbero auspicato le élites terzo-mondiste marxisteggianti (e a mio avviso poco marxiste), pensando che la coscienza di classe avrebbe rimpiazzato ogni altra forma d'identità, ma un movimento sociale generatosi a livello identitario, guidato dalla difensa dall'identità etnica kikuyu e dai miti della foresta (1). La radice è limpidamente sociale, ma è l'etnicità che ha permesso la mobilitazione politica: distrutti dal colonialismo britannico i fondamenti dell'economia contadina, la comunità si è difesa in quanto tale.

Se si fa una chiara distinzione fra Stato e nazione, mettendo al centro dell'analisi i sentimenti reali dei popoli, si comprende facilmente che non c'è alcuna differenza concettuale fra nazione e etnia, malgrado l'evidente e frequente gerarchizzazione fra le due. Occorre ritornare su questa gerarchizzazione semantica prima di chiedersi se il mantenimento di due parole distinte (nazione, etnia) può risultare utile. Si ritiene normalmente che l'etnia sia più "piccola" della nazione. Questo aspetto cade al primo esame, essendo l'estensione della nazione danese infinitamente più ristretta di quella dell'etnia Macua (nord Mozambico). Si ritiene correntemente che l'etnia sarebbe "culturale" e la nazione "politica". Così la nazione francese sarebbe "politica e di cittadinanza" e la nazione tedesca "etnica e culturale". Ciò è evidentemente legato alla confusione già ricordata fra nazione e Stato e riguarda più le teorie sulla nazione in questi due paesi che i sentimenti nazionali dei popoli, perfettamente comparabili. Allo stesso modo una nazione non ha sempre bisogno d'espressione politica. Così l'antica nazione africana Congo ­i Portoghesi ne rilevano la forte identità fin dal loro arrivo nell'estuario del fiume Congo nel XV secolo- ha avuto una forte espressione politica nel 1975, facendo blocco dietro il FLNA. In un contesto sconvolto, in occasione delle elezioni angolane del 1992 si è visto questa nazione dividersi completalmente in svariate formazioni (anche formazioni dominate da altri gruppi etnici) e non avere più alcuna peculiare espressione politica. Era scomparsa in quanto nazione? Nient'affatto: semplicemente non aveva bisogno, in quel momento, di esprimersi politicamente per assicurare la sopravvivenza della propria identità.
Al contrario si possono vedere delle cristallizzazioni etniche instabili prendere una forte espressione politica: il grande insieme etnico-linguistico Macua non aveva alcuna coscienza comunitaria nel 1974. Dopo vent'anni di potere marxisteggiante "nazionalista", e in realtà sudista e ciangano (etnia del sud), questa identificazione è evidente e l'espressione politica è stata netta, con dei riferimenti impressionanti all'antica ribellione.

Molti antropologi e storici notano a ragione che la rivendicazione delle "origini", nel dibattito etnico, non tiene il passo della ricerca e che dominano le "logiche ibride" (indovinata espressione di Jean-Loup Amselle). Ma partendo da questa considerazione l'etnia primordiale non esiste essi tendono a deligittimare le espressioni politiche attuali: poiché l'etnia non è in realtà che un percorso all'interno di continui rimescolamenti, la rivendicazione di una eventuale espressione politica non potrebbe discendere che da minipolazioni. Ora poco importa sapere se gli Zulu o gli Ebrei hanno un'origine lontana o vicina, legittima o meno: se qualcuno si riconosce Zulu o Ebreo, è oggi Zulu o ebreo ed è controproduttivo rilevarne l'eventuale espressione politica. Infatti, se è vero che storicamente l'identità è un percorso e non una condizione, non è meno vero che gli individui che ne sono portatori la percepiscono, a un dato momento, come una condizione, e questo ha effetti politici. L'etnia, infine, sarebbe il prodotto dell'umanità emarginata, dei reietti della mondializzazione. È l'idea secondo la quale i popoli felici non hanno etnia, in altri termini una visione precaria dell'etnicità. Allora non si capisce più niente dell'etnicità piuttosto "felice" di Catalani, Scozzesi, Fiamminghi e perché no Valloni! Infine, poiché la nazione è una caratteristica dei paesi protagonisti della storia del XIX e XX secolo, l'etnia sarebbe una sopravvivenza del passato e le guerre inter-etniche attuali eredità delle rigidità staliniane o post-coloniali. Queste rigidità fanno evidentemente parte dei contesti storici da considerare, ma si nega così che possano esserci dei processi di produzione etnico-nazionale attualmente in corso e che ciò sia in realtà una tendenza costante della dialettica dei movimenti sociali.

Allora, si deve riunificare le due parole nazione ed etnia? Concettualmente di sicuro, e la nazione Francia che non vuol dire tutti gli abitanti e nemmeno tutti i cittadini della Repubblica francese è un'etnia allo stesso titolo della nazione Zulu. Ma da un punto di vista storico si possono individuare delle sfumature. In effetti, in seno alla categoria generale "etnicità", si hanno fenomeni di cristallizzazione di durata e intensità variabile. La storia ha evidenziato l'intensità e la durata delle cristallizzazioni identitarie polacche o congolesi. Viceversa la cristallizzazione identitaria macua è recente e lo storico non può che aspettare per capire. In altre parole è l'etnia che dovrà essere il concetto generale, e la nazione un caso particolare di esistenza dell'etnia. Peraltro la difesa del concetto di etnia non dovrà far dimenticare che l'identità raramente è unica: si può essere un proletario senza patria, ma anche un basco che ne ha una e che d'altro canto è cattolico. Questo Basco può sentire di far parte della nazione basca, ma anche sentirsi parte della nazione francese o spagnola. Una nazione può essere una nazione di nazioni. La nazione di nazioni è differente dalla federazione di nazioni nel senso che essa è anche un'identità etnica e non una costruzione politica. Il miglior esempio mi sembra trovarsi in Gran Bretagna. La storia delle nazioni inglese, gallese e scozzese ha prodotto un gioco d'incastri verso l'alto che, senza per niente compromettere l'intensità delle cristallizzazioni identitarie precedenti, ha dato luogo ad una nazione britannica. Continuando a distinguere attentamente la nazione la comunità immaginaria e la struttura politica lo Stato, per esempio si comprende bene che non c'è affatto contraddizione fra mondializzazione e sopravvivenza delle nazioni. La mondializzazione come ieri la colonizzazione rimescola le identità ma non le fa scomparire. Possono manifestarsi livelli identitari più ampi (una futura nazione Europa), ma questo non significa la sparizione dei livelli più circoscritti (nazione Francia), che possono anche essere rivitalizzati (la Guascogna di fronte a Parigi e Bruxelles). Un grado di etnicità non scaccia l'altro e non c'è un'evoluzione lineare dell'umanità dal "più piccolo antico" verso il "più grande moderno", verso la a-nazione mondiale. Al contrario la nazione non è che una delle possibilità storiche.

Gli Stati senza nazione in Africa.
Il nazionalismo programmatico, già ricordato, ha fatto confondere il nazionalismo di Stato con la supposta esistenza dello Stato-nazione in Africa. Ciò non è stato soltanto un'ideologia giacobina applicata all'Africa, ma anche una quotidiana politica anti-etnica: con l'alfabetizzazione unicamente nella lingua coloniale (raramente in una, ma in quel caso una sola, lingua aficana), con la nomina di funzionari incapaci di parlare la lingua locale, con confini regionali senza rapporto con le realtà etniche, con un'iper-concentrazione degli investimenti nella capitale, etc. Ora, alla periferia del mondo, lo Stato non è socialmente propulsivo e non dà niente in cambio del suo anti-etnismo, come aveva potuto fare una Terza Repubblica francese. Ciò è aggravato dal fatto che questo totale anti-etnismo dello Stato si combina con pratiche etnico-clientelari dei settori al potere, che favoriscono il più delle volte l'etnia della capitale (o in ogni caso l'etnia del capo dello Stato. Tutto ciò provoca reazioni di difesa anti-statale. Per questo io ripeto sempre che Senghor "In Africa lo Stato ha anticipato la nazione" si è sbagliato: in Africa il nazionalismo di Stato non costruisce la nazione, ma distrugge lo Stato. Peraltro la distinzione netta della nazione (aspetto particolare dell'etnia) dallo Stato comporta anche di rendersi conto che l'esistenza di una nazione non implica, di per sé stessa, l'esistenza o l'esigenza di uno Stato, anche se questa nazione è chiaramente definita territorialmente. Se una nazione vive bene senza uno Stato proprio, non ha alcuna ragione di rivendicarlo. L'esempio della nazione Kongo è ancora una volta utile: l'area d'insediamento dei Bakongo è oggi divisa in quattro territori: il sud della Repubblica del Cango (Brazaville), l'ovest della Repubblica democratica del Cango (ex-Zaïre), le provincie settentrionali dell'Angola e l'enclave (riunito all'Angola) di Cabinda. C'è un movimento indipendentista cabindese e c'è stata una rivendicazione per ricostituire il regno Kongo nell'Angola settentrionale, ma non c'è mai stata una reale rivendicazione pan-etnica kongo per uno Stato-nazione riunificatore, rimettendo in causa le frontiere coloniali. Questo può venire in seguito e dipenderà massimamente dai contesti. Al momento c'è solo da prendere atto che i Bakongo utilizzano la frontiera come una risorsa economica, e quindi la considerano più come una "saldatura" che come una divisione.
Infine, beninteso, riconoscere le identità non statali non vuol dire per niente schedare gli individui. L'appartenenza a una collettività attiene ad un sentimento individualmente espresso. Anche in un sistema costituzionale che tenesse conto dell'etnicità (cfr. infra), non c'è alcuna ragione di registrare l'etnia sulla carta d'identità. Detto questo, chi vede in questa prassi una delle cause del dramma ruandese si sbaglia. Ci sono ben altri modi di riconoscere l'Altro, come la prova della "R" a Luanda, dove gruppi armati davano la caccia ai Bakongo originari dell Zaïre e non di fonia portoghese, quindi incapaci di pronunciare correttamente il termine portoghese 'arroz' (riso), e li massacravano.

L'etnicità nella mondializzazione.
Se si rifiuta la concezione marginalizzante dell'etnicità, ci si accorgerà che essa può rappresentare una nuova scommessa rivoluzionaria. Troppo spesso si parla della mondializzazione come se si trattasse di un fenomeno "oggettivo" e neutro. Invece la mondializzazione, pur se oggi si accelera, è un fenomeno che viene da lontano e la sua forma attuale è quella della dittatura mondiale del capitale finanziario. Solo i capitali viaggiano alla velocità della luce, mentre le merci restano tributarie dei mezzi fisici e i movimenti umani sono sempre più costretti. Si ha dunque una contraddizione crescente, e che può diventare esplosiva, fra i movimenti di capitali e quelli di uomini. Per il capitalismo finanziario rendere il mondo uniforme (che non vuol dire renderlo aperto) sarebbe, globalmente e tendenzialmente, la cosa più pratica ­anche se la speculazione utilizza evidentemente le disparità, finché esistono­ per far cadere tutti gli (ultimi) ostacoli legali ai movimenti monetari e per imbrigliare i movimenti sociali che emergono in difesa delle conquiste storicamente ottenute dalle nazioni. Però, di fronte a questa situazione, le identità non sono docilmente a disposizione della dittatura mondiale. Da qui, se (e dico: se) le correnti progressiste sono capaci d'intervenire nella tendenza delle identità stesse, esse possono acquisire un nuovo potenziale di sovvertimento. Allora, certamente, i percorsi per i quali potrà esprimersi l'etnicità in un quadro di democrazia politica varieranno enormemente secondo i contesti.
Inoltre occorre diffidare di certi discorsi che fanno appello (nel testo registrato manca la fine del periodo, n.d.t.).
In Africa certe élites parlano molto di federalismo, che sarebbe in realtà una pessima soluzione: prima di tutto esso presupporrebbe la possibilità di far esistere più livelli di Stato, mentre si è lontani dal riuscirne a farne esistere uno solo; secondariamente l'eterogenietà etnica delle regioni da federare riproporrebbe, al loro interno, gli stessi problemi di quelli a scala di tutta la Repubblica e potrebbe provocare delle azioni di pulizia etnica da parte di gruppi locali tesi ad assicurarsi l'egemonia; in terzo luogo non è attivo alcun movimento popolare in tal senso, perché solo gruppi elitari fanno di questa rivendicazione una forma di lotta contro lo Stato centrale o per attivare più facilmente reti clientelari.
In altri termini, la territorializzazione politica dell'etnicità è molto difficile, quindi molto pericolosa da mettere in atto, per il semplice fatto che la distribuzione territoriale delle etnie realmente esistenti somiglia più a un puzzle croato-bosniaco che a una spazio omogeneo.
Un altro modello in discussione è quello, di origine anglo-sassone, del "diritto dei gruppi", che, spinto alle estreme conseguenze, approda a un federalismo giuridico: ogni comunità, qualunque sia la sua localizzazione territoriale, è dotata di un Diritto particolare e di proprie istituzioni. l'Impero ottomano, ai suoi tempi, aveva parzialmente funzionato in tal modo. In realtà questo diritto dei gruppi è impraticabile per almeno due ragioni: da una parte crea conflitti fra i gruppi nella vita economica, sociale e privata (proprietà comune della terra, difficoltà dei matrimoni misti, etc.); da un'altra gli individui non sono soltanto membri di questa o quella comunità, ma anche cittadini della loro Repubblica: nascono allora conflitti permanenti fra il diritto delle comunità e il diritto della Repubblica, a seconda che il singolo cittadino abbia interesse a utilizzare l'uno o l'altro (3). Ne discende dunque che il ricorso alla legge generale ­la stessa legge per tutti­ risulta la migliore salvaguardia delle identità. In Africa nera la legge generale potrebbe prevedere un'alfabetizzazione nella lingua materna e non in quella coloniale, imporre che i funzionari nominati in un certo luogo parlino almeno una delle lingue locali, ridisegnare i confini regionali facendoli meglio corrispondere alle realtà etniche (anche se non si otterrà mai l'omogeneità), organizzare le elezioni in modo che la metà dei deputati siano eletti sulla base di collegi etnici (definiti con semplice censimento elettorale sulla base di un numero minimo di iscritti, senza menzione sulla carta d'identità), ciò che indurrebbe nell'Assemblea legislativa una "attenzione" per i problemi etnici e delle comunità senza che peraltro sia assegnato alcun potere specifico ai collegi etnici, etc. Tutto questo merita riflessione e analisi concreta nelle condizioni reali. L'idea è di affermare il diritto alla differenza contro la differenza del diritto. La ricerca delle scienze sociali sulle questioni identitarie, soprattutto la ricerca politica, è rimasta molto segnata dal paradigma statale, unico barometro di legittimità autorizzato. Ne risulta la sopravvivenza di un'ideologia di quello che chiamerei il "linearismo" dell'evoluzione storica, dal più piccolo antico al più grande contemporaneo e futuro, respingendo fuori delle categorie della modernità le rivendicazioni delle nazioni piccole e recenti, stigmatizzandole come arcaismi, mentre si tratta della rivendicazione della modernità attraverso l'identità. Ne è risultato anche, soprattutto nella tradizione marxista e in particolare bolscevica (compresa la sua eredità trotskista), una "gradualità" che mette sempre insieme rivoluzione democratico-borghese e rivoluzione nazionale, il che significa circoscrivere la questione nazionale ad un aspetto della sola rivoluzione borghese invece di farne un momento possibile di tutte le rivoluzioni storicamente concepibili, in particolare della rivoluzione socialista. Conclusa la tappa delle rivoluzioni borghesi, lo sarebbe anche quella delle rivoluzioni nazionali, tranne che per i paesi che hanno subito la colonizzazione. Ciò ha comportato, e secondo me comporta tuttora, una sottovalutazione sistematica delle correnti marxiste ­ che si traduce in denuncia ­ per le lotte a carattere nazionale in Europa (4). Torna in mente un giovane Engels e i suoi infelici argomenti sulle "piccole nazioni arcaiche e reazionarie". Solo la liberazione di classe risolverebbe automaticamente gli altri problemi (5).

Si è fatta troppa confusione fra l'internazionalismo (inter-nazionalismo) e un semplice antinazionalismo, mentre altro non è che solidarietà dei nazionalismi. Si è troppo confuso l'internazionalismo proletario con un semplice interclassismo proletario, mentre non può trattarsi che della solidarietà fra nazionalismi di cui il movimento operaio ha preso la direzione
. Di fronte alla mondializzazione nei suoi caratteri attuali ­la tendenza all'uniformizzazione della dittatura mondiale del capitale finanziario­ il nazionalismo puro dei particolaristi conduce in un vicolo cieco. Ma mi sembra che lo faccia altrettanto l'universalismo astratto di un certo marxismo tendente all'economicismo, che gonfia il significato della coscienza di classe a scapito delle altre identità di cui è portatore il movimento sociale. Non dovremmo fare nostra la massima dello scrittore portoghese Miguel Torga: 'L'universale è il locale a meno dei muri'?


(1) Su questa polemica cfr.:
M. Cahen Samir Amin à l'assaut des ethnies.
S. Amin e J. Vansy L'ethnie à l'assaut des nations, Yougoslavie et Ethiopie, Paris, L'Harmattan, 1994, p. 155, in 'Histoire et Anthropologie', Strasbourg,Éditions Histoire et Anthropologie/Association des Taverniers cosmopolites, n°11, luglio-dicembre 1955, pp. 126-134.
S. Amin Le délire ethniciste, H&A, n°12, gennaio-giugno 1966, pp. 130-131.
M. Cahen Nationalismes,ethnicités, démocratie: pour une polémique sérieuse, H&A, n°13, luglio-dicembre 1966, pp. 126-134
S. Amin Le délire ethniciste,suite et fin, pp. 135-136.
Per una riflessione interessante sull'identità etnica Mau-Mau vedere anche:
John Lonsdale Ethnicité morale et tribalisme politique, Politique Africaine, Paris, Karthala, marzo 1996, pp. 98-115.

(2) Questo testo non si occupa specificamente della questione degli Hutu e Tutsi, non solamente perché occorrerebe dedicarle un intero capitolo, ma soprattutto perché essa non mi sembra riguardare l'etnicità, bensì un fenomeno massificato di casta. Categorie di persone con la stessa lingua, la stessa religione, gli stessi raggruppamenti politici, etc. fanno a pieno titolo parte della stessa etno-nazione storicamente creatasi attorno a migrazioni antiche. Per contro le immagini del loro inserimento sociale erano diverse: agricoltore o considerato tale, allevatore o considerato tale, etc. Si tratta quindi d'identità che, nella polemica storiografica sul problema, sono state, come altrove l'etnicità, spesso negate (per esempio dalla sinistra vallona) per venire catalogate fra le manipolazioni coloniali e cattoliche (preferibilmente fiamminghe). Ma non per questo non si tratta della tragica scissione fra due caste in seno alla stessa etnia/nazione e non del contrasto di due "società compiute" che avrebbero costituito due distinte etnie.

(3) Conflitti di questo tipo sono frequenti negli Stati Uniti e in Canada in funzione dell'azione propositiva (discriminazione positiva) o della politica delle "minoranze visibili".

(4) (manca nel testo l'inizio del periodo, n.d.t.) dall'ostilità di Rosa Luxembourg all'indipendenza polacca alla condanna del PCF di ogni nazionalismo corso, passando per la difficoltà delle sinistre belghe ad affrontare i problemi delle comunità o, viceversa, la tragica opposizione della sinistra democratica tedesco-orientale alla riunificazione della nazione germanica, da quel momento lasciata alla destra.

(5) Si noterà con interesse che un ragionamento dello stesso tipo è stato a lungo fatto a proposito delle lotte delle donne. Numerosi marxisti hanno negato la necessaria autonomia di questa lotta, vista come semplice sottoprodotto della lotta di classe.

(*) Conversazione tenuta in occasione del seminario sul centesimo anniversario del Bund, organizzato nel novembre 1997 dall'Unione dei progressisti ebrei di Bruxelles
 (**) Michel Cahen è ricercatore CNRS presso il Centro studi per l'Africa nera di Bordeaux, redattore della rivista 'Lusotopie/Enjeux contemporains dans les espaces lusophones'.