Marx e la questione nazionale:
dibattito.
"Non
possiamo considerarci marxisti senza sostenere in Francia il diritto all'autodeterminazione
dei Kanaki della Nuova Caledonia, in Israele quello dei Palestinesi, in ex-Jugoslavia
quello degli Albanesi del Kosovo, in Iran, Irak, Siria e Turchia quello dei
Kurdi". Michael Löwy propone un interessante approccio critico alla
teoria di Marx ed Engels sulla questione nazionale. Traduzione dal francese
di Andrea Vigni e Lucia Bisetti. Aprile 2001.
1. La maggior parte
degli storici (marxisti o no) sottolineano l'incompletezza e i limiti degli
scritti di Marx e Engels sulla questione nazionale. La critica della teoria
di Engels sulle "nazioni senza storia" una critica formulata
per la prima volta all'inizio del secolo da Otto Bauer, nell'opera monumentale
Die Nationalitäutenfrage und die Sozialdemokratie (1907), poi sviluppata
in modo più sistematico e rigoroso dallo storico marxista ucraino Roman
Roldolsky dopo la Seconda Guerra mondiale è oggi definitivamente
acquisita dalla letteratura marxista contemporanea sulla questione nazionale.
In generale, gli storici marxisti tendono a considerare la questione nazionale
come una delle principali lacune della costruzione teorica di Marx e Engels
e hanno analizzato in particolare il concetto di "popoli senza storia"
(geschichtlosen Völker) in quanto contraddittorio alla base con
i fondamenti del marxismo.
Tuttavia, opponendosi a questo punto di vista, Ephraim Nimni, un ricercatore
marxista nord-americano noto per i suoi lavori sulla questione nazionale, ritiene
che "Marx e Engels hanno una visione coerente della questione nazionale,
anche se nel loro corpus non esiste un'opera specifica che esponga le loro teorie
in proposito in modo diretto e esplicito". Secondo lui, questa coerenza
si basa su tre "paradigmi" fondamentali del materialismo storico:
1° una teoria dell'evoluzione, cioè una visione della storia come
"una successione di trasformazioni successive attraverso tappe universali
e gerarchicamente definite"; 2° una teoria determinista cha analizza
per mezzo di una specie di "riduzionismo economico"- tutte le
modificazioni sociali come risultato automatico della crescita delle forze produttive;
3° infine, una visione "eurocentrica" del mondo che sarebbe conseguenza
necessaria e inevitabile dei due primi "parametri teorici". Con queste
premesse, il lettore potrebbe certamente pensare che questo studio miri ad una
critica generale del marxismo; al contrario, alla fine dell'esposizione, ci
si rende conto che Ephraim Nimni si ritiene marxista e si attribuisce un "materialismo
storico" depurato dall'"eredità fuorviante del marxismo
europeo". Comprendiamo le lodevoli intenzioni di Nimni, ma troviamo
la sua attitudine assai contraddittoria. Se noi fossimo convinti che la teoria
di Marx si fonda su una forma di evoluzionismo e di determinismo economico che
sbocca inevitabilmente in una visione del mondo eurocentrica, saremmo certamente
antimarxisti. In realtà, i paradigmi del saggio di Nimni rinviano ad
una caricatura del pensiero di Marx e sarebbero più adeguati per caratterizzare
le Weltanschauungen materialiste molto differenti elaborate da Kautsky,
Plekhanov e Boukharine. Diversi scritti di Marx ed Engels, in primo luogo il
Manifesto del partito comunista, contengono sicuramente aspetti di tendenze
evoluzioniste o economico-deterministe nell'interpretazione della storia. Tuttavia,
è totalmente sbagliato ridurre l'insieme del pensiero di Marx a una visione
della società e della storia risultante dalle leggi naturali dello sviluppo
delle forze produttive, o a una serie di tappe ricalcate sul modello europeo.
Alcune osservazioni critiche di Nimni sono effettivamente pertinenti per
esempio, quando constata che Marx ed Engels non avevano compreso i movimenti
nazionalisti che non erano né desiderosi né in grado di stabilire
uno Stato nazionale -, tuttavia la sua analisi resta troppo spesso estremamente
unilaterale, esegue generalizzazioni a partire da passaggi isolati e tende qualche
volta a presentare una caricatura che ha ben poca somiglianza con le idee di
Marx.
2. Alcuni passaggi del Manifesto del partito comunista possono essere
letti come autentiche apologie del lavoro storico del capitalismo come distruttore
dell'ordine feudale e, in generale di tutte le forme sociali arcaiche. Marx
ed Engels attribuivano un carattere "rivoluzionario" al capitalismo
in sviluppo all'esterno delle frontiere dell'Europa, in un periodo in cui essi
consideravano che le condizioni per una rivoluzione socialista fossero mature
a livello di continente europeo. In India, la Gran Bretagna avrebbe così
da un lato distrutto la vecchia società e dall'altro asicuato i presupposti
di uno sviluppo sociale moderno grazie all'industrializzazione del paese. Nel
1853, Marx definiva l'Inghilterra, forza motrice di questo cambiamento sociale,
come "lo strumento inconsapevole della Storia". Nello stesso
senso, Engels approvava l'annessione della California da parte degli Stati Uniti
poiché, secondo la sua spiegazione "le industrie Yankees sarebbero
più adeguate delle Messicane indolenti" per assicurare lo sviluppo
economico della regione. Nel 1848, Engels salutava ugualmente come sottolinea
Nimni la conquista francese dell'Algeria qualificandola come "un
avvenimento felice per il progresso della civilizzazione". Evidentemente,
è importante criticare e rifiutare queste dichiarazioni, ma sarebbe sbagliato
e schematico considerare solo questi passaggi. In realtà, Marx ed Engels
hanno spesso denunciato la mistificazione, profondamente radicata nella cultura
eurocentrica della loro epoca e nell'ideologia imperialista, insita nel presentare
le conquiste coloniali come "missioni civilizzatrici". Essi consideravano
il capitalismo come un sistema che "trasforma ogni progresso economico
in una calamità sociale". Erano affascinati dall'estensione
del capitalismo a scala mondiale, ma contemporaneamente denunciavano le modalità
barbare e violente con cui tale processo si realizzava. Per ciò che concerne
la colonizzazione britannica dell'India, Marx comparava il "progresso
umano" a un "terrificante idolo pagano che non desidera bere il
nettare altro che nei crani degli assassinati". Nel 1857, in un articolo
sull'Algeria scritto per l' Americana Encyclopedia, Engels denunciava
"gli orrori e la brutalità" della "guerra barbara"
condotta dai francesi contro "le tribù arabe e kabile per le
quali l'indipendenza è un bene prezioso e l'odio per la dominazione straniera
è l'imperativo primario della loro vita". Nel 1861 Marx paralva
dell'intervento europeo in Messico come di una delle "più mostruose
imprese degli annali della storia internazionale". Queste dichiarazioni,
cui si può aggiungere il sostegno ai cinesi nel quadro delle "guerre
dell'oppio" contro gli Inglesi, non hanno caratteristiche tipicamente eurocentriche!
Allo stesso modo, l'interpretazione evoluzionista di Marx non può essere
accettata poiché essa schematizza e impoverisce la complessità
e la ricchezza del suo pensiero. Nimni riduce questa ricchezza a una celebre
citazione dal Capitale che è divenuta un dogma del marxismo positivista
della II Internazionale: "Il paese più sviluppato industrialmente
mostra al paese meno sviluppato l'immagine del suo proprio futuro".
All'inizio di questo secolo, l'"ortodossia" kautkista racchiudeva
il pensiero di Marx nella gabbia d'acciaio dell'interpretazione evoluzionista.
Il pensiero di Marx era a tal punto identificato con le interpretazioni social-darwiniste
che il giovane Gramsci salutò la rivoluzione russa del 1917 come una
"rivoluzione contro il Capitale". Tuttavia, questo passaggio
in quanto tale non riflette affatto la totalità del pensiero di Marx.
Quest'ultimo non ha mai preteso di trasporre meccanicamente a tutti i paesi
le differenti tappe dello sviluppo dell'Europa occidentale comunismo primitivo,
schiavismo, feudalesimo e capitalismo. E i suoi scritti sulle società
pre-capitaliste costituiscono ipotesi per future ricerche piuttosto che incontestabili
conclusioni. Nel caso della Russia, Marx considerava nel 1881-1882 la possibilità
di una transizione diretta dell' obschina (la comunità contadina
russa) al comunismo, senza dover passare attraverso tutte le "terribili
vicissitudini" del capitalismo, a condizione che una rivoluzione contadina
in Russia fosse accompagnata da una rivoluzione socialista in Europa. In una
lettera inviata nel 1877 alla rivista russa Otchestvenie Zapiski, Marx
metteva in guardia i lettori contro il pericolo di trasformare la sua "traccia
della genesi del capitalismo in Europa occidentale" in una "teoria
storico-filosofica dell'avanzata generale fatalmente valida per tutti i popoli,
qualunque sia la situazione nella quale essi si trovino". Nel 1881,
riconfermava questa preoccupazione in una celebre lettera a Vera Zassoulitch,
nella quale presentava la comunità rurale tradizionale come il "punto
di partenza per la rigenerazione sociale della Russia". I marxisti
russi, guidati da Plekhanov per il quale l'idea di "saltare" lo stadio
capitalista sembrava un'eresia populista, nascosero scrupolosamente questa lettera
(non fu trovata e pubblicata che nel 1911 da Riazanov). E questo non è
che un esempio delle tendenze anti-evoluzioniste meccaniciste presenti negli
scritti di Marx.
3. Marx ed Engels hanno formulato un'idea piuttosto che una teoria
compiuta della questione nazionale. Ciò rappresenta un limite della loro
elaborazione teorica, ma nello stesso tempo una garanzia contro i pericoli di
una definizione troppo rigida e normativa, come sono quelle proposte da Kautsky
(la nazione come entità economico-linguistico-territoriale) o da Stalin
(la nazione come comunità economica, territoriale, linguistica, culturale
e psicologica). Marx ed Engels, due rivoluzionari tedeschi, vivevano in un'epoca
ancora segnata dalla formazione di parecchi Stati nazionali (Germania, Italia,
Polonia, Ungheria) e questo dato ha fortemente influenzato la loro concezione.
A partire dai loro scritti, possiamo individuare un concetto di nazione che
rimanda a una formazione storica legata all'ascesa del modo di produzione
capitalista e cristallizzato in una sovrastruttura politica: lo Stato-nazione.
Ma questo concetto non è stato mai sviluppato in modo sistematico. Lo
stato incompiuto della loro analisi è probabilmente legato alla convinzione
di vivere in un'epoca dominata dal cosmopolitismo borghese e dall'avvento, in
un futuro prossimo, di un socialismo che avrebbe trasceso i conflitti nazionali.
In un'opera come il Manifesto comunista, il cosmopolitismo e l'internazionalismo
tendono a fondersi. L'internazionalizzazione del modo di produzione capitalista
e la formazione di un mercato a scala mondiale sono concepiti come un processo
che "ha reso cosmopolita (kosmopolitisch) la produzione e il
consumo dell'insieme dei paesi", stabilendo un' "interdipendenza
universale tra tutte le nazioni" e creando una "letteratura
mondiale". Nel quadro di questa trasformazione ininterrotta della vita
sociale, il capitalismo sottometterebbe "la campagna alla città,
le nazioni barbare e semi-barbare a quelle civilizzate, le popolazioni contadine
a quelle borghesi, l'Oriente all'Occidente". Questa descrizione piena
di ammirazione per il ruolo rivoluzionario del modo di produzione capitalista,
considerato come un sistema economico tendente quotidianamente ad approfondire
l'unificazione materiale e "spirituale" del mondo e a eliminare le
basi stesse dei conflitti nazionali, ha sicuramente condotto gli autori del
Manifesto a trascurare l'importanza della questione nazionale. Questa
sottostima, che contiene senza alcun dubbio qualche elemento di riduzionismo
economico e d'eurocentrismo, ha contraddistinto in particolare gli scritti di
Marx ed Engels del periodo 1848-1849.
È vero che il Manifesto comunista contiene alcune formulazioni incerte;
è altresì vero che è inesatto scrivere, come fa Nimni,
che per Marx ed Engels "la nazione sarà spazzata via dall'onda
inesorabile della storia". Quello che essi hanno scritto, è
che la supremazia del proletariato causerà la sparizione delle "separazioni
nazionali [Absonderungen] e della conflittualità tra i popoli".
Il termine Absonderungen può essere definito come differenza,
demarcazione, separazione o anche isolamento. Secondo noi, la migliore interpretazione
di questa frase è quella data da Roman Rosdolsky in un saggio del 1965:
quando Marx ed Engels speravano che in una società comunista sarebbero
spariti gli antagonismi e le separazioni nazionali, non si riferivano "certamente
[a] l' 'abolizione' delle comunità linguistiche esistenti (che sarebbe
assurdo!) ma [ai] confini politici tra i popoli. In una società
nella quale (nei termini del Manifesto) il 'potere pubblico perde il
suo carattere politico' e 'lo Stato in quanto tale si esaurisce' non ci può
più essere spazio per 'Stati nazionali' separati".
Questa posizione internazionalista di Marx ed Engels era fondata non su
una ideologia perversa, "monolineare ed eurocentrica", ma sulla speranza
umanista che in un mondo socialista, un mondo senza frontiere, non
solo gli antagonismi e i conflitti tra le nazioni, ma anche le differenze economiche,
sociali e politiche (ma non culturali) sarebbero sparite.
L'esempio dell'Irlanda chiarisce un differente approccio teorico al fenomeno
nazionale che si può trovare nell'opera di Marx ed Engels. Il criterio
che li conduce a riconoscere l'Irlanda come una nazione storica non è
di ordine economico, ma essenzialmente politico. Il loro punto
di partenza sta nella comprensione della volontà del popolo irlandese
di diventare una nazione indipendente. In Irlanda, il nazionalismo si è
affermato sempre più fortemente in relazione diretta con il processo
di denazionalizzazione condotto dall'imperialismo britannico. Questo
processo determinava non solo la spoliazione economica dell'isola, ma si spingeva
fino a una reale assimilazione linguistica degli Irlandesi che abbandonavano
la lingua gaelica per parlare inglese. Engels scriveva a questo proposito: "Dopo
la più feroca repressione, dopo ogni tentativo di sterminio, gli Irlandesi
riprendevano vita e si risollevavano, come se traessero la loro forza direttamente
dalla presenza delle forze militari che erano state loro imposte per opprimerli".
In questo caso, il concetto di nazione non era definito secondo criteri oggettivi
(economia, lingua, territorio ecc.) ma si fondava piuttosto su un elemento soggettivo;:
la volontà degli Irlandesi di liberarsi essi stessi dalla dominazione
britannica. Questa concezione, nella quale è difficile trovare un qualsiasi
indizio di "riduzionismo economico" insisteva al contrario sull'importanza
dell'identità nazionale e della sua interiorizzazione. Nel 1939 Trotsky
adottava lo stesso metodo, in una discussione con C.L.R. James sulla questione
dei neri d'America, argomentando che "al proposito un criterio astratto
non è decisivo, ma che sono più importanti la coscienza storicha,
i sentimenti e le aspirazioni di un gruppo". In realtà, le due
principali interpretazioni marxiste del fenomeno nazionale da un lato
la teoria economico-determinista di Kautsky e Stalin, e dall'altro la teoria
storico-culturale di Bauer e Trotsky hanno ambedue origine nell'approccio
marxista classico, un approccio secondo cui lo stato incompiuto e amorfo permette
uno sviluppo sia evoluzionista lineare, sia dialettico.
Nel suo tentativo di provare che le concezioni di Marx non sono né frammentarie
né incomplete ma costituiscono un tutto sistematico e coerentemente
evoluzionista - Nimni pretende che il suo (e quello di Engels) "postulato
teorico fondamentale" era che "ogni Stato nazionale"
è "indissolubilmente legato all'universalizzazione del modo di
produzione capitalistico e all'egemonia della borghesia". Questa concezione
spiega secondo lui "il risoluto sostegno [di Marx ed Engels] al
diritto all'autodeterminazione di irlandesi e polacchi" e nello stesso
tempo, il modo assai duro con il quale tratta gli "Slavi del Sud".
Ora, ben lontano dal sostenere gli irlandesi per via dell' "egemonia
borghese", Marx si felicitava del fatto che i Fenians, forza egemone
nella lotta contadina e nazionalista irlandese, fossero "caratterizzati
da una tendenza al socialismo (in senso negativo, diretto contro l'appropriazione
della terra)". Le ragioni del sostegno al nazionalismo polacco, e per
contro il non appoggio ai movmenti simili in Serbia e Boemia, non si fondava
su basi economiciste ("l'universalizzazione dell'economia capitalistica")
ma esclusivamente politiche: il movimento nazionalista polacco era antizarista,
mentre gli altri erano secondo Marx manipolati dallo zarismo. Nel caso degli
Slavi del Sud si può affermare che la sua posizione politica era sbagliata.
Ma non si può provare che questo orientamente era il risultato logico
di una concezione "evoluzionista" e "eurocentrica"
(sia detto per inciso, perché la Polonia dovrebbe essere considerata
come più "europea" che, ad esempio, la Boemia?) e ancor meno
dell' "epistemologia classica del marxismo".
4. Per ciò che riguarda la teoria dei "popoli senza storia",
l'argomentazione di Nimni contiene una contraddizione fondamentale: egli scrive
che questa teoria "origina chiaramente" da "l'epistemologia
marxista classica" e dalla sua visione dei "processi universali
di trasformazione sociale". Nonostante ciò, due pagine più
avanti, egli osserva che questa concettualizzazione hegeliana è "in
contraddizione diretta con una concezione storico-materialista della storia".
Egli considera ugualmente strano di trovare tali "speculazioni idealiste
nei lavori dei fondatori del materialismo storico". Non approviamo
assolutamente quest'ultima tesi, ma essa è evidentemente incompatibile
con la prima.
L'altro problema risiede nel fatto che Nimni attribuisce con insistenza a Marx
le stesse concezioni di Engels riguardo ai "popoli senza storia" non
portando che pochi elementi a sostegno di questa asserzione.
Esaminiamo la sua argomentazione.
a) È "impensabile" che Marx ed Engels "siano
in disaccordo su un punto così fondamentale". Salvo che questa
affermazione elude la domanda! Non esiste alcun elemento che mostri che Marx
fosse in accordo o disaccordo con questa teoria (o che si sia preoccupato di
prendere posizione su tale argomento): il fatto è che egli non l'ha
utilizzato nei suoi scritti. Diventa di conseguenza arbitrario attribuirgli
tali posizioni. Svariati ricercatori e filosofi marxisti hanno messo in evidenza
le differenze tra Marx ed Engels, senza che ciò implichi necessariamente
un disaccordo esplicito. Non c'è dunque alcuna ragione che questo sia
"impensabile" rispetto alla questione nazionale.
b) "Marx si è ugualmente lasciato andare a definizioni offensive
verso parecchie comunità nazionali non appartenenti all'Europa occidentale".
Ha usato un "linguaggio infamante" e dato prova "d'impazienza
e d'intolleranza riguardo alle minoranze etniche". Come esempio, Nimni
cita qualche osservazione su Spagnoli, Messicani e Cinesi. In effetti, nessuna
di queste nazioni è una "minoranza etnica". In più,
né Marx né Engel le hanno mai qualificate come "senza storia"
(sono nazioni che possedevano già uno Stato). Infine, gli Spagnoli non
sono sia in senso geografico che storico una nazione "piccola"
o "non occidentale"!
Ancora, Nimni isola completamente dal suo contesto la citazione sulla Cina:
lontano dall'essere insultante verso la Cina, l'articolo citato predice che
"la prossima sollevazione di popoli europei potrà dipendere ben
di più da quello che sta succedendo nell'Impero Celeste il vero
contrario dell'Europa che da ogni altra causa politica attualmente esistente
Si può predire senza troppo rischiare che la rivoluzione cinese getterà
una scintilla sul barile di polvere del sistema industriale attuale e provocherà
l'esplosione di una crisi generalizzata che matura da molto tempo e che, estendendosi,
sfocerà in rivoluzioni politiche sul continente europeo". Lontano
dall'essere "eurocentrista", questa previsione ahimé
totalmente inesatta come altre numerose predizioni esageratamente ottimiste
di Marx e dei suoi discepoli è sorprendentemente vicina al "terzo-mondismo"
degli anni 1960.
È vero che Marx definisce spesso la nazione cinese come "semibarbarica";
ma allorquando scrive nel 1858 sulla guerra dei cinesi contro l'imperialismo
britannico, nota che questa nazione "si atteneva al principio della
moralità" ed era "confortata da motivazioni etiche"
(il rifiuto di accettare il traffico di oppio), mentre "i rappresentanti
dell'irresistibile società moderna si battono per il privilegio di acquistare
sul mercato meno caro e di vendere su quello più redditizio".
Non c'è dubbio che sia possibile trovare tanto in Marx che in Engels
ogni sorta di "osservazioni sprezzanti" verso molte nazioni; è
ugualmente vero che la loro corrispondenza contiene qualche spaventosa espressione,
come l'infame formula di "negro ebreo" indirizzata a Lassalle. Ma
noi siamo convinti che non si può trarre una "teoria" da tutto
questo, in particolare sapendo che le grandi "nazioni storiche" (Francia,
Germania, Inghilterra) ricevono anch'esse la loro parte di "osservazioni
denigranti".
È ugualmente vero che è possibile trovare, in certi scritti di
Marx dei decenni 1840 e 1850, un giudizio molto negativo sulle nazioni degli
Slavi del Sud. Tuttavia questo atteggiamento non è connesso in modo organico
a una qualsivoglia filosofia "evoluzionista, economicista ed eurocentrica"
ma è piuttosto il prodotto ad hoc del suo ossessivo timore della
contro-rivoluzione zarista e della strumentalizzazione del panslavismo da parte
dello Zar. Non appena le prospettive rivoluzionarie cominceranno a materializzarsi
in Russia (dopo il 1870) questo giudizio negativo scompare completamente dai
suoi scritti.
5. Le considerazioni di Engels sui sedicenti "popoli senza storia"
erano di tutt'altra natura. Nel suo vocabolario questo termine designa le nazioni
cui fanno difetto le "condizioni storiche, geografiche, politiche e
industriali dell'indipendenza e dell'energia vitale". Engels così
si esprimeva: "I popoli [Völker] che non hanno mai avuto
il controllo della propria storia, che nel momento stesso in cui essa
arriva al primo rozzo scalino della civilizzazione si ritrovano già
sotto la dominazione straniera, o arrivano a questo primo grado di civilizzazione
sotto l'effetto del giogo straniero, non hanno energia [Lebensfähigkeit]
e non arriveranno mai a una qualsiasi forma di indipendenza". Engels
si riferiva a quelle nazioni (popoli) che avevano subito la dominazione di uno
stato straniero durante tutta la loro storia e che, secondo la sua opinione,
erano condannate ad essere egemonizzate dalle nazioni socialmente e economicamente
più avanzate. Engels proseguiva sottolineando: "Non esistono
in Europa paesi che non possiedano, in un angolo o in un altro, uno o più
frammenti di popoli [Völkerruinen], tracce di antiche popolazioni cancellate
dalle carte e tenute in schiavitù dalla nazione che diventa più
tardi il principale veicolo di sviluppo storico [Trägerin der geschichtlichen
Entwicklung]. Tali reliquie di una nazione, calpestate senza pietà dal
corso della storia, come Hegel qualificava questi residui di popoli [Völkerabfallel],
diventano sempre i portabandiera fanatici della controrivoluzione e sopravvivono
così fino alla loro estinzione completa o alla perdita del loro carattere
nazionale [gänzlichen Vertilgung oder Entnationalisierung], così
che la loro intera esistenza costituisce di per se stessa una sorta di oltraggio
ad una grande rivoluzione storica".
Questa categoria includeva, sempre secondo Engels, i Gaelici di Scozia,
i Bretoni, i Baschi, gli Ebrei di lingua yiddish delle comunità dell'Europa
orientale e in particolare gli Slavi del Sud.
Secondo Engels, nel 1848 le grandi nazioni europee erano nel campo della rivoluzione,
mentre gli slavi (ad eccezione dei Polacchi) erano alleati dello zarismo nel
campo della reazione. Engels non si preoccupava di capire le cause sociali del
ruolo "vandeano" svolto da questi movimenti nazionali nel 1848, ma
lo attribuiva semplicemente alla loro supposta natura "controrivoluzionaria".
Il fiasco delle rivoluzioni del 1848 risiedeva in cause precise del tutto diverse
dalla natura "vandeana" degli Slavi del Sud. Al contrario, queste
sconfitte si collocavano in un contesto storico preciso: un'epoca testimone
dell'esaurimento del potenziale rivoluzionario della borghesia (incapace di
risolvere i principali problemi all'ordine del giorno: le questioni nazionali
e agrarie) e del fatto che il proletariato non era ancora pronto a prendere
il potere. In altri termini, era troppo tardi per una rivoluzione borghese e
troppo presto per una rivoluzione socialista.
La teoria di Engels sui "popoli senza storia" è stata acutamente
criticata da Roman Rosdolsky, che ha provato la sua fondamentale incoerenza.
Egli spiega il ruolo reazionario giocato dai movimenti nazionali slavi durante
le insurrezioni del 1848 alla luce delle contraddizioni intrinseche alla rivoluzione
in Europa orientale: le poche nazioni che lottavano per la loro liberazione,
come la Polonia e l'Ungheria, opprimevano altre nazionalità e minoranze
etniche al loro interno. La borghesia e l'aristocrazia terriera formavano le
forze sociali dominanti del movimento polacco e magiaro che si opponevano alle
altre "nazioni contadine". I Ruteni (Ucraina) di Galizia, per esempio,
non sostenevano le rivendicazioni indipendentiste dei Polacchi, poiché
già difendevano gli embrioni della propria identità nazionale,
un'identità nazionale che esprimeva essa stessa il conflitto di classe
che le opponeva ai proprietari terrieri polacchi. I Serbi, i Croati, i Rumeni,
gli Slovacchi e tutte le altre "nazionalità contadine" dell'Europa
sudorientale conservavano la stessa attitudine rispetto a Tedeschi e Magiari.
In realtà, questi sedicenti "popoli senza storia" avrebbero
partecipato alla rivoluzione se avessero potuto ottenere una riforma agraria
dalla borghesia e dall'aristocrazia terriera, ma la direzione sciovinista e
conservatrice dei movimenti nazionali tedeschi, polacchi e magiari non accettò
questa riforma e spinse così le masse rivoluzionarie nelle braccia della
controrivoluzione zarista. Invece di comprendere grazie a un metodo marxista
le radici sociali del movimento panslavista, Engels disegnò una
carta d'Europa basata su due categorie: le "nazioni rivoluzionarie"
e i "popoli senza storia", le prime considerate come storicamente
vitali, mentre le seconde erano relegate alla condizione di schegge senza vita
del passato. Questa concezione, che nega a priori l'eventualità di un
risveglio successivo dei "popoli senza storia", è del tutto
antidialettica. Rosdolsky prova, attraverso abbondanti citazioni, che anche
dopo il 1848 Engels mantenne la sua visione della rivoluzione in Europa centrale
e orientale come fondamentalmente tedesca, con gli stessi alleati (in primo
luogo i Polacchi) e gli stessi nemici (la Russia zarista e il movimento panslavista).
A partire dalla fine del XIX secolo, con la nascita del movimento socialista
nei balcani, Kautsky ha denunciato l'errore di Engels. Nel 1907, Otto Bauer
nella sua summa sulla questione nazionale, criticava Engels e riconosceva gli
sviluppi socio-culturali delle differenti nazionalità slave (cioè
il loro adattamento alla modernità). Nella sua critica, Rosdolsky introduce
un altro elemento: egli spiega che durante la rivoluzione di Cromwell (1599-1658)
gli Irlandesi le cui rivendicazioni dei diritti nazionali erano sostenute
come legittime da Marx ed Engels svolsero lo stesso ruolo reazionario
avuto poi dagli slavi austriaci nel 1848. Nondimeno, costruirono più
tardi un movimento nazionalista anti-imperialista. Basandosi su una critica
alla posizione della Neue Rheinische Zeitung, Rosdolsky costruisce una
brillante analisi marxista della questione nazionale durante la rivoluzione
del 1848. Lontano dal cadere di nuovo, come pensa Nimni, nel "tranello
paradigmatico" di Engels sulle nazioni "storiche e non storiche",
egli giunge a conclusioni molto chiare: la teoria dei geschichtlosen Völker
non è altro che un "residuo della concezione idealista della storia
e perciò estraneo al sistema teorico marxista".
Noi siamo d'accordo con Nimni quando dichiara che l'attitudine di Engels verso
le nazioni slave del Sud rivela qualche elemento di evoluzionismo positivista,
di determinismo economico e di eurocentrismo. L'amico di Marx aveva senza alcun
dubbio interiorizzato alcuni pregiudizi culturali dell'Europa del XIX secolo,
ma sarebbe sbagliato generalizzare questo atteggiamento: il concetto di "popolo
senza storia" non rappresenta che un aspetto dell'approccio di Engels
sulla questione nazionale.
Dalla fine del XIX secolo, le idee marxiste si diffusero largamente tra le minoranze
etniche extraterritoriali e le sedicenti "nazioni non storiche" dell'Europa
centrale e orientale. Il movimento operaio e l'intellighenzia socialista di
queste nazioni trovarono nel marxismo il miglior strumento intellettuale per
spiegare la loro oppressione, per comprendere il processo storico di formazione
della loro identità culturale e, infine, per elaborare un progetto di
liberazione sia sociale sia nazionale. Il concetto di autonomia culturale nazionale
fu dapprima creato dalle correnti marxiste all'interno delle nazionalità
oppresse come gli Slavi (Federazione slava della socialdemocrazia austriaca),
gli Ebrei (il Bund) e gli Armeni ("Specifisti"). I socialisti ucraini
(Rosdolsky), boemi (Smeral), bulgari (Blagoev), romeni (Dobrogeanu-Gherea),
georgiani (Jordania), così come gli austro-slavi (Kristan) e i socialisti
russi ebrei (Medem, Borokhov) utilizzarono il marxismo per analizzare le loro
differenti realtà nazionali. La teoria dei "popoli senza storia"
pareva loro totalmente sbagliata e inutilizzabile, ma ciò non era una
ragione sufficiente per abbandonare il complesso della teoria marxista sulla
questione nazionale. Tra le de guerre, i marxisti spagnoli che contribuirono
maggiormente allo sviluppo dell'analisi teorica sulla questione nazionale furono
Andreu Nin, un catalano, e i fratelli Arenillas, due baschi. Se, dopo la morte
di Engels, il dibattito sulla questione nazionale si è tanto sviluppato
in seno al marxismo, soprattutto sotto l'influenza dei socialisti appartenenti
a minoranze etniche e a nazioni oppresse, ciò significa che, su questo
argomento, nei testi marxisti classici esistevano alcuni seri limiti che non
permettevano di "risolvere" la questione (ciò è perlomeno
evidente), ma ugualmente che la teoria marxista era indispensabile per confrontare
le sfide proposte dalla questione nazionale.
6. Per concludere: se il concetto di nazione come elaborato da Marx ed Engels
resta vago e incompleto, se la teoria di Engels sui popoli "non storici"
è una metafora pseudostorica del tutto estranea al marxismo, cosa resta
della loro riflessione sul problema nazionale? Cercheremo di rispondere a questa
domanda sintetizzando gli apporti dell'atteggiamento marxista classico.
Nel 1867, quando Marx ed Engels rivolsero di nuovo l'attenzione alla questione
irlandese, individuarono un elemento teorico fondamentale: la divisione tra
nazioni dominanti e nazioni oppresse. Essi consideravano la dominazione
coloniale dell'Irlanda non solo come l'origine dell'oppressione del popolo irlandese,
ma anche come la chiave per comprendere l'impotenza della classe operaia
inglese, il proletariato più numeroso e meglio organizzato del mondo
nella seconda metà del XIX secolo. Lo sciovinismo e i sentimenti di superiorità
nazionale dei lavoratori inglesi verso gli irlandesi facevano il gioco della
borghesia britannica, che sfruttava questo antagonismo per mantenere la dominazione
in Irlanda e opprimere il proletariato inglese. Marx scriveva nel 1870: "In
tutti i centri industriali e commerciali d'Inghilterra si ritrova oggi una classe
operaia divisa in due campi ostili, i proletari inglesi e i proletari
irlandesi. Il lavoratore inglese ordinario odia il lavoratore irlandese
in quanto concorrente causa di abbassamento del suo livello di vita. Di fronte
al lavoratore irlandese, si sente egli stesso membro della nazione dominante
e si trasforma così in strumento degli aristocratici e dei capitalisti
contro l'Irlanda, rinforzando di fatto la loro dominazione su lui stesso.
Questo antagonismo è il segreto dell'impotenza della classe operaia
inglese, nonostante la sua organizzazione. È il segreto grazie al
quale la classe capitalista fonda il suo potere e di cui è del tutto
cosciente".
Marx formulava dunque due concetti che diventeranno la base della teoria
di Lenin sull'autodeterminazione nazionale: 1° la nazione che ne opprime
un'altra non può essere considerata come libera (Engels riteneva che
per un popolo dominarne un altro fosse una "disgrazia"); 2° la
liberazione delle nazioni oppresse è una delle condizioni della rivoluzione
socialista all'interno della nazione dominante.
Oggi, questo approccio conserva tutta la sua importanza e validità, e
costituisce una premessa assolutamente necessaria per lo sviluppo e l'arricchimento
del pensiero marxista. Questo approccio metodologico non è segnato né
dal determinismo storico né dall'eurocentrismo ma fornisce semplicemente
una bussola indispensabile per chi crede nell'internazionalismo. Non possiamo
considerarci marxisti senza sostenere in Francia il diritto all'autodeterminazione
dei Kanaki della Nuova Caledonia, in Israele quello dei Palestinesi, in ex-Jugoslavia
quello degli Albanesi del Kosovo, in Iran, Irak, Siria e Turchia quello dei
Kurdi. Se Ephraim Nimni condivide il nostro pensiero come speriamo
su questa conclusione, deve allora riconoscere che è possibile criticare
l'approccio di Marx ed Engels sulla questione nazionale senza peraltro rigettare
in blocco il marxismo.
Tratto da PATRIES OU PLANÈTE? Di Michael Löwy, 1997, Editions
Page Deux, 1997 (da una traduzione in francese di Matthieu Leimgruber)