GULAG. Il sistema dei lager in URSS.
Brani tratti da: "Le peculiarità dell'universo concentrazionario sovietico" di Giovanni Gozzini. Giugno 2000.


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Un approccio politologico e comparativo al tema del GULag consente invece di apprezzare una prima differenza, relativa al posto e alla funzione che la violenza occupa nell'ideologia e nella pratica nazista e sovietica.
Nel movimento nazista l'adozione della violenza come strumento di lotta politica rappresenta una scelta programmatica e identitaria discriminante, che si traduce nell'organizzazione di una milizia paramilitare di partito. Secondo un copione già sperimentato con successo in Italia da Mussolini, la conquista nazista del potere segue una strategia del doppio binario: il credito di rispettabilità che Hitler riscuote nell'establishment politico e finanziario si fonda anche sull'opera di intimidazione quotidiana svolta da SS e SA, entrambe create all'inizio degli anni Venti. Diretta principalmente contro comunisti e socialdemocratici, la loro mobilitazione crea il caos e la richiesta d'ordine da parte delle maggioranze silenziose. Al tempo stesso accresce il potere negoziale di Hitler in quanto unico politico in grado di esercitare un'autorità su queste frange violente. La milizia di partito svolge un'azione di propaganda attraverso la pratica concreta dei propri oblettivil (in primo luogo la lotta ai presunti nemici del Reich) ed è quindi strumento di un contropotere nazista esercitato dal basso: offre un'immagine di efficienza e di forza, nel mentre che rompe i confini normali della legalità ed espone tutti alla minaccia di una forza senza remore e senza rivali.

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Ma SA e SS rappresentano anche l'immagine vivente del nuovo stato razziale, centro del progetto politico nazista: una élite di giovani scelti in base alla purezza del sangue e dei tratti somatici, uniti da un codice d'onore e da una struttura di tipo militare ma anche da riti e simboli di tipo religioso. Queste organizzazioni rispondono a uno schema esoterico, di comunità degli eletti, che fonda la propria superiorità sulla capacità di dominare sentimenti normali ed eseguire compiti impossibili ai più: I'esercizio della violenza contro gli avversari assume un valore iniziatico, il crimine fa parte di una strategia di identificazione, rafforza e rende irreversibile l'identità di appartenenza.
A differenza della Germania la Russia conosce una tradizione di provvedimenti amministrativi (non ratificati da sentenze giudiziarie), di condanna alla deportazione e al lavoro forzato nelle terre desolate della Siberia, che risale al tempo degli zar: molti dei leader bolscevichi, da Lenin a Stalin, ne hanno fatto personale esperienza. Ma la violenza non assume nel movimento comunista russo la stessa centralità che ha in quello nazista. I bolscevichi rompono radicalmente con le consuetudini terroristiche di molti gruppi antizaristi e nell'ambito della sinistra rivoluzionaria russa non sono gli unici a organizzare "guardie rosse" armate a difesa del movimento, la cui struttura militare appare peraltro assai meno evidente e curata di quanto non accada nel Partito nazista. Il ricorso alla violenza contro gli oppositori si configura come una scelta sistematica solo dopo lo scioglimento d'autorità dell'Assemblea costituente nel gennaio 1918 e si accompagna alla crescente consapevolezza di combattere una battaglia di minoranza contro i poteri forti dell'economia e della società. Da un lato, perciò, la violenza antidemocratica viene fatta valere come dura necessità dettata dalle circostanze; dall'altro appare la conseguenza obbligata della dottrina marxista della "dittatura del proletariato": fase transitoria di consolidamento del potere rivoluzionario contro le resistenze del mondo borghese.

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La prima menzione di "campi di concentramento" risale all'estate 1918 - in concomitanza dell'attentato a Lenin e del pieno avvio della guerra civile - e al Commissario del popolo alla guerra Trockij, che ne propone l'istituzione come misura deterrente nei confronti dei renitenti alla leva militare nelle file dell'Armata Rossa. Nel settembre successivo il decreto governativo sul "terrore rosso" li ufficializza come strumento per "proteggere la repubblica sovietica contro i nemici di classe" accordando alla CEKA la facoltà di fucilazioni sommarie nei confronti di ogni "individuo implicato nelle organizzazioni delle Guardie bianche, nei complotti, in insurrezioni o sommosse". Uno specifico regolamento dell'aprile 1919 distingue tra "campi di concentramento" riservati ai detenuti in forza di semplici provvedimenti amministrativi e "campi di lavoro forzato" riservati all'esecuzione di condanne comminate dai tribunali.
Tra il 1919 e il 1922 I'NKVD ne apre più di 60 per una cifra totale di internati che supera i 70.000: stando alle circolari ufficiali vi trovano posto sia funzionari compromessi con il regime zarista, sia prigionieri della guerra civile, sia delinquenti comuni. Nel corso del 1923 i campi istituiti nelle vicinanze delle città maggiori vengono chiusi. Ne rimangono aperti 23, tra cui i "campi speciali delle Soloveckie", isole del Mar Bianco al largo di Arcangelo, dove il numero degli internati cresce dai 4.000 del 1923 ai quasi 38.000 del 1928: ma nei due anni successivi un'epidemia miete 6.000 vittime.
Emerge così una seconda differenza, relativa alle finalità che l'universo concentrazionario viene assumendo nei due regimi. Mentre il lager nazista individua con precisione i propri detenuti sulla base di discriminanti prima politiche e poi razziali, il campo sovietico accoglie una tipologia multiforme di "nemici del popolo", diretta conseguenza della sindrome di accerchiamento del nuovo regime rivoluzionario. La dittatura hitleriana infatti non si scontra né con una particolare opposizione da parte dei tradizionali centri di potere dell'economia e della società tedesca né con una ostilità delle altre nazioni. Ma il prerequisito di un'ideologia della violenza rende automatica e scontata la pratica di luoghi di tortura riservati ai nemici. Fin dal marzo 1933 Himmler, che il nuovo regime ha messo a capo della polizia di Monaco, annuncia l'istituzione di un "campo di concentramento per prigionieri politici" nella vicina cittadina di Dachau. Alla base di questo regime detentivo parallelo a quello carcerario ufficiale sta l'ordinanza di emergenza del 28 febbraio che limita le libertà individuali. Ogni cittadino può essere colpito da un provvedimento di Schutzhait ("custodia protettiva"): un fermo di polizia senza limiti di tempo e senza possibilità di controllo da parte del potere giudiziario, che alla fine del luglio successivo ha già portato all'internamento di quasi 27.000 detenuti nei nuovi lager. Fino al 1938 nessuno di questi cittadini tedeschi viene arrestato in quanto ebreo, ma perché sospetto di attività antigovernativa. Ai prigionieri politici si aggiungono però, a partire dal 1937, anche criminali comuni, renitenti alla leva e al lavoro, vagabondi e mendicanti, distinti da un triangolo di stoffa di colore diverso: rosso per i politici, viola per i testimoni di Geova che si rifiutano di prestare servizio militare, rosa per gli omosessuali, nero per gli asociali, verde per i comuni, blu per i vagabondi. Non si possiedono dati certi sulla mortalità nei lager nazisti prebellici: a Norimberga vengono documentati quattro casi di torture e assassinii a sangue freddo di detenuti, ma è certo che non vi fosse stata ancora allestita una macchina per lo sterminio di massa. Le durissime condizioni di vita rispondono a una logica di rieducazione destinata a cittadini tedeschi che devono rinnegare le proprie convinzioni. Al plebiscito del novembre 1933 per 1'uscita della Germania dalla Società delle nazioni i detenuti di Dachau hanno diritto di voto (2154 sì su 2242 voti); nel Natale 1933 viene annunziata un'amnistia per 5.000 internati e il numero totale dei detenuti rimane fino al 1937 di circa 10.000. Anche se introdotto con le leggi di emergenza del 1933,1'universo concentrazionario con la sua violazione di uno dei diritti umani fondamentali (I'habeas corpus) assume subito una funzione permanente nello stato nazista. Il lager come strumento persecutorio interamente sottratto all'autorità della legge - precondizione decisiva per lo sterminio - non appartiene al tempo di guerra: contraddistingue il regime nazista fin dalla sua ascesa al governo. In tutta la Germania vengono creati luoghi di sperimentazione di un potere assoluto che, attraverso un'organizzazione terroristica del tempo e dello spazio, cerca di cancellare l'umanità e la vitalità degli internati: I'idea che il fine giustifichi il crimine contro la persona umana lega come un filo rosso l'intera storia della dittatura hitleriana.
Attraverso la gestione del sistema SchutzhaitLager la milizia di partito incarnata dalle SS conduce il "lavoro sporco" di normalizzazione degli avversari dell'ordine costituito e, al tempo stesso, penetra nella macchina statale sotto il segno distintivo di un'alterazione profonda delle regole della convivenza civile, che evita tuttavia di coinvolgere la vita quotidiana della maggioranza dei tedeschi. Una legislazione di emergenza divenuta permanente configura la Germania nazista come un "doppio stato" dove, accanto allo stato normativo che formalmente conserva alcune parvenze dello stato di diritto, si impone uno stato discrezionale, diretto e realizzato da militanti liberi da vincoli legali e fedeli unicamente al credo ideologico della cieca obbedienza ai loro capi. Dal giugno 1936 Himmler unifica le cariche di capo delle SS e di capo della polizia tedesca, sviluppando alle proprie dirette dipendenze un apparato armato di spionaggio e repressione (che nel 1939 arriva a contare 240.000 unità) parallelo e teoricamente subordinato al ministro degli Interni, Wilhelm Frick, ma in realtà del tutto autonomo. Nel settembre 1939 Himmler crea un Ufficio centrale per la sicurezza del Reich, che riunifica tutti gli organismi di polizia: la sezione IV dell'Ufficio incorpora la Gestapo (la polizia segreta di stato creata nel 1933) e riserva un apposito reparto (il quarto della sottosezione D, a sua volta dedicata ai territori occupati) al problema dell'emigrazione, la cui direzione viene assegnata ad Adolf Eichmann, il maggiore delle SS destinato a diventare il responsabile dell'Ufficio per la questione ebraica.
Viceversa il consolidamento del governo sovietico avviene sotto la minaccia della guerra civile e sconta una condizione di isolamento internazionale che spinge verso la creazione di un sistema repressivo più generalizzato e indistinto incaricato di coprire tutti i settori della società. Nascono da qui le due maggiori peculiarità storiche dell'universo concentrazionario sovietico: I'essersi progressivamente rivolto - a differenza del lager nazista - verso un'opera di epurazione interna della propria classe dirigente e l'aver assegnato un ruolo centrale al lavoro produttivo socialmente utile degli internati.
In URSS le modalità di costruzione del doppio stato appaiono simili a quelle naziste (legislazione di emergenza, polizia politica straordinaria) ma si accompagnano a un più radicale processo di rifondazione costituzionale che sconta un'ostilità ambientale assai maggiore. Al lavoro produttivo l'ideologia comunista assegna un ruolo cruciale di rifondazione del patto sociale di rieducazione dei soggetti controrivoluzionari. Un decreto del gennaio 1918 orienta in tal senso l'intera gestione delle carceri e l'amministrazione dei campi delle Solovcki e utilizza a partire dal 1926 il lavoro forzato dei detenuti per soddisfare contratti di produzione per altri organismi statali: il campo di concentramento acquista così una propria collocazione organica (e non residuale) nel progetto complessivo di rifondazione in senso sovietico della società russa. Dal 1929 tutte le pene detentive superiori a tre anni devono essere scontate nei campi di lavoro forzato: nelle regioni del Nord viene allestita una rete di nuovi campi speciali che alla fine del 1930 contengono più di 40.000 prigionieri. Si tratta di una misura che intende risolvere il problema del sovraffollamento e delle spese crescenti delle carceri ordinarie, ma che corrisponde anche a un intendimento più generale del regime: in un discorso del febbraio 1931 Stalin lancia una sorta di ultimatum al paese, fissando in dieci anni l'arco di tempo entro il quale la nuova URSS può vincere la sfida economica con l'Occidente oppure soccombere. Nell'agosto 1932 la legge di difesa delle proprietà di stato condanna a morte o a dieci anni di lavori forzati chiunque danneggi la produzione di fabbrica e il raccolto dei campi: in base a essa nel giro di quattro anni più di 120.000 persone vengono condannate al lavoro forzato.
La nuova Costituzione del 1936 formalizza il principio secondo cui ogni cittadino è tenuto a svolgere un lavoro socialmente utile: l'universo concentrazionario parallelo alle carceri ne risulta integrato a pieno titolo nell'architettura dello stato sovietico, perdendo quel carattere di emergenza e di duplicità parallela che invece continua ad avere sotto il regime nazista.
Dal 1930 la sezione dell'NKVD che se ne occupa assume la denominazione di Glavnoe upravlenie lagerei ("Amministrazione centrale dei campi", il cui acronimo GULag diverrà universalmente noto). A metà degli anni Trenta l'universo concentrazionario sovietico assume la complessa fisionomia che rimarrà sostanzialmente inalterata nel ventennio successivo. Le carceri ordinarie rappresentano il luogo di detenzione dei condannati minori (a pene inferiori a tre anni) e di interrogatorio e transito verso i GULag: alla fine del 1940 la loro popolazione viene stimata attorno al mezzo milione di unità. Alla stessa data, secondo i documenti conservati nell'Archivio della Federazione russa, risultano presenti in territorio sovietico 53 campi di lavoro forzato con circa 1.300.000 detenuti. Sono questi i GULag veri e propri, dedicati alla costruzione di grandi opere (come i canali tra il Baltico e il Mar Bianco, tra la Moscova e il Volga), all'estrazione mineraria (come il famigerato GULag di Kolyma), al taglio del legname. Vi sono poi 425 "colonie di lavoro correttivo" con le stesse finalità produttive dei GULag, che nel 1940 contengono più di 300.000 internati, e infine insediamenti speciali dove sono confinate le famiglie contadine oggetto delle deportazioni dei primi anni Trenta: 11 numero di questi esiliati oscilla appena sotto il milione. A differenza di quanto accade in Germania, il contributo di questo insieme di lavoratori forzati all'economia sovietica appare del tutto rilevante e si accentua negli anni di guerra, quando l'avanzata nazista contrae bruscamente di un terzo la popolazione attiva. Tra il 1941 e il 1944 esce dall'universo concentrazionario sovietico più di un decimo del nickel e delle granate di mortaio prodotti in URSS; le statistiche dell'NKVD stimano in meno di un terzo del totale la quota di internati inabili al lavoro.
Nelle intenzioni e nei risultati il GULag assolve un ruolo produttivo che il lager non ha: anche l'amnistia concessa all'indomani della morte di Stalin a più di un milione di reclusi trae origine dalla crisi economica di un complesso concentrazionario sovrappopolato e sempre meno remunerativo, nonostante il salario simbolico concesso dal 1949 ai detenuti in grado di lavorare. Almeno fino al 1934 la modernità rispetto al sistema carcerario occidentale e i risultati produttivi raggiunti dall'universo concentrazionario sovietico vengono esaltati sulla stampa di regime: una circostanza che contribuisce a destituire di fondamento la tesi di Nolte sullo "sterminio asiatico". Nel GULag la morte di massa appare perciò, piuttosto che l'esito di un'ideologia "eliminazionista" per principio, un effetto del ricorso deliberato a una forza lavoro impiegata in condizioni ancora peggiori di quelle schiavistiche perché non esiste alcuna preoccupazione per il suo sostentamento: la sua consumazione "naturale" viene guardata con indifferenza, se non addirittura incoraggiata per smaltire situazioni di particolare congestione e sovraffollamento. Si spiega anche così l'assenza di una tecnologia specificamente dedicata alla morte di massa: ulteriore e non irrilevante diversità.

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GULag e lager non rappresentano in alcun modo il ritorno della barbarie: al contrario occupano un posto preciso nella modernità. La loro funzione non si esaurisce nella neutralizzazione diretta degli ostacoli che il progetto di ingegneria sociale portato avanti dai due regimi è destinato a incontrare; bensì ricopre un ruolo deterrente più vasto e indiretto di intimidazione e di introduzione del terrore nella vita quotidiana delle maggioranze di cittadini che pure rimarranno estranee all'esperienza dell'universo concentrazionario.

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Proprio l'attenzione all'evoluzione dinamica del sistema concentrazionario consente di individuare un'ulteriore differenza sostanziale: il sogno di grandezza nazista si nutre di propositi espansionistici su scala europea, volti ad affermare una supremazia tedesca di tipo razziale nei confronti delle popolazioni dell'Est europeo. Nel novembre 1938 il pogrom della "notte dei cristalli" avvia un mutamento irreversibile di funzioni e dimensioni dei lager nazisti in Germania e in Austria: il numero totale di detenuti sale bruscamente da 10.000 a 60.00O, per la prima volta sulla base di un esplicito e univoco criterio razziale, che colpisce principalmente gli ebrei. Alla fine della guerra gli internati tedeschi nei lager saranno meno del 5%. Questa dimensione razziale, nazionalistica, espansionistica e coloniale rimane sostanzialmente estranea alI'impianto del GULag staliniano e al "grande terrore" degli anni Trenta, che si inscrive in una logica tutta interna di difesa della rivoluzione e di epurazione dei quadri sovietici.
Ciò non toglie che la politica repressiva sovietica mostri una ricorrente facilità a scivolare verso una connotazione per gruppi e per "quote" dei presunti oppositori. Un primo esempio in tal senso è rappresentato dall'episodio della cosiddetta "decosacchizzazione": quando, nel contesto della guerra civile tra il 1919 e il 192O, viene deportata e in parte uccisa sul posto una minoranza consistente della popolazione cosacca nella regione del Don (da 300 a 500.000 persone su un totale di 3 milioni). La qualifica di cosacco si sovrappone allora a quella di alleato delle armate bianche e di ricco proprietario terriero, dando luogo a una persecuzione di "nemici della rivoluzione" che talvolta si estende alla devastazione di interi villaggi e all'espulsione in massa della popolazione (compresi vecchi, donne, bambini). Questa sovrapposizione torna a manifestarsi più tardi, quando il rapporto tenuto d Stalin al comitato centrale del PCUS il 3 marzo 1937 collega la teoria dell'inasprimento dell lotta di classe nella società socialista - che rappresenta il fondamento dottrinario del "grande terrore" - a un forte rilancio dell'idea di una patria accerchiata da potenze ostili: ne deriva un psicosi della "quinta colonna" che verrà tradotta in pratica nel teatro della guerra civile spagnola. Eppure i dati che possediamo sulla composizione etnica degli internati nei GULag tra il 1937 il 1940 (in raffronto alle percentuali che formano il mosaico delle nazionalità sovietiche) mostrano una particolare presenza di russi rispetto ad altri gruppi (ebrei, ucraini, bielorussi, polac chi, tedeschi, armeni, lettoni) e tendono quindi escludere una pratica sistematica di persecuzione nei confronti delle minoranze non russe. Solo in conseguenza dell'attacco nazista il Cremlino ordina alla fine del giugno 1941 la condanna al lavoro forzato di interi gruppi nazionali (tedeschi, finlandesi e romeni) che nelI'estate 1944 vanno a comporre un totale di circa 400.000 internati, considerati nemici alla stregua dei loro connazionali residenti fuori dei confini dell'URSS. Gli stessi dipendenti delI'NKVD preposti alla gestione dei GULag che appartengono a queste nazionalità vengono epurati e imprigionati nei campi. Nel quadro della drammatica ritirata sovietica poco meno di mezzo milione di tedeschi del Volga sono deportati in zone della Siberia che gli stessi rapporti delI'NKVD definiscono impreparate ad accogliere la massa di prigionieri. Ma ancora nell'inverno 1943-44, quando le sorti della guerra sembrano ormai volgere al meglio, altri gruppi etnici subiscono la stessa sorte in via di rappresaglia: ceceni, ingusci, tatari, calmucchi, bulgari, greci e armeni (per un totale stimato di oltre 900.000 persone) vengono accusati di collaborazionismo col nemico nazista e deportati in Siberia, in Kazakistan e in altre regioni dell'URSS.
Nella strategia repressiva staliniana, quindi, la sovrapposizione di criteri nazionali e criteri politici appare come la risposta sommaria a una situazione di emergenza determinata dalla guerra piuttosto che il frutto di un disegno organico derivante dall'ideologia ufficiale. Anche se comunque, per conseguire i propri scopi, I'azione terroristica di stato non rinuncia a incoraggiare e sfruttare deliberatamente l'odio razziale: come risulta evidente nel caso del "complotto dei medici ebrei" che la stampa di partito propaganda con ampiezza negli ultimi mesi di vita di Stalin. Nella catena di comando sovietica il sistema delle "quote" costituisce un metodo, rozzo quanto efficace, di misurazione dell'efficienza repressiva e quindi della fedeltà delle organizzazioni periferiche: raggiungere la cifra prefissata centralmente di fucilazioni e di arresti diventa un imperativo la cui esecuzione è monitorata da "troike" composte da dirigenti di partito e dell'NKVD, che vi legano la stessa sorte dei quadri intermedi.
Rimane tuttavia il fatto che, a differenza del lager, il GULag è essenzialmente finalizzato a un'opera di repressione interna (spesso indirizzata contro i vertici dello stato e del partito): una differenza che rinvia ai caratteri costitutivi dei due regimi. Mentre Hitler è il fondatore e l'indiscusso interprete del nazismo, Stalin conquista il potere assoluto dopo una dura battaglia combattuta nel gruppo dirigente sovietico, nel corso della quale l'aspro dibattito sulla linea politica si mescola alle accuse personali. Nel decennio compreso tra la "notte dei lunghi coltelli" e il fallito attentato al Fuhrer del luglio 1944 il gruppo dirigente nazista osserva invece una sostanziale tregua interna. L'autorità carismatica di Hitler incoraggia la competizione tra i suoi sottoposti, ma la fedeltà al capo rappresenta uno dei capisaldi dell'ideologia di regime e garantisce la continuità organica di una catena di comando che si nutre anche della "radicalizzazione cumulativa" frutto dello zelante spirito di emulazione dei militanti.
Da questo punto di vista, un problema in qualche modo parallelo e autonomo rispetto a quello dell'universo concentrazionario è rappresentato dalla "riforma agraria attraverso lo sterminio" realizzata in URSS all'inizio degli anni Trenta.

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La fuga dalle fattorie collettive determina una brusca recrudescenza dell'iniziativa statale nelle zone dell'Ucraina, del Volga, del Caucaso settentrionale: secondo le stime sovietiche tra il 1930 e il 1933 vengono "dekulakizzate" 600.000 proprietà e deportate più di 200.000 famiglie.48 A partire dal 1932 quelle stesse regioni sono colpite da una carestia determinata dai cattivi raccolti degli anni precedenti e da una contrazione pari a un quinto del totale della produzione agricola dell'URSS.49 Nondimeno i fondi dell'Archivio statale russo per l'economia documentano che tra il 1932 e il 1934 la dirigenza staliniana continua a esportare grano dalle regioni più flagellate dalla carestia e ad aumentare le riserve di grano ammassate nei depositi statali.50 Le stime più recenti e accurate condotte sulle fonti demografiche ufficiali valutano tra i 4 e i 6 milioni di morti il frutto di questo uso della carestia come strumento di normalizzazione della struttura di classe delle campagne: é un disegno consapevole e deliberato di "ingegneria sociale" attraverso uno sterminio di massa realizzato sia direttamente mediante espropri forzati e deportazioni, sia (in misura di gran lunga maggiore) indirettamente mediante privazioni e omissioni di soccorso.
Secondo la pratica già sperimentata ai tempi della dekulakizzazione, nel luglio 1937 una risoluzione dell'Ufficio politico del PCUS attribuisce alle amministrazioni periferiche obiettivi numerici precisi di arresti ed esecuzioni capitali da raggiungere comunque. Campi e colonie di lavoro forzato accolgono una massa crescente di persone (dai 510.000 del 1934 si passa al 1.880.000 del 1938) di cui solo una minima parte (meno di un decimo) è accusata di reati politici a norma dell'articolo 58 del codice penale. La grande maggioranza è infatti incolpata di reati comuni (furto, corruzione, abuso di potere), secondo una strategia che punta ancora a screditare i quadri intermedi (mischiando a loro anche semplici cittadini) e a indirizzare ne loro confronti il malcontento popolare, attribuendo al loro malgoverno la responsabilità del peggioramento delle condizioni di vita. Le purghe staliniane non sembrano quindi soggette al processo di "radicalizzazione cumulativa" e implementazione periferica che le direttive antiebraiche naziste subiscono nelle retrovie del fronte russo. Contrariamente a quanto sostengono alcuni storici, in esse appaiono determinanti la mano di Stalin e la razionalità di un poter centrale che obbedisce, come a una legge naturale di sviluppo, alla necessità di rendere precaria l'esistenza di ogni altra autorità potenzialmente antagonista. Torna a farsi sentire in questa furia distruttiva la differenza che separa Stalin da Hitler nei modi di conquista del governo attraverso una lotta furibonda contro i compagni di partito.

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I quadri amministrativi del complesso industriale sovietico vengono così presi tra due fuochi e finiscono per assumere il ruolo del capro espiatorio: la loro epurazione si accompagna alla promozione di nuove leve inesperte ma strettamente legate a Stalin da un rapporto di dipendenza personale prima ancora che politico-istituzionale.59 Un andamento parallelo si registra nelle forze armate, dove fra il 1937 e il 1940 più di 30.000 quadri dirigenti (su 178.000) vengono destituiti, espulsi dal partito e spesso arrestati: fra di loro figura anche il viceministro della Difesa Tuchacevskij che un processo a porte chiuse tenuto nella primavera 1937 condanna a morte insieme ad altri sette generali d'armata. Agli occhi di Stalin lo scompaginamento del potere militare (che verrà pagato caro al momento dell'attacco nazista) serve a eliminare un potenziale e temibile avversario, mantenendolo in uno stato di perenne soggezione e incertezza. Non contraddice questa logica il fatto che, sotto la spinta della guerra, circa un terzo degli ufficiali destituiti venga successivamente reintegrato nel proprio grado di comando; qualcuno - come Rokossovskij - addirittura promosso generale dopo un soggiorno di quas quattro anni nel GULag di Vorkuta. La loro riabilitazione infatti rappresenta pur sempre un legame di personale fedeltà a Stalin.
Quest'ultima circostanza introduce una ulteriore significativa differenza tra lager e GULag. Fino allo scoppio della guerra anche dai campi di concentramento nazisti è possibile uscire in seguito ad amnistie decretate dal regime: per effetto delle quali, come abbiamo visto, il numero degli internati conosce notevoli fluttuazioni. Ma dopo il 1939 un caso Rokossovskij all'interno dell'universo concentrazionario tedesco appare impensabile: non solo perché il lager non serve a un'opera di epurazione interna e quindi non accoglie alte cariche dello stato membri del gruppo dirigente nazista, ma anche perché le porte dei campi si chiudono definitivamente per chiunque vi entri. Viceversa l'universo concentrazionario sovietico è contraddistinto da un elevato turn over (che rende particolarmente difficile ogni stima quantitativa): nel biennio 1937-38 poco più di un terzo dei detenuti nei campi di lavoro correttivo viene liberato e un altro 5% viene rubricato nei registri ufficiali come "fuggito". Due decreti del luglio e del novembre 1941 autorizzano il rilascio e l'arruolamento immediato nell'esercito di 420.000 internati: alla fine della guerra il totale degli ex detenuti al fronte arriva a sfiorare il milione. Ma le partenze dei richiamati sotto le armi sono compensate dalle deportazioni dei gruppi nazionali equiparati a nemici: nel 1950 la popolazione dell'universo concentrazionario supera di nuovo i 2,5 milioni, equamente ripartiti in campi e colonie.
Solo in parte questa natura relativamente aperta del GULag può essere spiegata con l'alta percentuale di detenuti (all'inizio del 1940 pari al 57%) condannata a pene inferiori a cinque anni: una delle pratiche abituali della giustizia sovietica di quei tempi è infatti la reiterazione delle condanne per via amministrativa. Mi pare invece più plausibile un'altra ipotesi. Il lager non è strettamente indispensabile per la sopravvivenza del regime nazista: non nasce per difenderlo da un ambiente ostile (lo dimostra il numero contenuto dei detenuti negli anni prebellici) e durante la guerra serve alla realizzazione della soluzione finale che figura tra i programmi della dittatura. Il lager nazista è quindi un luogo-simbolo sia della violenza che distingue la "durezza" del movimento fin dalle origini, sia della sua missione epocale di pulizia etnica.
Nei confronti dell'universo concentrazionario il potere sovietico mantiene invece una costante attenzione strumentale, che di volta in volta si impernia sul suo carattere deterrente rispetto al resto della società e sulle sue funzioni produttive. Nella massa dei detenuti una quota rilevante è costituita da cittadini normali, vittime di una repressione generalizzata che non ha obiettivi precisi (politici o razziali) ma che viene adoperata come strumento altrettanto normale (e perciò terrorizzante) da parte di un governo privo in misura crescente del consenso popolare. A differenza del lager, il GULag è una struttura necessaria per la conservazione del potere di una rivoluzione minoritaria: obbedisce all'ideologia del lavoro socialmente utile, si adatta a diverse "ondate" (secondo il termine coniato da Solzenicyn) di categorie di reclusi, è pronto a riconoscere altre priorità (come il richiamo al fronte militare), ha un regime di sorveglianza più elastico e allentato. Un episodio come la rivolta del campo di Vorkuta, che nel gennaio 1942 vede le guardie carcerarie prendere possesso del campo e marciare verso la città più vicina fino a scontrarsi con l'esercito, sottolinea ulteriormente queste differenze di natura; soprattutto se paragonato alle "marce della morte" con cui le SS cercano sino alla fine di portare a termine l'ordine di sterminio che è stato loro impartito.
Da tali differenze deriva la minore efficienza "mortuaria" del GULag, che è data non solo dall'assenza di strutture (e di campi) appositamente dedicati alla morte di massa ma anche dalla relativamente maggiore attenzione attribuita alle funzioni produttive. Secondo i dati in nostro possesso negli anni prebellici la mortalità "naturale" nei campi di lavoro forzato raggiunge tassi annui del 10%, con punte del 15% in concomitanza della carestia del 1933 (vicini a quelli coevi dei lager nazisti), mentre negli anni di guerra tocca un picco nel biennio 1942-43 (17%), per poi ridiscendere sotto il 5% dopo il 1945. Solo nei GULag peggiori - quelli minerari di Kolyma e Vorkuta - i tassi di mortalità arrivano a livelli (30%) paragonabili a quelli dei "più miti" lager nazisti. Al netto di quelli provocati dalla "riforma agraria attraverso lo sterminio" attuata nei primi anni Trenta, il totale di decessi "naturali" avvenuti prima della guerra alI'interno dell'universo concentrazionario sovietico viene oggi stimato in circa un milione, mentre la perdurante carenza di documentazione sugli anni postbellici impedisce ancora un computo complessivo delle vittime del sistema sovietico. Le esecuzioni capitali documentate dalle fonti ammontano a quasi 800.000 nell'intero periodo 1921-1953, ma si concentrano fortemente (più di 680.000) nel biennio del grande terrore. Su un piano strettamente quantitativo questa macabra contabilità rimane quindi lontana non solo dagli oltre 6 milioni di cadaveri smaltiti dai lager nazisti, ma anche dai livelli raggiunti dalle fucilazioni a cielo aperto realizzate dalle Einsatzgruppen naziste sul fronte russo (1,3 milioni, secondo le stime di Hilberg). Ma un ritmo "industriale" di quasi mille fucilazioni al giorno, per quanto distribuito in centinaia di campi e colonie, testimonia di un'attività omicida svolta con regolarità in tempo di pace nella routine quotidiana del GULag: un aspetto costitutivo, in altre parole, della sua
"normalità". L'eliminazione dei detenuti non rappresenta lo sfogo casuale della "crudeltà" dei carnefici, bensì una prova (spesso fissata preventivamente in quota numerica da raggiungere) dell'efficienza del sistema nella repressione dei propri nemici e, nello stesso tempo, uno strumento terroristico dal formidabile potere deterrente funzionale al governo della popolazione, dentro e fuori il GULag. Per il nazismo, invece, la morte di massa corrisponde non già a un metodo di governo, bensì all'esecuzione di un progetto di nuovo ordine razziale su scala continentale ed epocale: se ne spiegano così i maggiori volumi quantitativi e la maggiore precisione nella scelta delle vittime.