IMPERIALISMI DI IERI E DI OGGI
RICOSTRUZIONE STORICA DEL COLONIALISMO E DELL'IMPERIALISMO OCCIDENTALE, CON RIFERIMENTI ALLE VICENDE ATTUALI, IN ASIA ED AFRICA.


novembre 2001, REDS



Una nuova guerra imperialista
Con i bombardamenti sull'Afghanistan è cominciata una nuova guerra nell'Asia centrale, che - garantiscono gli statunitensi - sarà lunga e colpirà più stati. Il colosso USA non può permettere a chicchessia di colpirlo impunemente come è stato fatto con le operazioni terroristiche dell'11 settembre. Quindi deve dare un monito, e fornire un saggio del proprio potere. Allo stesso tempo ne approfitta per cercare di assicurarsi il controllo di un'area strategica stabilendo nuove forme e nuovi rapporti con partner, di cui però già teme la riottosità e la inaffidabilità. Le operazioni belliche rientrano perciò nel contesto di una guerra imperialista, neocoloniale, con connessioni etnico-nazionali. E come più volte abbiamo cercato di dimostrare si veste di retorica e si richiama alla crociata, allo scontro di civiltà per camuffare l'oppressione imperialista con la superiorità civile e morale dell'Occidente. Su questo piano, da parte dei mass media, le cose ora procedono un po' più a rilento, ma fino a poche settimane fa si davano un gran daffare per formare l'opinione pubblica a sostenere senza pudori queste posizioni oggettivamente razziste. Se le dichiarazioni di Berlusconi sull'arretratezza secolare dell'Islam producevano forte indignazione e riprovazione generale, più tardi le farneticazioni di una Fallaci o di un Luttwak passavano con maggior facilità. Il Corriere ha dedicato alla paladina dell'Occidente "senza peli sulla lingua" un ampio speciale di "Sette". Il consigliere politico e militare dei presidenti USA è comparso più volte sugli schermi di diverse reti TV per spiegarci come la Palestina con la guerra non c'entri nulla, come questa sia un imperativo etico, una risposta necessaria contro gli "islamisti" che se la sono cercata perché si sono macchiati di orrendi crimini, ben prima dell'attacco alle torri gemelle, nelle Filippine, a Mindanao, in Algeria, che vogliono attaccare la Spagna per riconquistare l'Andalusia e restaurare il califfato... e avanti così con giudizi di questo tipo senza che nessuno gli obiettasse nulla.
Da un punto di vista ideologico, una volta "sconfitto il comunismo", è inaccettabile per i fautori del pensiero unico l'affacciarsi sulla scena politica dell'integralismo islamico che vorrebbe porsi come nuova ideologia terzomondista, come orientamento alternativo al corrotto capitalismo occidentale, e che rischia di coinvolgere masse sempre più numerose, favorito in ciò dai gravi squilibri di ricchezza tra i cosiddetti Nord e Sud del mondo. Quello che politicamente perseguono i nostri governanti e i loro media è quindi la criminalizzazione di un orientamento politico che non viene criticato in sé, nei suoi inaccettabili soprusi, specie nell'oppressione propagandata e praticata delle donne, ma solo in quanto sfugge al controllo dell'occidente e si propone come elemento destabilizzante sullo scenario internazionale. Da qui l'equazione più sottile integralismo=terrorismo, alla Luttwak, e quella più grossolana, a uso e consumo delle masse occidentali teledipendenti islam=fanatismo=terrorismo, propria - tra gli altri - di una Fallaci. Il fatto più grave è che questo modello di spiegazione è universalizzabile e può servire a connotare a livello di percezione di massa tutte le forme di dissidenza. Non dimentichiamo che vari esponenti del Polo hanno accusato i no-global di essere oggettivamente conniventi con Bin Laden. In un mondo globalizzato e stabilizzato sull'ingiustizia (economica, sociale, nazionale, di genere, ecc.), ogni forma di opposizione al sistema o a un settore di esso viene criminalizzata. Quindi la suddetta equazione tende ad assumere una connotazione più ampia e generale: opposizione=violenza=terrorismo. È il teorema di Genova su scala mondiale.
Dal momento che l'opinione pubblica viene formata facendo bellamente ricorso a fandonie e a grette insinuazioni, cerchiamo nel nostro piccolo di fornire un quadro storico e dei lineamenti più precisi delle questioni sottese ai rapporti tra "occidente" cristiano, capitalista e imperialista, e paesi dipendenti ("oriente" e "sud"), tra cui il mondo musulmano. Nel numero scorso ci siamo occupati delle crociate. Oggi ci occuperemo del processo di conquista coloniale europeo in Africa, all'interno del quale si verificarono diversi scontri con paesi islamici (in un prossimo numero ci occuperemo dell'Asia).

Lo sviluppo del mercato mondiale
È opinione comune tra gli storici (1) che tra il 1870 e il 1914 - periodo comunemente definito "età dell'imperialismo" - si sia formato un mercato veramente "mondiale" accompagnato dall'adozione di politiche protezioniste, che contraddistinguono un capitalismo aggressivo fortemente sostenuto dallo stato. A ciò si arrivò in seguito all'accentuata riduzione dei profitti, provocata da una serie di concause (forte concorrenza tra un numero sempre più elevato di imprese, generale caduta dei prezzi in seguito alla crisi della produzione aurifera, allo sviluppo della tecnologia, al miglioramento dei trasporti, al taglio di Suez, ecc.), che mise in crisi il capitalismo liberista e provocò l'introduzione di tariffe doganali pressoché in tutti gli stati europei. La necessità di proteggere la propria economia e la propria industria rischiava però di restringere i mercati all'ambito nazionale, troppo stretto per un sistema produttivo che aveva in sé le potenzialità per un'economia su scala mondiale. La conquista coloniale fu la soluzione adottata: soluzione politica a problemi economici che richiedeva necessariamente l'intervento dello stato, l'unico soggetto in grado di operare in quell'ambito. Lo stato non solo opera in ambito di politica estera e militare per la guerra di conquista e la gestione dei rapporti con gli altri stati concorrenti, ma funge anche da acquirente per gli armamenti, sostenendo così direttamente la produzione nazionale. La crisi provocò inoltre, all'interno dei singoli stati, il fallimento delle piccole e medie imprese e un'azione di concentramento finanziario e produttivo che portò alla nascita di imprese capitalistiche di grandi dimensioni, in grado di operare su larga scala e in condizioni di monopolio.
La conseguenza generale di questo processo sul piano internazionale fu una sempre più accentuata divisione del lavoro e dei ruoli tra paesi dominanti e paesi dipendenti e la formazione di tre aree politico-economiche di dimensioni continentali, dominate da tre poli imperialisti. La principale era quella dominata dall'Europa, che aveva perso l'intero continente americano tra la fine del '700 e l'inizio dell'800 ma controllava l'Africa e grandissima parte dell'Asia. Il secondo polo era quello del Giappone, che entrò alla fine dell'800 tra i paesi industrializzati ponendosi subito in forte concorrenza con gli europei per il controllo dell'Estremo Oriente. Infine l'America latina, che secondo la dottrina Monroe (1823: "l'America agli americani") e il corollario Roosevelt (1896: "Oggi gli Stati Uniti sono praticamente il potere sovrano di questo continente, e l'enunciato della loro volontà è legge per i soggetti tra i quali decidono di interporsi") era territorio di pertinenza dell'imperialismo USA, che entrerà in competizione con il Giappone per il controllo del Pacifico.

Il colonialismo europeo in età moderna
Dopo avere tracciato le linee generali del contesto imperialista tra Ottocento e Novecento, ci occuperemo in questa sede dell'imperialismo e del colonialismo europeo, in particolar modo di quello diretto contro paesi islamici. Se per quanto riguarda il periodo sopra definito 1870-1914 i due termini vanno di pari passo tanto da apparire ed essere usati come dei sinonimi, essi vanno in generale considerati distintamente nel loro significato. Come vedremo alcune conquiste coloniali, anche in Africa, avvennero prima del periodo imperialista e in circostanze che nulla hanno a che vedere con la crisi del capitalismo liberista.
Per l'Ottocento, come per altri periodi, il colonialismo, ovvero la conquista politica di un territorio dipendente, non è definibile come un modello unico, ma è determinato sia dalla potenza coloniale che dalle caratteristiche della regione colonizzata. In generale si ritrovano due forme principali di amministrazione coloniale: stretta dipendenza a tutti i livelli e controllo diretto del governo della metropoli sul territorio colonizzato; autonomia più o meno ampia di gestione locale nell'ambito di politiche e programmi definiti dal governo centrale. Queste tipologie politiche portarono in generale o al regime dell'associazione, governo della colonia nel rispetto della maggior parte possibile delle istituzioni e delle tradizioni locali, o a quello dell'assimilazione, l'imposizione cioè di modelli e istituzioni politiche e culturali tipicamente europee. In ambedue le situazioni comunque si formò una burocrazia locale di personale formato nelle università europee, che costituiranno una nuova élite dirigente "occidentalizzata" che avrà un peso notevole nel processo di decolonizzazione della seconda metà del Novecento e nella modernizzazione degli stati e delle società post-coloniali.

I paesi islamici caddero sotto la dominazione europea in varie epoche, a partire già dai primi secoli dell'età moderna. I portoghesi, che per primi aprirono le nuove rotte atlantiche a partire dal '400, si sostituirono agli arabi nel trasporto di pepe e spezie attraverso l'oceano indiano. Per garantirsi il monopolio di questo commercio crearono basi e punti di appoggio strategici sulle coste africane, indiane e indonesiane, e chiusero gli antichi passaggi del mar Rosso e del golfo Persico. Dopo di loro olandesi, francesi e inglesi, per iniziativa di compagnie commerciali private agevolate dai rispettivi stati con concessioni monopolistiche e addirittura mandati coloniali, iniziarono delle conquiste territoriali che porteranno nel corso del '600 l'Olanda a dominare sul paese islamico più grande del mondo, l'Indonesia. Tra il '700 e l'800, la concorrenza spietata di mercanti iberici e soprattutto della Compagnia inglese delle Indie orientali portò a spartizioni territoriali visibili ancora oggi, profittando della frammentazione politica tra i numerosi principati locali (esempi tipici sono quelli del Brunei nel Borneo e di Sarawak, geograficamente anch'esso nel Borneo ma politicamente legato allo stato della Malaysia). L'arcipelago indonesiano fu, nel vecchio mondo, una delle prime regioni che vide sconvolte le sue strutture economiche e sociali per intervento dei colonizzatori. Essi imposero la produzioni di merci richieste dal mercato europeo - zucchero, caffè, té, caucciù, olio di palma - che produsse numerose rivolte anticoloniali (in questo contesto si collocano le note vicende di Sandokan, narrate da Salgari). A sua volta l'Inghilterra, una volta sconfitta la concorrenza olandese e soprattutto francese, fondò tra XVIII e XIX secolo un impero sull'intero subcontinente indiano, per metà musulmano.

Non sono solo in queste regioni, ma nell'intero mondo islamico, a parte forse i primi tempi dell'espansione araba, ci fu sempre una grande frammentazione politica. I diversi stati islamici o islamizzati sono stati spessissimo in guerra fra loro; hanno dato luogo a conflitti il più delle volte su base etnica, che hanno portato a conquiste e massacri, né più né meno di quanto accaduto tra gli stati cristiani. Così anche tra i paesi islamici vi sono stati nella storia numerosi esempi di creazione di entità politiche più vaste, alcune durate anche diversi secoli. In età moderna (1492-1789) nella fascia mediterranea-maghrebina, mediorientale e indiana erano presenti o si formarono tre compagini statali islamiche e multietniche di grandi dimensioni: l'impero ottomano, l'impero safawide in Iran, l'impero moghul in India. Gli imperi safawide e moghul durarono circa due secoli o poco più, quello ottomano durò più a lungo, formalmente fino al 1924, e stabilito su vasti territori faceva da cerniera tra Europa, Africa e Asia. In questa analisi ci occuperemo essenzialmente di questo impero, dei suoi rapporti e soprattutto di quelli delle regioni africane in esso inglobate con gli stati europei.

Ascesa e declino dell'impero ottomano
I Turchi ottomani nel XIV secolo iniziarono un'espansione politica e territoriale a partire dall'Anatolia verso occidente. I primi tentativi di conquista furono piuttosto difficoltosi: più volte furono fermati dall'opposizione bizantina e soprattutto dalla necessità di difendersi dagli attacchi degli eserciti di Timur Lenk (Tamerlano), capo di una tribù mongola stanziata in Uzbekistan. Riuscirono infine a conquistare Costantinopoli nel 1453, che fecero loro capitale col nome di Istanbul. Da quel momento in poi l'espansione procedette molto rapidamente in varie direzioni. Nel periodo di massima estensione, cioè nel '600, l'impero ottomano comprendeva, oltre all'Anatolia, la Grecia e le isole egee, tutta la penisola balcanica e l'Ungheria fino al Danubio, controllava il Caucaso meridionale, le coste del Mar Nero e gran parte del Mediterraneo, grazie al possesso di Siria ed Egitto e al vassallaggio degli stati barbareschi dell'Africa settentrionale. A est dominava sulla regione mesopotamica (l'Irak), controllava le coste del mar Rosso e del golfo Persico, e si estendeva fino ai confini dell'Iran safawide, al quale aveva conteso con successo anche il controllo dell'Armenia.
L'impero ottomano si sviluppò essenzialmente grazie alla sua superiorità in campo militare, che gli consentì una rapida espansione arrestata a fatica dai safawidi sciiti a oriente e dagli stati europei a occidente. Si alimentava quindi in gran parte grazie alle conquiste: la fine dell'espansione segnò anche l'inizio della crisi. Nonostante l'inesorabile e lento declino, l'impero ottomano si resse ancora per almeno altri due secoli soltanto perché funzionale agli interessi dell'imperialismo europeo, inglese in primis, in quanto baluardo all'espansionismo russo verso il Mediterraneo e i Balcani. Nel complesso comunque, anche nel periodo di massima espansione, a un apparato politico e militare potente faceva riscontro una struttura economica debole, priva di un tessuto produttivo indipendente dall'afflusso di risorse dall'esterno (bottini di guerra, requisizioni alimentari, tributi dai popoli soggetti, dazi doganali...) che fosse in grado di sostentare il forte incremento demografico.
I primi segni di decadenza si hanno già agli inizi del '600, determinati dallo spostamento del baricentro dei traffici verso l'Atlantico in seguito alle esplorazioni e alle prime conquiste coloniali europee. Come si è detto, i portoghesi prima e gli olandesi poi fecero affluire le spezie e i prodotti orientali in Europa, chiudendo i tradizionali passaggi attraverso il mar Rosso e il mare Arabico. Ciò ebbe ripercussioni notevoli sull'economia ottomana a cui venivano a mancare i proventi dei dazi e dei pedaggi pagati dai mercanti stranieri. Quando poi, a partire dal '700, il "Nuovo Mondo" entrerà pienamente nel circuito commerciale europeo con l'impiantagione di prodotti coloniali (caffè, cacao, zucchero, ecc.) prima importati dall'Oriente, lo squilibrio nella bilancia commerciale tra Europa e impero ottomano sarà tutto e definitivamente a favore della prima. Nel XVII secolo, quindi, l'impero ottomano ancora compatto politicamente è già in gran parte dipendente dai paesi europei sul piano economico. Soprattutto la Francia, che nei secoli precedenti era stata più volte alleata dei Turchi in funzione antiasburgica, poté godere di privilegi commerciali in alcuni territori controllati dagli Ottomani senza contropartita (ad esempio Algeria). Questi trattati, chiamati "capitolazioni", rappresentarono in molti casi la premessa al dominio coloniale del secolo successivo.

L'imperialismo e i territori soggetti all'impero ottomano
La crisi della Turchia produsse un indebitamento sempre maggiore a favore della finanza europea, che nel XIX controllava praticamente il debito pubblico dell'impero ottomano. Anche i paesi satelliti, che aspiravano a una politica sempre più autonoma dalla Porta ricorsero ai banchieri europei, e in questo intreccio tra debito e interessi speculativi sta per molti storici la radice prima del colonialismo dell'Ottocento (vedi ad esempio David Fieldhouse, Gli imperi coloniali dal XVIII secolo, Storia Universale Feltrinelli, vol. 29, 1967, o Gaeta-Villani, Corso di storia, vol III, Principato).
Ma queste non sono le sole dinamiche che presiedono alla colonizzazione ottocentesca. In caso dell'Algeria, il primo paese dell'orbita ottomana a cadere sotto la dominazione politica di una potenza coloniale europea, è emblematico. Essa era debitrice nei confronti di banchieri e finanzieri per alcuni capitoli di spesa, ma creditrice nei confronti dello stato francese per altri; a ciò vanno aggiunti altri fattori politici, etnici e di prestigio che concorrono a definire l'intero quadro. L'occupazione dell'Algeria iniziata dalla monarchia francese a partire dal 1830 (prima il reazionario Carlo X, poi il "liberale" Luigi Filippo d'Orleans) e proseguita con i successivi regimi, soprattutto con la Terza Repubblica, ebbe diverse ragioni. Non fu dovuta a precise scelte politiche o strategiche, ma piuttosto fu inizialmente il frutto di una serie di circostanze, che favorirono poi specie dopo il 1870 le mire imperialiste delle compagnie coloniali.
Anzitutto fu dovuta a ragioni di politica interna: Carlo X intendeva acquisire prestigio sul piano internazionale per far fronte all'impopolarità interna della monarchia restaurata dopo il periodo rivoluzionario e napoleonico. L'occupazione veniva giustificata anche con la necessità di eliminare la pirateria barbaresca, che spesso altro non era che il tentativo di potentati locali di recuperare per altra via quelle ricchezze loro sottratte dai trattati di "capitolazione".
Un altro motivo sta nel fatto che la Francia era in debito con l'Algeria, esportatrice di grano, per l'acquisto di derrate mai pagate ai tempi della Rivoluzione. La monarchia restaurata, come già Napoleone prima, rifiutava di pagare e ricevette un oltraggio dal bey di Algeri (il console francese venne frustato) che richiedeva di essere vendicato. Fu inviata quindi una spedizione militare di 36.000 soldati, che sbaragliò facilmente i presìdi turchi e si impossessò di alcuni porti sulla costa. A partire dal 1840 il corpo di occupazione fu aumentato di 115.000 soldati. Nel 1834 era scoppiata infatti una rivolta islamica, che durerà praticamente senza interruzioni per oltre trent'anni, fortemente intrisa di motivi etnici. L'Islam funzionava da riferimento religioso, culturale e solidaristico di una società fortemente segmentata e organizzata in autonomie locali gelose della propria specificità, ma non fu in grado allora di divenire elemento caratterizzante di una identità nazionale. La resistenza all'occupante francese fu particolarmente tenace nelle regioni meridionali del paese, regno del deserto, dove i tuareg, popolazioni nomadi di ceppo berbero, lottarono a lungo per la loro indipendenza, subendo durissimi massacri dalle truppe coloniali. La ribellione poté essere repressa solo con l'invio sempre più massiccio di truppe dal momento che il controllo dell'Algeria era divenuta non solo una faccenda di interesse economico, ma anche una questione d'onore per l'orgoglio francese. La dominazione politica della Francia si tradusse inoltre nel tratteggiamento di confini geometrici tra le dune del deserto e nell'organizzazione di una "polizia del deserto" per respingere gli sconfinamenti e le razzie delle tribù nomadi guerriere dei territori rimasti fuori del controllo (i Saharawi del Sahara occidentale spagnolo).
Parallelamente all'occupazione per ragioni militari si verificò una massiccia emigrazione di francesi (500.000 alla fine dell'Ottocento) che portò nel 1873 all'espropriazione delle terre più fertili a vantaggio dei coloni (i pieds-noir) e alla riorganizzazione dell'intera economia del paese secondo gli interessi francesi. A poco a poco quindi un'occupazione limitata e portata più che altro per ragioni di "polizia internazionale", si era trasformata in una vera e propria colonizzazione.

I debiti contratti dai bey tunisini con i banchieri europei per rendersi indipendenti dalla Porta, le esigenze geopolitiche di compensare lo scacco subito dagli inglesi in Egitto e di prevenire l'interessamento dell'Italia, la necessità infine di soffocare i malumori interni e le rivolte della popolazione contro i propri governanti, troppo compromessi con gli interessi stranieri, sono tra le cause che spinsero la Francia ad occupare la Tunisia nel 1881. I nuovi rapporti furono regolati dal trattato del Bardo (12 maggio 1881), che costituisce un esempio tipico di protettorato coloniale. Al fine di assicurare la pace e i commerci e rinsaldare l'amicizia tra Francia e Tunisia, "il Bey di Tunisi consente che l'autorità militare francese faccia occupare i punti che essa giudicherà necessari per assicurare il ristabilimento dell'ordine e la sicurezza delle frontiere e del litorale" (art. 2). Formalmente l'amministrazione resta in mani tunisine, e "il Governo della Repubblica francese assume l'impegno di prestare un costante appoggio a S.A. il Bey di Tunisi contro ogni pericolo che minacciasse la persona o la dinastia di Sua Altezza o che potesse compromettere la tranquillità dei suoi Stati" (art. 3), ma sul piano internazionale il Bey rinuncia alla sua sovranità politica: "Gli agenti diplomatici e consolari della Francia nei paesi stranieri saranno incaricati della protezione degli interessi tunisini e dei nazionali della Reggenza. Da parte sua, S.A. il Bey di Tunisi si impegna a non concludere alcun atto avente carattere internazionale senza averne data conoscenza al Governo della Repubblica francese e senza essersi inteso preventivamente con esso" (art. 6), (in Gaeta-Villani, Documenti e testimonianze, Principato, 1979). Soprattutto con questo articolo la dipendenza della Tunisia dalla Francia era sanzionata.

L'Egitto invece, che fin dai tempi di Napoleone gravitava piuttosto nell'orbita francese, fu sottomesso all'autorità britannica che profittò delle incertezze della Francia. Anche il Khedive egiziano, indipendente dalla Turchia dal 1847, era oberato di debiti contratti soprattutto per sostenere una politica di espansione verso il Sudan. Fu così costretto a fare concessioni agli affaristi europei interessati alle risorse locali e alla costruzione di infrastrutture. Tra queste concessioni, la più importante fu quella per il canale di Suez, fatta all'ex console francese Ferdinand de Lesseps nel 1854. L'Egitto cointeressato all'impresa non fu in grado però di assolvere ai suoi impegni finanziari; così subentrarono altri capitali stranieri, in primo luogo inglesi. Il premier inglese Disraeli ne approfittò per favorire il suo paese e fece pressioni in tal senso sul suo governo. In una lettera del 18 novembre 1875 informò la regina Vittoria degli sviluppi della situazione: "Il Khedive, sull'orlo della bancarotta, appare desideroso di cedere le sue azioni del canale di Suez [...]. Questo è un affare di milioni; circa quattro almeno: ma darebbe al possessore un'immensa, per non dire preponderante, influenza nella gestione del Canale. È cosa vitale per l'autorità e il potere di Vostra Maestà in questo critico momento che il Canale appartenga all'Inghilterra e su questo punto fui così risoluto e autoritario con Lord Derby [ministro degli esteri] che egli finì con l'accettare il mio punto di vista e ieri ha presentato la questione al Consiglio dei ministri. Il Gabinetto fu unanime nel decidere che ci si dovesse procurare, se possibile, la partecipazione azionaria del Khedive e noi telegrafammo in tal senso. [...] Il Khedive ora dice che è assolutamente necessario che egli riceva da tre a quattro milioni di sterline per il 30 di questo mese! Quasi non c'è tempo per respirare! Ma la cosa dev'essere portata a termine". Una settimana dopo, il 24 novembre, assicurava la regina del successo dell'operazione: "La faccenda è appena sistemata: è fatto, Signora. Il Governo francese è stato giocato. Essi osarono troppo, offrendo prestiti ad un tasso usuraio ed a condizioni che avrebbero loro dato virtualmente il governo dell'Egitto. Il Khedive, disperato e disgustato, ha offerto al governo di Vostra maestà di acquisire le sue azioni in blocco. Prima non avrebbe mai ascoltato una simile proposta. Quattro milioni di sterline! e quasi subito. C'era una sola ditta in grado di fare ciò: i Rothschild. Si sono comportati in modo ammirevole; anticiparono il denaro ad un basso tasso e l'intera partecipazione azionaria del Khedive è ora vostra, Signora" (in Gaeta-Villani, op. cit., Principato, 1979).
Per l'Inghilterra il controllo dell'Egitto era di importanza strategica perché posto sulla rotta tra l'India e il Mediterraneo. L'Inghilterra vittoriana aveva oramai intrapreso da tempo una politica decisamente imperiale condotta dallo stesso governo in sostituzione delle compagnie private del passato. Nel 1858 l'India passò sotto il diretto controllo della corona, che si fregiò così del titolo imperiale, mentre le chiavi del Mediterraneo erano saldamente tenute grazie al possesso di punti strategici (come Malta e Gibilterra) e al "mantenimento in vita" del "grande malato", la Turchia, pressata dalle rivendicazioni indipendentiste balcaniche e dalle mire espansioniste di Austria e Russia, contro le quali il governo di Londra di oppose sempre risolutamente. La politica britannica in Egitto andò ancora per qualche anno di concerto con la Francia. A partire 1878 il definitivo tracollo finanziario dello stato egiziano pose la regione sotto il controllo economico e politico di una "Commissione internazionale del debito", emanazione diretta dei governi inglese e francese. La svolta avvenne nel 1882, quando scoppiò una rivolta nazionalista contro l'ingerenza straniera. Per essere stabilizzata a favore degli interessi capitalistici la situazione richiedeva un intervento armato. In Francia però il parlamento si oppose; in Inghilterra il governo ottenne i crediti e avviò quindi da solo sia la repressione che la conseguente occupazione dell'Egitto.

La spartizione dell'Africa
Le vicende egiziane, oltre a rappresentare un grande successo della politica coloniale inglese, impressero una perentoria accelerazione alle dinamiche imperialiste e alle politiche di potenza degli stati europei, Francia in primo luogo, che non avrebbe più tollerato uno scacco del genere. Se agli inizi degli anni ottanta, salvo il Nordafrica, gli europei avevano solo alcuni scali per le rotte oceaniche e qualche avamposto interno che fungeva da base missionaria o esplorativa, nel 1885 la Francia avviava l'occupazione di parte della Somalia e la penetrazione nell'Africa occidentale (Senegal, Mali, Niger...); l'Inghilterra a partire dall'Egitto si espandeva verso sud, penetrando in Sudan, Kenya, Uganda, con l'intenzione di stabilire una continuità territoriale fino alla vecchia colonia del Capo; l'Italia occupava Massaua sul mar Rosso, base per un controllo coloniale sull'Eritrea; la Germania, a partire rispettivamente dalle sponde atlantica e indiana, si impossessava di due vasti territori australi, a sud dell'Angola e nel Tanganica. Tutte queste iniziative creavano tensioni.

Nello stesso 1885 si concludevano i lavori del Congresso di Berlino, apertosi l'anno precedente per regolare le controversie tra le potenze europee per il controllo del Congo.
Il bacino del Congo divenne nei primi anni ottanta un dominio privato del re del Belgio, Leopoldo II, finanziatore di spedizioni esplorative e missionarie e creatore di una "Associazione internazionale del Congo", che controllava un vastissimo e ricco territorio, tra cui le miniere di rame e stagno del Katanga. I conflitti nacquero quando il Portogallo rivendicò i diritti sulla foce del fiume Congo: i belgi rischiavano di trovarsi senza sbocchi sul mare e di dover pagare altissimi dazi ai portoghesi. Si crearono immediatamente due schieramenti: l'Inghilterra sosteneva il Portogallo, la Francia il Belgio. Il cancelliere tedesco Bismarck si propose come mediatore e portò la questione in ambito diplomatico. La conferenza di Berlino segnò una tappa importante nell'intero processo coloniale: essa infatti non si limitò ad affrontare e risolvere la questione congolese ma sancì i principi generali che saranno alla base della determinazione di sfere di influenza e della conquista dei territori africani da parte di ciascuna potenza europea. I lavori della conferenza, conclusisi nel febbraio 1885, partendo dal presupposto che l'Africa intera fosse uno spazio aperto per l'espansione civilizzatrice dell'Europa, fissò nei suoi articoli le norme di una specie di "galateo della rapina" che ogni potenza era tenuta a rispettare. L'art. 34, infatti, così recitava: "La Potenza che d'ora in poi prenderà possesso di un territorio sulle coste del continente africano all'infuori dei suoi possedimenti attuali o che non avendone ancora volesse acquistarne, come pure la Potenza che vi assumerà un protettorato, accompagnerà l'atto relativo con una notificazione rivolta alle altre Potenze firmatarie del presente atto, onde porle in grado di far valere, se sia il caso, i loro reclami" (in De Bernardi-Guarracino, L'operazione storica, l'Ottocento, l'età contemporanea 3, B. Mondadori, 1993). La notifica dell'occupazione dava diritto alla potenza occupante di espandere il suo controllo politico nel retroterra sino ai limiti della sfera di influenza di un'altra potenza.

Le cause dell'imperialismo
Accanto alle "tradizionali" interpretazioni dell'imperialismo come risposta alla crisi di sovrapproduzione e la conseguente caduta del saggio di profitto attraversata dal capitalismo europeo nella seconda metà dell'Ottocento, altre se ne registrano non sempre o non del tutto condivisibili.
Tra queste, qualche decennio fa è stata avanzata da alcuni storici di area anglosassone, una interpretazione secondo la quale la conquista coloniale dell'Africa sarebbe avvenuta quasi per caso. David Fieldhouse, nella sua citata opera Gli imperi coloniali dal XVIII secolo, la sostiene circoscrivendola però alla prima parte del secolo. Infatti scrive: "Nel 1815 l'Africa non allettava la colonizzazione europea. La costa mediterranea si prestava al commercio e al popolamento, ma era esclusa dalla colonizzazione dalla presenza degli stati islamici [...] Più accessibile era la costa occidentale. [...] Ma il declino della tratta degli schiavi, anche se essa non cessò mai del tutto fino al 1860-70, riduceva l'interesse dell'Europa. Finì con l'essere sostituita dal commercio delle noci di cocco e dell'olio di palma. Ma [...] il commercio di per sé non rappresentava un incentivo alla colonizzazione. [...] Solo nell'Africa australe, dove la colonia europea del Capo si andava espandendo verso est, era prevedibile, nel 1815, l'acquisto di nuovi territori". Nel paragrafo seguente dice: "L'occupazione dell'Algeria, cominciata quasi per caso, da parte della Francia, fu uno degli episodi più significativi nella storia dello sviluppo della potenza europea nell'Africa settentrionale. [...] L'Algeria diventò la prima delle colonie ibride moderne, occupata non per valide ragioni economiche o strategiche, ma solo perché un'occupazione iniziale, limitata a una testa di ponte, aveva a poco a poco preso le proporzioni di una vera e propria colonizzazione". E ancora: "Il processo che portò alla creazione di un protettorato francese della Tunisia nel 1881 e all'occupazione dell'Egitto da parte degli Inglesi nel 1882, seguì un andamento analogo". In conclusione: "Nell'Africa Settentrionale alle radici dell'espansione europea ci furono le difficoltà finanziarie dei sultani indebitati e la reazione dei nazionalisti musulmani che si vedevano accerchiati".
Una tesi analoga a quella dello storico oxfordiano è sostenuta da due studiosi di Cambridge, R. E. Robinson e J. Gallagher, nel vol. XI della Storia del mondo moderno della Cambridge University Press, edita da Garzanti nel 1970, dal titolo L'espansione coloniale e i problemi sociali 1870-1898. Lo stesso concetto della casualità viene da essi ampliato e applicato all'intera vicenda coloniale, anche e soprattutto della seconda metà e della fine dell'Ottocento. Essi infatti scrivono: "Che l'Europa avesse la potenza necessaria per soggiogare l'Africa era assolutamente evidente: ma i suoi governi lo volevano davvero? [...] gli statisti che tracciarono i nuovi confini non erano animati dal proposito di governare e promuovere lo sviluppo di quei paesi. Bismarck e Ferry, Gladstone e Salisbury non credevano veramente in un Impero africano, e anzi consideravano quasi una farsa il processo di espansione in Africa. Un giuoco d'azzardo che aveva per posta giungle e savane poteva interessare un re povero come Leopoldo II del Belgio o un politicante arrivista come Crispi, ma gli autori della grande spartizione del mondo del penultimo decennio dell'Ottocento non collocavano le loro imprese nel quadro di un vasto progetto di espansione imperiale. Non sentivano alcun bisogno di colonie africane, e in ciò rispecchiavano l'indifferenza di tutta l'opinione pubblica, con l'eccezione di ristretti gruppi politici ed economici europei, soggetti agli umori del momento. [...] Quali che siano le conclusioni a posteriori dei sociologi, la colonizzazione dell'Africa appare come un processo affidato quasi essenzialmente al caso. Raramente, degli eventi destinati a sconvolgere un intero continente sono stati determinati in maniera così casuale. [...] I capitali cominciarono a cercare nuovi sbocchi e le industrie nuovi mercati nell'Africa tropicale soltanto quando la spartizione era ormai da molto tempo un fatto compiuto [...] l'imperialismo non fu la causa della spartizione bensì uno dei suoi effetti".
Queste interpretazioni, che hanno forse il pregio di tenere in una certa considerazione le iniziative politiche e le problematiche nazionali dei popoli africani, rischiano però di apparire eccessivamente assolutorie nei confronti delle responsabilità occidentali e quindi, tutto sommato, appaiono nel complesso viziate di "revisionismo". È possibile infatti obiettare al presunto disimpegno imperialista dei governanti europei del periodo a partire dagli stessi esempi citati.
In un celebre discorso del 1885 al parlamento francese, subito dopo il congresso di Berlino che come abbiamo visto può essere assunto come evento simbolo generatore della spartizione dell'Africa, il primo ministro Jules Ferry sottolineò il nesso tra espansionismo coloniale e interessi economici, soprattutto nella ricerca di mercati per l'esportazione di merci e l'investimento di capitali: "Per i paesi ricchi le colonie costituiscono uno dei più redditizi investimenti di capitali [...] Affermo che la Francia, che ha sempre avuto pletore di capitali e ne ha esportato quantità ingenti - le esportazioni di capitali da parte di questo grande Paese, tanto ricco, si contano a miliardi - ha interesse a considerare questo aspetto della questione coloniale. [...] Per i Paesi destinati dalla natura stessa della loro industria a una forte esportazione, come è appunto il caso della nostra industria, la questione coloniale si identifica con quella degli sbocchi. [...] Signori, da questo punto di vista particolare, ma della più decisiva importanza, nell'epoca in cui viviamo e nella crisi che tutte le industrie europee attraversano, la fondazione di una colonia costituisce la creazione di uno sbocco. Si è rilevato infatti, e gli esempi abbondano nella storia economica dei paesi moderni, che basta l'esistenza di un legame coloniale fra la madre patria che produce e le colonie da essa fondate a far sì che la preminenza economica accompagni, in certo qual modo, l'egemonia politica e ne subisca l'influsso". Discorso molto materiale ma ammantato di "alta" moralità, largamente condivisa da intellettuali e politici di allora (si pensi al Kipling del Fardello dell'uomo bianco) (2) - secondo la quale "le razze superiori hanno effettivamente dei diritti nei confronti di quelle inferiori [...] un diritto, cui fa riscontro un dovere che loro incombe: quello di civilizzare le razze inferiori". Rivolgendosi ai banchi dell'opposizione Ferry sosteneva che per fare questo, oltre che per difendere gli interessi nazionali e garantire la sicurezza delle proprie colonie, non è escluso che si debba ricorrere alla forza: "Chi può dire che, ad un dato momento, le popolazioni indigene non abbiano ad assalire le nostre colonie? Cosa farete allora? Non Vi comporterete diversamente da tutti gli altri popoli civili e non sarete per questo meno civili; resisterete opponendo la forza alla forza e Vi vedrete costretti ad imporre, a quelle popolazioni primitive ribelli, il Vostro protettorato, per garantire la Vostra sicurezza".
Civilizzazione e interessi economici, piuttosto che la casualità, ci sembrano quindi alla base dell'imperialismo coloniale dell'Ottocento. E per perseguire questi obiettivi era necessaria una politica di potenza da parte di ciascuno degli stati europei, che richiedeva un deciso impegno in senso coloniale. È lo stesso Ferry a sostenerlo nel citato discorso parlamentare: "Signori, nell'Europa quale è attualmente costituita, in questa concorrenza di tanti Stati rivali che vediamo ingrandirsi intorno a noi, [...] in un'Europa, o meglio in un mondo così costituito, una politica di raccoglimento o d'astensione rappresenta semplicemente la strada maestra della decadenza! [...] Essere un faro di civiltà senza agire, senza aver parte alcuna nelle questioni mondiali, tenendosi in disparte da tutte le combinazioni politiche europee, vedendo un'insidia, un'avventura pericolosa in ogni forma d'espansione verso l'Africa o l'Oriente, vivere in tal modo, tutto ciò, credetelo, costituisce per una grande Nazione una vera e propria abdicazione, in un tempo assai più breve di quanto possiate crederlo; significa scendere dal primo rango al terzo e al quarto" (in Gaeta-Villani, op. cit., Principato, 1979).

Oltre al citato congresso di Berlino del 1884-85 un altro avvenimento segnò una tappa importante nel processo di spartizione del continente africano: la battaglia di Fashoda del 1898. Combattuta tra Francia e Inghilterra, paradossalmente sancì una sorta di pace in ambito coloniale tra le antiche rivali che, preoccupate entrambe dall'incipiente imperialismo tedesco, si accordarono di non interferire più nelle rispettive aree di influenza. A fine secolo quindi i giochi erano ben avviati ma non ancora conclusi, mentre diversi indicatori statistici, così come saggi di economisti e sociologi, discorsi politici di allora, ecc. testimoniano che capitali, merci e materie prime avevano già un ruolo fondamentale negli scambi diseguali tra Europa e territori coloniali.
La produzione mondiale di piombo e di rame, ad esempio, triplicò tra il 1875 e il 1900, e quella di stagno raddoppiò nello stesso periodo; e di rame e stagno erano ricche le miniere del Katanga, che interessavano come si è visto non solo l'imperialismo belga, ma tutti gli stati europei. Sempre tra 1875 e 1900 anche gli investimenti di capitali europei all'estero triplicarono, passando da circa 7.000 a 22.000 milioni di dollari, e dopo il 1900, in concomitanza con il superamento della grande depressione del periodo 1873-1896, aumentarono in maniera esponenziale (quasi 45.000 milioni nel 1913) (fonte: Gaeta-Villani, op. cit.).

L'analisi "economicista" dell'imperialismo sostenuta da Ferry è confermata anche da John A. Hobson, in un noto saggio del 1902, Imperialism: A study. L'economista inglese di orientamento fabiano scriveva: "Il fattore economico di gran lunga prevalente nell'imperialismo è l'influenza relativa agli investimenti. Il crescente cosmopolitismo del capitale è stato il più grande mutamento economico delle nuove generazioni. Ogni nazione industriale avanzata ha teso a collocare una parte crescente del suo capitale fuori dei limiti della propria area politica, in paesi stranieri, o in colonie, e di trarre un reddito crescente da questa fonte [...] Non è eccessivo affermare che la moderna politica estera della Gran Bretagna è stata soprattutto una lotta per conquistare mercati d'investimento vantaggiosi [...] Quel che vale per la Gran Bretagna, è altrettanto vero per la Francia, la Germania, gli Stati Uniti, e per tutti i paesi in cui il moderno capitalismo ha posto ampie eccedenze di risparmio nelle mani di una plutocrazia o di una classe media risparmiatrice [...] L'imperialismo aggressivo che costa tanto caro al contribuente [...] è una fonte di grosso guadagno per l'investitore che non può trovare nel suo paese l'uso proficuo che cerca per il proprio capitale, e insiste perché il suo governo lo aiuti a trovare investimenti sicuri e vantaggiosi all'estero" (in Gaeta-Villani, op. cit., Principato, 1979). Hobson scrive nel 1902 e parla al passato, e quindi smentisce le conclusioni di Robinson e Gallagher.
Nel suo saggio Hobson non si limita a rilevare il nesso tra imperialismo e capitalismo finanziario, ma denuncia anche la degenerazione del nazionalismo e il suo stretto rapporto con l'imperialismo. Pensando alle diverse epoche storiche, all'antichità greca e fenicia (Cartagine ad esempio), ma anche alla più recente storia degli Stati Uniti o dell'America latina, egli sostiene che in passato il colonialismo si configurava in un primo momento come "espansione di nazionalità", "ampliamento territoriale del ceppo, della lingua e delle istituzioni della nazione" a cui però subentrava poi una rottura di relazioni e la costituzione di realtà politiche "per proprio conto come nazionalità indipendenti". Altrimenti si osservava il mantenimento di un "completo asservimento politico [...] condizione per cui la definizione di imperialismo è appropriata quanto quella di colonialismo". Buon interprete della lezione marxiana su queste questioni ritiene pertanto che "il nazionalismo è una strada maestra per l'internazionalismo", mentre se prende un'altra strada è "un pervertimento della sua natura e del suo scopo". L'imperialismo coloniale dell'Ottocento consiste proprio in una competizione politica tra stati-nazione e la sua aggressività "fa fallire il movimento verso l'internazionalismo". Non solo, il suo attacco alle libertà e all'esistenza di altri popoli (3) "provoca in esse un corrispondente eccesso di autocoscienza nazionale. Un nazionalismo irto di risentimento e tutto teso alla passione dell'autodifesa è tanto fuorviato dal suo spirito naturale quanto lo è solo il nazionalismo che arde di uno spirito di avidità e di espansionismo a spese altrui. Per quest'aspetto aggressivo, l'imperialismo è un artificiale incitamento al nazionalismo in popoli troppo estranei per essere assorbiti e troppo compatti per essere definitivamente annientati. [...] L'offesa al nazionalismo consiste nel convertire una forza interna coesiva, pacifica, in una forza esclusiva, ostile, un pervertimento del potere e dell'utilità reali della nazionalità. Il risultato più grave e più sicuro è che si ritarda l'internazionalismo" (in Gaeta-Villani, op. cit., Principato, 1979).
In maniera non dissimile assistiamo oggi alla recrudescenza dell'odio nazionalista di popolazioni che l'imperialismo occidentale vuole mantenere soggette o sulle quali vuole estendere il proprio dominio. E per fare questo, ancora una volta, deve ricorrere alla guerra!

 

NOTE

(1) Per quanto riguarda altre interpretazioni, per certi versi "revisioniste", si veda l'ultimo paragrafo del presente articolo.
(2) Poesia scritta nel 1899, in occasione dell'occupazione statunitense delle Filippine, esprime l'ideologia secondo la quale compito ingrato ma necessario dell'uomo bianco è contribuire all'incivilimento e allo sviluppo economico delle popolazione colonizzate, paragonate a "bambini" o a "demoni" ingrati che ricambieranno solo con odio e disprezzo. Eccone alcuni passi: "Andate, costringete i vostri figli all'esilio / Per soddisfare i bisogni dei vostri prigionieri / Per custodire in assetto militare / Gente irrequieta e selvaggia / Popoli truci da poco sottomessi / Metà demoni e metà bambini [...] Addossatevi il fardello dell'Uomo Bianco / E ricevete la sua antica ricompensa: / Il biasimo di coloro che fate progredire / L'odio di coloro sui quali vigilate [...]".
(3) In verità il testo, in linea con i tempi, parla di "razze più deboli o inferiori". Ci ripugnano questi termini, ma i concetti generali che vengono espressi sono condivisibili.