Il ruolo dell'ONU e degli organismi internazionali.
Chi si dice "per la pace" o perfino "contro la guerra" ma subordina il proprio atteggiamento alle decisioni dell'ONU, dimentica che infinite volte questo organismo è stato usato dai principali paesi imperialisti per avallare le proprie imprese, e che in altri casi ha semplicemente taciuto. Di Antonio Moscato, professore di Storia del Movimento Operaio all'Università di Lecce. Maggio 2003.


In questi giorni la discussione nella sinistra (vera o sedicente) su come fermare la guerra si scontra ancora una volta con la questione del ruolo dell’ONU. Come già 11 anni fa, al momento della guerra del Golfo, e come durante i molti interventi degli imperialisti nei Balcani (uso il plurale, perché in quel caso in prima linea erano quelli europei, anche se con interessi solo in parte convergenti), l’appello all’ONU - fatto da alcuni politici per opportunismo, da certi pacifisti per stupidità - ha disorientato e indebolito il fronte di chi si voleva opporre alla guerra.

Chi si dice "per la pace" o perfino "contro la guerra" ma subordina il proprio atteggiamento alle decisioni dell'ONU, dimentica che infinite volte questo organismo è stato usato dai principali paesi imperialisti per avallare le proprie imprese, e che in altri casi ha semplicemente taciuto. Può essere che l’arroganza (e l’ignoranza) di George W. Bush lo porti — come ha preannunciato — a scatenare l’intensificazione della guerra già in corso senza nessun avallo (ma anche verosimilmente senza nessuna condanna) da parte dell’ONU, ma non è affatto escluso che — nonostante le molte confessioni dei precedenti ispettori dell’ONU sulla loro utilizzazione spudorata da parte degli Stati Uniti — il Consiglio di Sicurezza possa votare una risoluzione inaccettabile dall’Iraq offrendo una copertura all’impresa banditesca che si sta preparando.

Per una messa a punto riproponiamo uno scritto dei giorni immediatamente successivo alla mobilitazione di Genova contro il G8, che contiene già alcune considerazioni sul ruolo degli organismi internazionali, e stralci da due altri di vari periodi sul ruolo dell’ONU nella questione palestinese. (27/9/2002)

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La "globalizzazione": alcuni precedenti

A volte, sentendo esaltare la assoluta novità della "globalizzazione" (soprattutto da chi vuole convincerci che non c’è nulla da fare) si è tentati di correggere in senso opposto, ricordando come l’unificazione del mondo in un unico mercato fosse stata colta già da Marx nel Manifesto, e che il funzionamento delle multinazionali e il meccanismo del debito internazionale erano stati descritti da Rosa Luxemburg ne L’accumulazione del capitale, e da Lenin ne L’imperialismo, fase suprema del capitalismo, che aveva anche registrato l’aumento del peso del capitale finanziario rispetto a quello industriale. Alcune delle pagine di Rosa su come è stata soppressa l’indipendenza dell’Egitto da parte della Gran Bretagna, a nome dei banchieri che avevano "generosamente" concesso crediti per la costruzione del canale di Suez o l’introduzione del cotone, sembrano effettivamente scritte oggi, e basterebbe cambiare alcuni nomi per descrivere gli interventi del FMI e della BM nei paesi debitori.

Anche a proposito della scandalosa pretesa del G7 (oggi G8) di dirigere il mondo senza nessuna investitura formale da parte del mondo, si potrebbe contestare che non è una novità: chi aveva investito i cinque membri permanenti del diritto di veto nel Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, se non loro stessi, forti del diritto dei vincitori e di quello di essere i potenti della terra? E che dire della Società delle Nazioni, che dell’ONU è stata la mamma (di facilissimi costumi)? Dopo aver svolto il suo primo compito (spartire il bottino coloniale tra i paesi vincitori della "Grande Guerra"), non è stata capace di fermare aggressioni e preparativi militari. Le sanzioni all’Italia che invadeva l’Etiopia (che pure era uno Stato membro della SdN!) furono del tutto platoniche. La SdN ha poi chiuso gli occhi sull’appoggio militare tedesco e italiano al golpe militare di Franco, e si è dissolta alla vigilia della guerra, cedendo il passo a riunioni ancora meno legittime dei più potenti, come fu la Conferenza di Monaco del 1938.

Ma si potrebbe risalire ancora più indietro: chi aveva riconosciuto i poteri del Congresso di Berlino del 1878, che sancì l’inizio della spartizione dell’impero ottomano, o della Conferenza che in quella stessa città, tra il novembre 1884 e il febbraio 1885, definì la spartizione dell’Africa assegnandone un bel pezzo a una società presieduta da Leopoldo II? Solo i rapporti di forza, eppure quei signori decidevano per il resto del mondo.

Connessa alla dubbia legittimità dell’ONU (almeno per come è nata, e per come ha svolto la sua attività finora) c’è la scandalosa subordinazione degli organismi ad esso collegati (come BM e FMI) ai principali paesi capitalistici, che hanno il controllo assoluto semplicemente perché si vota in base al capitale apportato, sicché i paesi "poveri" non contano nulla neanche formalmente. Questo fa la differenza con l’ONU, dove almeno quei paesi potrebbero votare in Assemblea nazionale una risoluzione, magari immediatamente disattesa come quelle sulla Palestina o quelle di condanna dell’embargo a Cuba, sempre che i loro governanti o più semplicemente i loro rappresentanti all’Assemblea delle Nazioni Unite non siano direttamente sul libro paga di uno dei paesi imperialisti.

Ma c’è qualcosa di nuovo…

Qualcuno ha sostenuto (e non solo per l’economia) che il capitalismo attuale ricorda molto quello del periodo precedente la prima guerra mondiale. Ma in effetti ci sono molte novità rispetto a quello di appena qualche decennio fa. Novità tecniche (che valgono a maggior ragione rispetto a quello più lontano nel tempo) come la possibilità di spostare somme enormi in un istante, con un semplice clic su un tasto, ma anche novità politiche e sociali.

In primo luogo, dopo la grande crisi del 1929 e poi a maggior ragione a causa della guerra, i controlli dello Stato (di ogni Stato) sull’economia, sui cambi, sul commercio estero, si erano rafforzati. Alla fine della guerra, l’allargamento territoriale dell’area sovietica, senza che ciò corrispondesse a un suo effettivo rafforzamento per l’esistenza di risentimenti e tensioni sociali e nazionali, diede l’impressione dell’avvio di un effettivo bipolarismo. In realtà dalla guerra solo gli Stati Uniti erano usciti indenni ed anzi con un potenziale industriale enormemente accresciuto, mentre gli altri Stati (vinti come la Germania, il Giappone o l’Italia o "vincitori" come la Francia e la Gran Bretagna) dovevano ricostruire fabbriche e infrastrutture distrutte. Lo fecero con poderosi aiuti statunitensi (che mancarono invece ovviamente all’URSS e ai paesi della sua area, ugualmente ed anche più gravemente distrutti, e costretti a sacrifici sproporzionati per risollevarsi in tempi brevi).

In quegli anni immediatamente successivi alla guerra, cominciarono i vari "miracoli economici", basati su uno sfruttamento accresciuto dei lavoratori, su un prolungamento degli orari di fatto, un’erosione costante dei salari reali dovuta a una forte inflazione, condizioni di vita terribili (bidonvilles e comunque alloggi malsani, specie per i migranti esteri o interni) . La ricostruzione avvenne tuttavia con un peso enorme delle industrie di Stato, data la difficoltà di trovare capitali privati disposti a rischiare in imprese costosissime. In Italia, ad esempio, tutto il settore siderurgico, trainante per l’industria metalmeccanica, si sviluppa negli anni Cinquanta e Sessanta con fortissimi investimenti dell’IRI. D’altra parte anche l’industria privata più forte e con solidi agganci politici (si pensi alla FIAT) si riprese grazie a consistenti aiuti statali.

Nella fase della ricostruzione, la produzione dei paesi europei e del Giappone era tuttavia destinata prevalentemente al mercato interno. Ma già alla fine degli anni Cinquanta, col Patto di Roma del 1957, cominciarono i primi tentativi di allargare gli spazi di ciascun paese, che sboccheranno parecchi anni dopo in un primo mercato comune europeo tra sei paesi. Intanto l’ondata della decolonizzazione, avviata con l’indipendenza dell’India, e poi almeno indirettamente dalla vittoria della rivoluzione cinese, era stata bruscamente accelerata dalla sconfitta della Francia a Dien Bien Phu, e nel giro di pochi anni avrebbe privato le maggiori potenze imperialiste di quasi tutte le colonie e quindi di una "riserva" esclusiva per i loro prodotti. Negli anni Sessanta si accelerava quindi la concorrenza internazionale e la tendenza a cercare nuovi sbocchi per i propri prodotti.

Anche gli Stati Uniti non potevano più essere sicuri dell’eternità del loro dominio sui paesi del continente latinoamericano, che dopo diversi tentativi rivoluzionari abortiti o deviati (ad esempio la Bolivia del 1952) trovavano un punto di riferimento entusiasmante nell’esperienza di Cuba. E la scelta di sostituirsi alla Francia sconfitta in Indocina per tentare di arrestare la marcia del "comunismo", cioè dei movimenti di liberazione in quell’Asia orientale in cui avevano interessi non minori, assumeva per gli USA un costo umano, militare e quindi anche economico enorme, coperto con emissioni sempre maggiori di biglietti verdi, che provocavano un’inflazione notevole, anche se in parte esportata verso il Giappone e l’Europa, grazie alla preponderanza politica. La conclusione era la fine della convertibilità del dollaro in oro nel 1971, che provocava un terremoto monetario di dimensioni mondiali, dato che una parte essenziale delle transazioni internazionali avvenivano in dollari, e tutti i paesi capitalisti, soprattutto europei, ne avevano riserve consistenti che ora non potevano più essere cambiate in oro.

Era il preannuncio monetario di una crisi di sovrapproduzione di lunga durata, che avrebbe avuto una accelerazione brusca appena due anni dopo al momento dell’aumento del prezzo del petrolio, a cui furono attribuite a torto tutte le responsabilità per l’arretramento generalizzato della produzione nel 1974-1975.

Sono quelli gli anni in cui si può collocare l’inizio della fase attuale del capitalismo, sia per l’intreccio tra protezionismo (mascherato spesso da tutela dell’ambiente o dei consumatori) e liberalizzazione senza freni delle esportazioni di merci e capitali verso i paesi più deboli. Il commercio mondiale cresce in questa fase a una velocità doppia rispetto alla produzione: se nel 1975 assorbiva il 25% della produzione complessiva, nel 1997 ne assorbiva oltre il 40%.

In quegli anni intanto in tutti paesi capitalisti ha inizio una fase di duro attacco alla classe operaia, che cancella le concessioni fatte nell’immediato dopoguerra per evitare il "pericolo comunista", e che vienecondotta quasi ovunque con l’aperta collaborazione delle burocrazie riformiste. I tempi della realizzazione saranno diversi da paese a paese, a seconda della forza di resistenza dei lavoratori e del grado di complicità dei vertici sindacali: in Italia, la svolta è segnata dall’assemblea dell’EUR e poi dall’attacco alla classe operaia FIAT nel 1980. Sull’attacco all’occupazione non c’è dubbio che si trovano tutti d’accordo, indipendentemente dal fatto che alla testa di un paese ci sia un Reagan o una Thatcher, o un Mitterrand o un Brandt.

È sintomatico che proprio nel 1975 inizia la serie delle riunioni del G7 (anche se nella prima sessione mancava ancora il Canada), che devono trovare, senza incomodi testimoni, una mediazione tra gli interessi parzialmente divergenti, per concertare nei limiti del possibile le politiche economiche e le strategie. Ogni volta viene annunciata la loro intenzione di provvedere ai "paesi poveri". In una delle ultime sessioni venne promessa la remissione parziale del debito, che peraltro non è stata attuata, per una somma inferiore a un quinto del solo costo di quella riunione. Le sessioni pubbliche infatti sono parate mediatiche, che annunciano i risultati raggiunti dal lavoro invisibile e segreto di migliaia e migliaia di funzionari permanenti strapagati.

Secondo Lori Wallach e Michelle Sforza (WTO. Tutto quello che non vi hanno mai detto sul commercio globale, Feltrinelli, Milano, 2001, p. 17) i risultati di tanta sollecitudine per i diseredati è che "nel 1997 la disparità di reddito tra il quinto della popolazione mondiale che vive nei paesi più ricchi e il quinto che vive nei paesi più poveri è di 74 a 1, mentre era di 60 a 1 nel 1990, e di 30 a 1 nel 1960. Alla fine del 1997 il 2°% della fascia più ricca detiene l’86% del reddito mondiale, mentre il 20% della fascia più povera si deve accontentare dell’1%."

Ma anche nei paesi "ricchi", come li definisce il libro (che ha la prefazione di Ralph Nader, che ai DS sembra un pericoloso rivoluzionario, ma che è lontanissimo dall’esserlo), la maggioranza dei cittadini non ha visto neppure le briciole dell’espansione dei profitti realizzati, nonostante le promesse di Clinton, che aveva assicurato che il reddito della famiglia media grazie al libero commercio sarebbe aumentato di 1700 dollari l’anno. Noi, comunque al termine "ricchi" continuiamo a preferire il termine imperialisti.

Nel corso di un quarto di secolo si sono fatti strada faticosamente gli accordi per consolidare aree di mercato unico, in Europa, in Asia intorno al Giappone, nell’America del Nord con il NAFTA. La lentezza è dovuta alle forti resistenze di ciascuna borghesia. È l’inizio della "mondializzazione". Ma il passo decisivo viene compiuto il 1° gennaio 1995 con l’istituzione del WTO (World Trade Organization) a conclusione del faticosissimo negoziato dell’Uruguay Round Agreement, all’interno del GATT (General Agreement on Tariffs and Trade). Il GATT era stato avviato nel 1947, ma aveva subito numerose graduali modifiche (l’Uruguay Round era durato ben 7 anni di discussioni, e si era concluso producendo un documento di 500 pagine, accompagnato da altre 24.000 di regolamenti particolari).

Gli Stati Uniti, che pure avevano avuto un ruolo decisivo nella stesura, ribadirono che comunque il diritto in vigore nel paese avrebbe prevalso in caso di controversie. Ma non è stato così. In realtà il WTO è stato utilizzato per cancellare la legislazione statunitense di protezione dell’ambiente che era stata imposta da grandi mobilitazioni di massa negli anni precedenti. I funzionari del WTO hanno decretato ad esempio che scrivere sulla scatoletta di tonno che era stato pescato senza uccidere i delfini… danneggiava la concorrenza e penalizzava ingiustamente chi invece li sterminava.

Analogamente hanno denunciato che l’imposizione ai pescatori di gamberetti di dotarsi di meccanismi di allarme per la protezione delle tartarughe marine, danneggiava ingiustamente la libera concorrenza. Altre sentenze ci sono state in difesa dell’amianto (contro la Francia ed altri paesi europei che lo vietano) perché la legislazione europea danneggia la produzione canadese di amianto, mentre non ci sarebbero "prove certe" sulla sua dannosità…

Il WTO ha denunciato le norme restrittive nei confronto delle pelli ricavate da animali catturati con crudeli tagliole e uccisi poi a bastonate. Un altro attacco è stato riservato alla legislazione europea tendente a ridurre l’inquinamento derivato dall’uso di piombo, mercurio, cadmio, cromo, ecc. nell’industria elettronica. In poche parole il WTO non è — come affermano i suoi difensori interessati - un organismo per il libero commercio mondiale, ma per eliminare ogni ostacolo all’attività delle multinazionali.

Naturalmente essendoci interessi diversi anche tra le multinazionali, a volte anche all’interno di un solo paese, gli accordi non sono sempre facili. Secondo diversi osservatori la sospensione della riunione di Seattle era dovuta più che alla contestazione in sé (che era molto superiore al previsto, ma avrebbe potuto essere piegata ricorrendo a misure repressive più dure), all’esistenza di contrasti per il momento insanabili, che spinsero alla decisione di utilizzare la protesta per sospendere una sessione di fatto fallita. Va anche aggiunto che al WTO si vota come all’ONU per paese (e non per capitali versati come al FMI e alla BM), ma alcuni paesi piccoli non potrebbero sostenere le spese di una lunga permanenza. Di norma quindi o non partecipano alle riunioni, o si fanno spesare dai paesi più potenti o direttamente da una lobby di multinazionali interessate ad avere il loro voto. Ma la contestazione di Seattle ha incoraggiato alcuni di questi paesi incerti a defilarsi, e ha contribuito a far saltare la sessione che doveva coronare un lungo lavoro sotterraneo di migliaia di funzionari ottimamente retribuiti.

Tuttavia, le divergenze non cancellano gli interessi comuni a tutti i principali paesi e gruppi capitalistici. E il primo di essi è di eliminare tutta la legislazione ambientalistica e sociale conquistata nei decenni scorsi. In un raro impulso di sincerità Renato Ruggiero (divenuto ministro degli Esteri nel governo Berlusconi dopo essere stato per anni segretario generale del WTO), ammise ad esempio che gli standard ambientali inevitabilmente "sono destinati a ridimensionarsi, potendo solo danneggiare il sistema di commercio globale" (lo riporta il già ricordato libro di Wallach e Sforza, a p. 33).

Questa citazione ci permette di attaccare un luogo comune in circolazione nella sinistra, che attribuisce ogni male all’imperialismo americano. Ruggiero è italiano, italianissimo, anzi napoletano, ma era un cane da guardia delle multinazionali al vertice del WTO, come lo è stato come ministro degli Esteri di uno dei sette paesi più influenti.

Tra gli imperialisti ci sono, e in misura crescente, contraddizioni e tensioni, ma non possiamo vedere solo i danni che fa il più forte e ignorare quelli degli altri, e in particolare quelli del nostro imperialismo. Il settimanale "Carta" ha documentato i danni ambientali provocati nell’Amazzonia equadoriana dall’Agip, e altre denunce analoghe giungono da altri paesi che hanno la sfortuna di avere nel sottosuolo riserve di petrolio. L’Agip-ENI è forse "americana"?

Analoghe considerazioni avevamo fatto per chi esaltava l’ONU contro il G7 o G8, o contro la Nato (dimenticando che la Guerra del Golfo, la "madre di tutte le guerre" imperialiste dell’ultimo decennio, è stata benedetta dall’ONU). E che comunque anche la NATO non è solo "americana", ma ha visto spesso ai suoi vertici ufficiali europei e anche italiani…

Un’ultima nota su un aspetto minore, meno gravido di implicazioni politiche negative (come è invece ogni attenuazione del ruolo degli imperialismi europei, e in genere dello stesso concetto di "imperialismo", sostituito dal vuoto e generico termine di "politica imperiale"). Alludo all’uso del termine di "rivoluzione capitalistica" per definire questa fase, caro anche a Fausto Bertinotti. Sinceramente, in primo luogo non mi piace screditare ulteriormente il termine "rivoluzione", usato da tempo dai mass media per definire qualsiasi porcheria in arrivo ("rivoluzione delle pensioni", ad esempio, per definire la soppressione di diritti acquisito, perfino "rivoluzione del traffico" per definire l’introduzione di assurdi sensi unici, e via di seguito, per associare sempre il concetto a esperienze negative), ma penso anche che piuttosto che di rivoluzione sarebbe più corretto parlare di "reazione", di un ritorno al capitalismo classico delle origini, senza le limitazioni e i freni imposti da decenni di durissime lotte del movimento operaio.

Gli arretramenti, fino a tornare a livelli da XIX secolo, si vedono in tutti i paesi, e sono associati ad attacchi anche alla stessa democrazia, alla cancellazione di diritti acquisiti dalle donne, ecc.

I capitalisti che avevano dovuto accettare una tutela automatica dei salari (scala mobile), riduzioni d’orario, estensione delle garanzie previdenziali, riduzione della nocività, garanzie del posto di lavoro, ecc., in alcuni paesi già dopo la prima guerra mondiale, e sotto l’impulso dell’esempio della rivoluzione russa, in altri dopo la fine del fascismo, per scatenare la controffensiva hanno approfittato di due fattori concomitanti: il discredito sull’esperienza sovietica derivato dal suo penoso crollo tra il 1989 e il 1991 (preannunciato già alla fine degli anni ’70 dalla decadenza e involuzione senile dei suoi dirigenti), e l’approdo sempre più esplicito delle burocrazie sindacali e dei partiti operai a concezioni liberiste che eliminavano ogni remora e ogni tentativo di abbellire la collaborazione di classe. Ma una volta liberatisi da ogni opposizione e perfino da ogni progetto di alternativa ad essi, i capitalisti non hanno dovuto inventare nulla, sono tornati al "modello classico". Per anni ci avevano detto che Marx era superato, perché il capitalismo era ormai diverso. Oggi lo è meno che mai, per chi voglia farci i conti senza ripetere vecchie mistificazioni appena ricoperta da un sottile strato di "nuovismo".

Un ultimo esempio, per tagliare la testa al toro: la guerra. Quella del Kosovo non è stata più spudorata e più menzognera di quella del Golfo, ma neppure delle centinaia di "guerre locali" del XX secolo. E le bugie sulla guerra umanitaria erano già state dette al momento della prima guerra mondiale e in tanti altri casi. Questo capitalismo, insomma, non mi sembra in grado di compiere una qualsiasi "rivoluzione", ma si limita a ricorrere a un vecchissimo e squallido armamentario. Lo diciamo per ricordare che se i capitalisti per decenni avevano dovuto arretrare di fronte a una grandissima ascesa della classe operaia, oggi dobbiamo cercare di capire cosa la aveva consentita, e cosa ha permesso invece la loro rivincita. La storia non è finita!

(il testo è del 20 luglio 2001, e ha subito solo ritocchi e aggiornamenti marginali. Antonio Moscato)

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La Palestina e l'ONU

Il "processo di pace" tra Israele e OLP è stato molto discusso dai palestinesi e in tutto il mondo. Il nostro compito è quello di capire, non di giudicare. Ma prima di tutto dobbiamo capire e ascoltare anche chi non lo condivide, invece di cedere alla pressione dei mass media che bollano come estremista e fondamentalista chiunque esprime dubbi o critiche.

Ma in ogni caso appare evidente che in questo processo la responsabilità dell'ONU (nel bene e nel male) è scarsa. Come per l'accordo che ha portato alle prime elezioni multietniche in Sudafrica, bisogna guardare più ai rapporti di forza interni che alle risoluzioni dell'ONU. Sul Sudafrica ce ne sono state tante, ma non avevano smosso il governo razzista come la sconfitta subita a Cuito Cuanavale da parte delle forze cubane che collaboravano col governo angolano contro l'aggressione dell'esercito sudafricano. D'altra parte l'embargo decretato dall'ONU nei confronti del Sudafrica razzista non è mai stato applicato dai principali paesi capitalistici, a partire dagli Stati Uniti (e non esclusa l'Italia).

Analogamente le tante risoluzioni delle Nazioni Unite sul ritorno dei palestinesi non sono mai state seguite da misure concrete. Sia quelle ambigue, come la 242 (che prevedeva il ritiro di Israele da e non dai Territori occupati e che parlava solo dei profughi palestinesi anziché del popolo), sia quelle che enunciavano bei principi e parlavano dei Diritti inalienabili del popolo palestinese, come la 3236, non sono state applicate. La stessa risoluzione 181 del novembre 1947 (che a ragione i palestinesi non potevano accettare perché offriva allo stato sionista territori più grandi di quelli già acquistati) è stata violata ulteriormente sulla base dei rapporti di forza militari, lasciando a Israele già nel 1949 ben più di quanto originariamente previsto.

Tanto meno è stata presa qualche misura verso Israele per l'assassinio nel settembre 1948 del mediatore dell'ONU, il conte Bernadotte, "colpevole" di aver proposto il rientro dei palestinesi.

La questione palestinese è dunque una delle tante prove dell'incapacità dell'ONU di risolvere i problemi dei popoli. E non occorrevano le verifiche di quest'ultimo tragico quinquennio, con la guerra del golfo, la spedizione in Somalia, la vergognosa ambiguità (tra passività e bombardamenti iniqui) nella ex Jugoslavia per capire l'impotenza dell'ONU: di esempi nel corso della sua storia ne ha forniti fin troppi, dalla guerra di Corea a quella di Indocina, dall'intervento nel Congo ex belga (che permise l'assassinio di Lumumba, che all'ONU aveva chiesto aiuto) alla mancanza di ogni azione per fermare l'aggressione sudafricana e mercenaria in Angola e Mozambico. E potremmo parlare anche dell'Afghanistan, di Timor Est, di Cipro, della repubblica Saharawi, del Libano...

I successi veri dell'ONU sono pochi. Ma dietro di essi, ad esempio il riconoscimento dell'indipendenza della Namibia, c'è sempre stato un mutamento dei rapporti di forza, come la dura sconfitta inflitta al Sudafrica a Cuito Cuanavale che ricordavamo prima. Per non parlare del Vietnam, che ha dovuto lottare duramente per ventun anni per ottenere quanto sancito dalla conferenza di Ginevra.

Gli organismi internazionali: illusioni e realtà

Potremmo aggiungere che per chi ha continuato a utilizzare l'analisi marxista dei processi questo presunto "fallimento" dell'ONU non ha rappresentato una sorpresa. Lenin aveva definito un consorzio di briganti imperialisti la Società delle Nazioni che precedette l’ONU. Servì a una spartizione del bottino (soprattutto le colonie tedesche) tra i vincitori, e si dissolse miseramente allo scoppio della seconda guerra mondiale, senza aver fermato un solo conflitto nel periodo tra le due guerre .Trotskij considerò una prova in più dell'involuzione burocratica dell'URSS la sua entrata in quell'organismo nel 1934. Nel 1929 la crisi mondiale capitalistica aveva spazzato via in un momento tutte le chiacchiere sulla soluzione delle controversie internazionali senza ricorrere alla guerra, nonché i bei progetti di unità doganale ed economica europea che Aristide Briand aveva formulato pochi mesi prima proprio dalla tribuna della Società delle Nazioni. La grande crisi aveva fatto saltare tutti gli accordi per regolare il mercato, e presto la guerra vera e propria avrebbe preso il posto di quella doganale e commerciale. Già nel 1933 d'altra parte erano uscite Germania e Giappone. Quel che è grave è che entrando in un organismo ormai impotente ed inutile, Stalin doveva rinunciare comunque a denunciarne il carattere di strumento di mediazione tra le principali potenze imperialiste (ma ormai il termine imperialista era usato dall’URSS solo propagandisticamente per bollare il nemico di turno, escludendo gli ambigui alleati: fino al 1939 vengono caratterizzate così soltanto Germania, Italia e Giappone, e non Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti, poi ci sarà un'inversione di ruoli fino al 1941, che sarà capovolta nuovamente dopo l'aggressione da parte delle potenze dell'Asse).

Società delle Nazioni e ONU d'altra parte sono e si considerano eredi delle conferenze internazionali che dal Congresso di Vienna del 1814 a quelli di Berlino sui Balcani del 1878, o sulla spartizione dell'Africa nel 1885 hanno visto le grandi potenze europee accordarsi per imporre il loro ordine iniquo.

L'ultima conferenza internazionale prima della grande guerra si era tenuta a L'Aia sul disarmo universale per iniziativa di Nicola II, preoccupato del ritardo della Russia nella corsa agli armamenti. Era stata salutata da tutti gli imbecilli come la garanzia della pace universale, e a Nicola II era stato offerto per questa ragione il primo premio Nobel per la pace. Grazie al rifiuto dello zar, la lunga serie dei Nobel per la pace non iniziò con uno dei più’ grandi guerrafondai e assassini della storia, anche se ce ne saranno poi moltissimi negli anni successivi: tutti i premi Nobel dalla fondazione al 1914, d'altra parte, dimenticarono le belle chiacchiere sulla pace e la cooperazione internazionale per cui erano stati premiati, schierandosi col proprio imperialismo all'inizio della guerra! (Si rinvia a questo proposito alla Scheda su Premi Nobel per la pace e guerre mondiali, apparsa in "A sinistra" n.3/4, marzo aprile 1990 e inviata in appendice all’articolo su Kofi Annan nel n. 51 di BaRoNews. È possibile richiederla, scrivendo a questo indirizzo e.mail).

Tenere presente questo divario tra belle formulazioni astratte e concrete condizioni che determinano le guerre e gli stessi accordi di pace, non significa escludere la necessità di conferenze internazionali, che sono ovviamente sempre necessarie per concludere un conflitto o almeno utili per verificare i diversi punti di vista e identificare le basi per una convergenza. Ma è necessario evitare le illusioni che di per sé siano risolutive. Ad esempio la polemica di molti settori palestinesi verso la parola d'ordine dell'OLP su una conferenza internazionale (che veniva immessa d'ufficio a Tunisi nei comunicati dell'Intifada che non vi facevano riferimento) si è rivelata fondata: la soluzione della questione palestinese, se soluzione è, non è comunque venuta in questo modo, ma per effetto di trattative dirette bilaterali e multilaterali, in cui hanno pesato, nel bene e nel male, i rapporti di forza interni e internazionali. (Questa era la formulazione usata prima dello scoppio della seconda Intifada, che ha dimostrato che i cosiddetti "accordi di pace" non venivano considerati tali da una parte importante del popolo palestinese. Nota di aggiornamento del settembre 2002).

La riforma dell’ONU

Anche i più ottimisti tra i "pacifisti" non possono eludere oggi un bilancio sostanzialmente negativo dell'operato dell'ONU. Tuttavia, aggiungono, non va bene l'ONU così com'è, ma si potrebbe e dovrebbe riformarla. A parte il fatto che è assai problematico imporre un cambiamento a chi detiene il controllo dell'ONU, e si è già visto che quando un organismo collegato alle Nazioni Unite come l'UNESCO ha assunto posizioni sgradite agli Stati Uniti, questi si sono ritirati mettendolo in crisi economicamente e politicamente (come hanno rifiutato la sentenza della Corte internazionale dell'Aia che li condannava per aver minato i porti nicaraguensi), vale la pena di entrare nel merito dei progetti non solo dal punto di vista della realizzabilità, ma anche della concretezza e capacità di incidere sui problemi reali.

Tutte le proposte partono da un'attribuzione della colpa principale delle disfunzioni al solo Consiglio di Sicurezza, e al fatto che solo cinque paesi hanno il diritto di veto. È verissimo che la Gran Bretagna nelle Malvine, la Cina nel Tibet, la Francia nel Ciad e in tanti altri paesi africani, l'URSS-Russia dall'Afghanistan alla Cecenia, per non parlare degli Stati Uniti, non hanno certo le carte in regola; dal punto di vista del rispetto delle minoranze, dei conflitti con Stati vicini o lontani, ecc. Ma la prima obiezione è che il diritto di veto non è stato usato mai negli ultimi anni per bloccare l'avallo a un'operazione ingiusta come la Guerra del Golfo o "Restore Hope" in Somalia. La seconda è che in molte fase dell'intervento nella ex Jugoslavia, quando non c'erano le condizioni per ottenere un pieno avallo dell'ONU, è stata passata la palla ad altri organismi come la NATO o la CE, senza che l'ONU battesse ciglio.

Alcune delle proposte di riforma sono più praticabili, ma poco convincenti ai fini che ci si propone: che garanzie di maggiore democrazia ci sarebbero se entrassero Germania e Giappone come membri permanenti? E se entrassero anche India, Brasile e Nigeria, o la Lega Araba, come è stato proposto, che apporto alla pace potrebbero dare, con i governi che si ritrovano?

Una proposta ancor più diffusa è quella di sottrarre poteri al Consiglio di Sicurezza, aumentando quelli dell'Assemblea generale. Ma questa da chi è composta? Basta scorrere l'elenco dei membri attuali dell'ONU per vedere che poco più del 10% di essi ha una pur discutibile democrazia al proprio interno ( e tra questi paesi, ci sono proprio i detentori imperialisti delle ricchezze del pianeta, che grazie alla loro potenza economica possono permettersi il "lusso" di un regime democratico, che è praticamente impossibile nei paesi sempre più impoveriti in cui governanti asserviti all'imperialismo e sotto la tutela di BM e FMI "devono" reprimere le masse disperate).

Sarebbe bene non dimenticare mai in che mondo viviamo. Perfino il Papa lo ha ricordato denunciando tra i mali dell'Africa i governanti che facilitano il saccheggio del loro paese. Ma lo stesso si potrebbe dire per la maggior parte dell'America Latina e dell'Asia, mentre è inutile appellarsi alla "coscienza dell'Europa", che insieme agli Stati Uniti e al Giappone ha le maggiori responsabilità nello sfruttamento del resto del mondo.

Una proposta emersa più di recente nel movimento della pace, e che tiene conto in parte di queste obiezioni, riprende una parola d'ordine lanciata in passato da certi settori della ex "nuova sinistra": "l'ONU dei popoli". Uno slogan che non si poteva neppure definire utopistico (l'utopia può essere una grande forza) ma semplicemente campato in aria, almeno nelle sue prime formulazioni (ciascuno si autoproclamava rappresentante del suo popolo, anche se a mala pena era seguito da tre persone).

La variante più recente è più sofisticata, prevede una rappresentanza tripartita: i governi, gli eletti direttamente dal popolo, le ONG. Ma è ugualmente campata in aria: se i governanti corrotti nel 90% dei paesi del mondo controllano le elezioni che li legittimano, perché non dovrebbero poter controllare quella di un organismo sovranazionale che potrebbe creare loro dei problemi? E quanto alle ONG, di cui ce ne sono migliaia e migliaia di ogni tipo, chi deciderebbe quali e come dovrebbero scegliere i rappresentanti della "terza componente" dell'Assemblea generale?

Molte ONG svolgono un lavoro prezioso, che può dare un grande contributo alla pace (in Somalia ad esempio avevano fatto cose utilissime per la ricostruzione di un'economia di sussistenza autosufficiente e legata alle tradizioni scalzate dagli interessati "aiuti internazionali, prima che l'intervento "umanitario" mandasse tutto all'aria), ma sulla loro capacità di rappresentanza esistono molti dubbi. A meno che la loro presenza non sia solo simbolica e propagandistica, come è accaduto alla Conferenza parallela sulle donne di Pechino, a cui di fatto sono andate sostanzialmente quelle che potevano pagarsi il viaggio.

Il discorso è duro e può essere sconvolgente per chi è abituato a pensare che basta predicare (soprattutto alle pecore) una dieta vegetariana per le tigri per eliminare il male dal mondo. Ma va fatto, perché non c'è peggiore pericolo per la causa dell'emancipazione dell'umanità che l'autoinganno. […]

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Appendice all’articolo su l’ONU e la Palestina

Chi c’è (e chi non c’è) all’ONU

Molte delle illusioni sull’ONU che vengono riproposte all’interno della stessa sinistra antagonista si reggono su una scarsa attenzione alla sua organizzazione e composizione. Eppure quando si esamina il comportamento di questo organismo in alcuni momenti cruciali non c’è dubbio che nell’Assemblea generale sono stati determinanti i voti di paesi i cui governanti erano semplici marionette nelle mani degli Stati Uniti (la maggior parte delle dittature latinoamericane) o della Gran Bretagna (gli Stati del vicino e medio oriente).

Prendiamo proprio in esame i paesi di quell’area. Il più importante di essi, l’Egitto nel 1947 (quando l’ONU vota l’iniqua spartizione della Palestina),era governato da Faruk, un re imbelle e corrotto completamente manovrato dai consiglieri britannici, mentre in Transgiordania il re Abdallah era ancor più una creatura dei britannici: come suo fratello Feisal, "re dell’Iraq", era uno dei figli di quello sceriffo della Mecca arruolato da Lawrence d’Arabia per la guerra contro i turchi con la promessa di un grande regno arabo. Paracadutato in una terra in cui non aveva la minima radice, dovette governare appoggiandosi su una "legione araba" inquadrata dagli inglesi e reclutata tra le tribù beduine provenienti dal cuore dell’Arabia, a 1000 o 1500 km di distanza da quello Stato inventato per dividere la Palestina storica. Ma almeno la Giordania, dopo le annessioni del 1949, aveva una superficie pari a un terzo dell’Italia, e una popolazione di poco più di un milione di abitanti (1.300.000 nel 1956). Invece il Kuweit aveva appena 200.000 abitanti, quasi tutti immigrati senza diritto di voto, la Costa dei Pirati, diventata poi Emirati Arabi Uniti, 80.000 abitanti, il Bahrein 112.000, il Qatar 30..000. Dopo dieci anni (e la scoperta del petrolio anche nel suo territorio) il Qatar aveva raddoppiato la popolazione. Oggi ha 747.000 abitanti, in gran parte immigrati non arabi, quindi senza diritti, e ha un prodotto interno lordo pro capite di 23.000 dollari, più o meno come l’Italia o il Kuweit (in Iran è di 5.000 $, in Iraq di 2.400, in Afghanistan di 800 $). Ovviamente il PIL è calcolato facendo una media tra i pochi miliardari in dollari, e i tanti disoccupati, senza casa, senza diritti…

Ci siamo soffermati sul Qatar, uno Stato del tutto artificiale e per giunta minuscolo (la cui superficie, una volta definiti un po’ meglio i confini, è risultata della metà di quella accreditata cinquanta anni fa: 11.000 kmq, anziché 22.000) perché è stato prescelto per ospitare a Doha la sessione del WTO di quest’anno, che doveva tenersi a Washington. Non c’è dubbio che in un simile paese è difficile organizzare qualsiasi contestazione!

Tutti questi staterelli, inventati in varie fasi per staccarli da altri Stati meno controllabili (ad esempio il Kuweit dall’Iraq) vennero a mano a mano inseriti nell’ONU, mentre ne restarono esclusi i palestinesi e i curdi, che pure erano entrambi da soli più numerosi degli abitanti di tutti i paesi in cui fu suddivisa la penisola arabica.

Ma anche gli Stati corrispondenti a formazioni storiche, come l’Iran, paese di antica civiltà e con grandi città (ad esempio già nel 1949 Teheran aveva superato di parecchio il milione di abitanti), erano rappresentati da fantocci dell’imperialismo. Fino alla rivoluzione del 1979 il regime dello scià non si limitava ad assecondare gli Stati Uniti, ma esercitava in una vasta area una funzione di "gendarme" (dagli emirati e dall’Oman, alla Somalia e al Sudan).

Anche l’Iraq era stato a lungo un baluardo dell’imperialismo britannico, con un re straniero, e un esercito inquadrato da ufficiali inglesi, fino alla rivoluzione del 14 luglio 1958, che fece letteralmente a pezzi il re e il suo onnipotente consigliere Nuri Said. L’Iraq peraltro era stato costruito assemblando due province ottomane (i vilayet di Bagdad e Basra, da cui era stato staccato il Kuweit), con l’aggiunta successiva di una parte del territorio curdo più ricco di petrolio.

Il Libano, che era stato creato per dividere la Siria, era ancora più artificiale, e aveva richiesto ai suoi protettori francesi uno sforzo di ingegneria costituzionale per suddividere le cariche dello Stato tra le varie comunità religiose. Ma quando nel 1958 gli echi della rivoluzione irachena avevano fatto temere un successo delle forze laiche e antimperialiste, era giunta la VI flotta USA con 5.000 marines a puntellare il regime, mentre paracadutisti britannici facevano lo stesso in Giordania.

Tuttavia gli stessi paesi che avevano portato a termine rivoluzioni nazionaliste e potenzialmente antimperialiste (per primo l’Egitto nel 1952, che pure aveva resistito al tentativo di piegarlo con l’aggressione militare franco-britannica-israeliana del 1956, poi l’Iraq), avevano trovato prima o poi un modus vivendi con l’imperialismo, tanto più in quanto le loro rivoluzioni erano state sfalsate nel tempo, e non era stato facile coordinarle (si pensi al fallimento dei tentativi di Nasser in tal senso).

Comunque il funzionamento delle Nazioni Unite ha avuto una trasformazione nel tempo, e ha modificato il comportamento degli Stati Uniti nei suoi confronti. Prima dell’ondata di decolonizzazione dei primi anni ’60 la maggioranza dell’assemblea generale (composta fino al 1955, quando entra l’Italia con altri Stati, dai soli 50 Stati fondatori) era assolutamente allineata con gli Stati Uniti, ed era l’URSS a boicottarla, rifiutando di pagare le spese per alcune "operazioni di pace" chiaramente ostili nei suoi confronti. Ma l’ammissione di molti Stati ex coloniali, e il ruolo crescente del movimento dei "paesi non allineati" sorto a Bandung nel 1955 per iniziativa di leader carismatici come Tito, Nehru e l’indonesiano Sukarno (ma a cui si aggiunse dal 1959 la Cuba di Castro e Guevara), ha reso poi l’assemblea assai meno docile ai voleri degli Stati Uniti, che hanno cominciato a boicottarne il funzionamento rallentando il pagamento delle quote annuali necessarie al mantenimento dell’enorme apparato. Le quote sono previste in proporzione alla potenza economica, per cui gli Stati Uniti dovrebbero contribuire per il 25% al bilancio (insieme agli altri paesi del G8 coprono quasi i tre quarti dei contributi, le altre nazioni il resto).

Ma alcuni elementi hanno reso poco significativa questa trasformazione. Prima di tutto il permanere del diritto di veto per i cinque paesi membri permanenti del Consiglio di Sicurezza (Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna, Cina nazionalista e URSS) ha permesso di rendere vani molti voti dell’assemblea generale. Anche quando nel 1971 la Cina popolare viene ammessa finalmente all’ONU, scacciandone la Cina nazionalista di Taiwan, le cose non cambiano molto, perché Pechino ha stabilito ormai relazioni privilegiate con gli USA in nome della lotta contro il "socialimperialismo sovietico", e ha quindi relegato la fraseologia rivoluzionaria a una funzione puramente ideologica e di immagine. Come oggi la Russia e prima l’URSS, nei momenti decisivi la Cina si astiene o esce dalla sala per non esercitare il diritto di veto. Quindi il Consiglio di Sicurezza è di fatto l’organo in cui si realizzano le mediazioni tra gli interessi in parte divergenti delle maggiori potenze.

Nell’Assemblea generale, d’altra parte, spesso le risoluzioni sono volutamente ambigue, un po’ per la speranza di non vedersele annullare dal Consiglio di Sicurezza, un po’ per altre ragioni: anche tra i paesi di nuova indipendenza che fanno parte del Movimento dei non allineati, molti hanno legami profondi con la vecchia potenza coloniale, o ne hanno stabiliti di nuovi con altri paesi imperialisti. Alcuni sono paesi piccolissimi. Tra i paesi africani ammessi all’ONU negli anni ’60 ce ne sono 6 con meno di un milione di abitanti e ben 24 sotto i dieci milioni, e per giunta quasi tutti poverissimi. In America ci sono Stati come Bahamas, Barbados, Grenada, Guyana, Suriname, con una popolazione tra i 100.000 e un milione di abitanti, in Oceania diversi "Stati" con poche migliaia di abitanti, tra cui Nauru (famoso paradiso fiscale, dove sono finiti miliardi di dollari rubati in Russia) e Tuvalu che ne hanno meno di dieci mila (ma quest’ultima non è ancora stata ammessa all’ONU, di cui fanno parte invece perfino Andorra e San Marino). Svizzera e Vaticano non ci sono per scelta propria. (Recentemente la Svizzera ci ha ripensato. Nota di aggiornamento, 27/9/2002).

La partecipazione di rappresentanti di quei minuscoli paesi ai lavori delle Nazioni Unite (che pure offrono a un piccolo paese il grande vantaggio di entrare in rapporto con tanti Stati con cui non è possibile avere uno scambio diplomatico diretto) è costosa e spesso viene "sponsorizzata" indirettamente da una delle potenze imperialiste (certo non ne hanno bisogno i paradisi fiscali come il Liechtenstein, che ha solo 25.000 abitanti, ma un PIL pro capite di 37.000 $ annui…). Per un certo tempo, prima del 1989, alcuni paesi africani che si sono schierati nell’area sovietica, pur non differendo molto dai loro vicini proimperialisti, per partecipare alle sessioni dell’Assemblea generale hanno avuto analogamente bisogno dell’appoggio economico dell’URSS. Che tuttavia (contrariamente alla mitologia dei nostalgici del "campismo") ha sempre trovato un accordo di convivenza con l’imperialismo statunitense, basata sul fatto che ciascuna delle due maggiori potenze ha denunciato con grande foga le malefatte dell’altra, ma in realtà ciascuna si è occupata del proprio "orto riservato" senza mettere il naso in quello dell’altra (salvo quando riteneva che fosse stato pericolosamente violato l’equilibrio strategico, come avvenne nel caso dei missili sovietici a Cuba nel 1962).

Basti pensare al modo con cui Patrice Lumumba, che nel 1960 aveva chiesto aiuto all’URSS contro la secessione appoggiata dai paracadutisti belgi, fu convinto dai sovietici a chiedere l’intervento dell’ONU, che coprì invece gli aggressori e lasciò che Lumumba fosse rapito e consegnato ai suoi peggiori nemici che lo assassinarono. Sul ruolo vergognoso dell’ONU in quella crisi scrisse pagine sferzanti Ernesto Che Guevara.

Viceversa l’invasione sovietica dell’Ungheria nel 1956, contro un governo riconosciuto dall’URSS come legittimo fino al giorno prima e indubbiamente appoggiato da un largo consenso popolare, suscitò violente ma platoniche denunce pubbliche, mentre in via riservata (si è scoperto dopo decenni negli archivi del Dipartimento di Stato americano) si assicurava l’URSS che gli USA non avevano nessun interesse all’Ungheria. Come a dire: fate pure.

Alcuni degli apologeti dell’ONU mettono nel suo bilancio la decolonizzazione politica, attribuendone il merito a una risoluzione dell’Assemblea generale del 1960 e al Comitato speciale per la decolonizzazione creato nel 1961 e ampliato nel 1962. In realtà il merito dell’ondata di decolonizzazione va alla crisi morale, materiale e militare delle potenze coloniali nel corso della seconda guerra mondiale (soprattutto la Francia, ma anche Belgio e Olanda, che furono invasi dalle truppe naziste, mentre la stessa Inghilterra si trovò a lungo in notevoli difficoltà), poi alla grande umiliazione inflitta nel 1954 dai Vietcong alla Francia a Dien Bien Phu, che accelerò la lotta in tutte le colonie francesi.

Che ha fatto l’ONU invece tra il 1960 e il 1975 per far cessare la vergognosa dominazione portoghese in Angola, Mozambico, Capoverde e Guinea? Nulla: è stata la "rivoluzione dei garofani" in Portogallo a consentire il successo di una lotta sanguinosissima che durava da anni. E quando il Sudafrica razzista si è sostituito ai portoghesi (come gli Stati Uniti in Vietnam dopo il ritiro francese) attaccando direttamente l’Angola e indirettamente il Mozambico, che ruolo ha avuto l’ONU? Nessuno. Senza l’aiuto generoso dei cubani quei paesi sarebbero stati ridotti in una nuova schiavitù.

Anche l’indipendenza della Namibia dalla dominazione sudafricana, che gli esaltatori dell’ONU ascrivono a suo merito, è stata invece causata soprattutto dalla pesante sconfitta inflitta al Sudafrica dai cubani insieme agli angolani a Cuito Cuanavale. L’ONU al massimo ha fatto la "registrazione notarile" di un cambiamento che obbligava i razzisti sudafricani a una svolta profonda anche in patria, tirando fuori Mandela dal carcere in cui era stato gettato per 27 anni come "terrorista" per affidargli il difficile compito di guidare il paese a una pacificazione (e di convincere la maggioranza nera ad accettare che terre e proprietà restassero nelle mani dei vecchi dominatori).

Viceversa si sono registrati alcuni casi di esclusione basata su criteri politici per lo meno discutibili. A parte la Cina fino al 1971, che era già un caso macroscopico, dopo la dissoluzione della grande Jugoslavia è stata tenuta in quarantena per anni la piccola Jugoslavia (Serbia e Montenegro), mentre sono state riconosciute tutte le altre repubbliche, compresa la Croazia di Tudjman, colpevole di gravissime violazioni dei diritti delle minoranze e di crimini non minori della Serbia di Milosevic. Oppure il riconoscimento è stato negato per anni al governo esistente, congelando invece per anni la delegazione del precedente regime: sembra incredibile, ma è accaduto con la Cambogia, dove la delegazione ammessa per anni era quella degli Khmer rossi, barbarici e criminali stalinisti responsabili della morte di un milione e settecentomila cambogiani; e non quella del governo filovietnamita che ne aveva preso il posto nel 1979. Ma gli Khmer rossi erano filocinesi e antivietnamiti, quindi antisovietici, e venivano protetti per questo dagli occidentali!

Naturalmente il bilancio più negativo dell’ONU riguarda quello che non ha fatto, i troppi casi di inerzia, di ambiguità, di passività, o di interventi tardivi quando i massacri erano avvenuti (il caso più chiaro è quello di Timor Est, in cui si promuove un referendum dopo anni di massacri impuniti, ma prima di intervenire si aspetta che gli indonesiani perdenti possano massacrare i "vincitori" per oltre un mese). Ma l’ONU non ha risolto nulla in troppi altri casi, dalla repubblica Saharawi invasa dal Marocco a Cipro, per non parlare della Palestina o del Kurdistan… E in troppi altri casi ha lasciato fare o anche delegato formalmente a organizzazioni locali non rappresentative (Nato, Organizzazione degli Stati Americani, idem per l’Africa, ecc.).

Nessun impegno e neppure una protesta per la mancata attuazione delle risoluzioni più reclamizzate come "apporto positivo" dell’ONU, da quelle contro l’embargo a Cuba a quelle per il ritiro di Israele dai territori palestinesi occupati. Le richieste palestinesi non sono mai state accolte, anche quando chiedevano un minimo di osservatori internazionali. Già questo renderebbe scandaloso il premio Nobel a Kofi Annan, se non fosse per il gran numero di criminali e guerrafondai che sono stati premiati nel corso di un secolo (…). L’anno prossimo il premio lo daranno perfino a Sharon, se accetterà di ritirarsi ?

Inoltre va ricordato a chi chiede sempre l’intervento dell’ONU, che di esso fanno parte organismi come il FMI e la Banca Mondiale, responsabili dell’affamamento e della crisi sociale di tutti i paesi indebitati (dove questi organismi fanno la parte degli esattori per gli strozzini internazionali che hanno ridotto in miseria tanti paesi). E in questi organismi (nati insieme all’ONU nel 1945, e parte integrante della sua struttura) la democrazia è tanto sviluppata che non si vota per paese ma direttamente per capitali, sicché i paesi poveri non contano niente neppure formalmente. Vogliamo riformarli? Ma quale dei tanti paesi imperialisti che spadroneggiano in tutte le organizzazioni internazionali appoggerà la minima riforma democratica che limiti le loro azioni?

(29 ottobre 2001)

NOTA FINALE

Riproducendo scritti di periodi diversi, e con differenti scopi, ovviamente si possono trovare alcune ripetizioni (altre sono state eliminate, ma in certi casi era impossibile farlo senza impedire di capire il ragionamento che si stava facendo).

Lo scopo di questo dossier è semplicissimo: fornire alcuni elementi sui precedenti comportamenti dell’ONU, che vengono sistematicamente "dimenticati" da chi come Fassino (ma anche come non pochi "pacifisti") continua a delegare all’ONU il compito di salvare la pace. Quanto all’altro mito, "il ruolo di pace dell’Europa", lo affronteremo più sistematicamente di quanto fatto in questi scritti, anche alla luce di alcune verifiche di come si concretizzeranno le differenziazioni da Bush fatte in periodo elettorale da Schröder e Fischer, subito ridimensionate appena un giorno dopo il voto, quando Fischer è volato a Londra per chiedere a Tony Blair di impegnarsi per "ricucire" il rapporto tra il governo tedesco e Bush. Subito dopo Schröder e Fischer hanno deciso l’invio di truppe in Afghanistan, fingendo di ignorare (come ha fatto parte del centri sinistra italiano) che servivano per consentire lo spostamento di reparti scelti statunitensi e britannici da quello sventurato paese all’Iraq. Su questo rinviamo al commento sui risultati elettorali tedeschi inviato in rete pochi giorni fa. Chi non lo avesse ricevuto lo può richiedere scrivendo all’indirizzo e.mail: moscato@ilenic.unile.it (a.m., 27/9/2002)