Spese militari,
profitti e segreti di stato
Un'analisi
cruda degli sporchi interessi che stanno dietro le politiche di guerra dei
maggiori paesi imperialisti del mondo. Di Michele Basso. Reds – Aprile
2007.
In un vecchio articolo di Sbancor (1) sulle cause della guerra in Iraq (ritrovato
in internet) si legge:
“Guerra per mantenere il nostro stile di vita, guerra per continuare
a consumare l’80% delle risorse in solo 7 paesi del mondo, guerra per
le nostre belle automobili, guerra per la tv a colori, guerra per salvare
le nostre belle banche, guerra per continuare ad ingrassare, mentre altrove
c’è il problema della fame, guerra per le nostre malattie cardiovascolari
e per i by pass, guerra per poter continuare a leggere su tutti i giornali
che questo è il miglior mondo possibile nel migliore dei mondi possibili.
Guerra per non finire come l’Argentina.”
Bello e coinvolgente, ma abbastanza lontano dall’individuazione delle
vere cause della guerra.
In fondo, descrive i paesi del nord del mondo proprio come li rappresenta
la propaganda ufficiale, considerando negativo ciò che essa dichiara
positivo. Mancano, in questa analisi, le classi sociali. Questi paesi, caratterizzati
da un ceto uniforme dall’alto tenore di vita, esistono solo nella propaganda.
Ci sono i disoccupati, ci sono i salariati a mille euro al mese, i pensionati
col minimo. Anche in America ci sono gli operai cinquantenni che hanno perso
il posto in fabbrica e ora confezionano panini con un salario dimezzato, ci
sono i neri e i latino-americani discriminati. Molti, tra coloro che continuano
a mantenere un tenore di vita alto, hanno già impegnato in acquisti
a rate buona parte del salario dei prossimi anni. L’aristocrazia operaia
degli anni cinquanta e sessanta è ormai un ricordo. Crescono ogni giorno
le differenze sociali, che stanno divenendo abissali.
La guerra non è a responsabilità collettiva, le decisioni passano
sulla testa della gente, spesso anche dei parlamentari. Non è neppure
un arrogante mediocre come Bush a decidere. L’imperialismo è
dominato dalla borse, dalle banche, dal complesso industriale-militare, contro
il quale persino Eisenhower ha tuonato.
I peggiori militaristi, salvo casi eccezionali, non sono i militari, ma gli
industriali e i banchieri che della guerra fanno un affare, che esercitano
pressioni sui politici e i militari perché venga scelta, non l’arma
più pratica, ma la più costosa. Alla fine – come diceva
il manifesto di Basilea del 1912, nel condannare preventivamente la grande
guerra che si profilava all’orizzonte – “Si è
accumulata tanta polvere da sparo che le armi cominceranno a sparare da sé.”
Secondo la retorica ufficiale, lo stato democratico si differenzia da quello
dittatoriale o totalitario, perché il popolo è sovrano. Ma questo
popolo, elevato su un piedistallo a parole, in realtà è tenuto
all’oscuro, o è informato all’ultimo momento che la decisione
è già stata concordata con la Nato, o con l’Europa, con
l’ONU, con la CEI, con la giunta comunale di Vicenza, e così
via. Si è tanto celebrato il trattato di non proliferazione nucleare,
questo patto leonino, che lascia agli stati che già hanno l’atomica
il loro arsenale intatto.
Ci sono però vistose eccezioni, da Israele all’Italia; non è
un mistero che nel nostro paese sono collocate circa 90 atomiche, ma questo
non impedisce alla nostra rappresentanza all’ONU di votare le sanzioni
all’Iran.
Quando sono state portate queste bombe, chi lo ha deciso, quando sono stati
consultati i cittadini? O forse la democrazia in Italia è un guscio
vuoto?
Cinque cittadini hanno intentato una causa contro il governo statunitense
per la presenza di armi atomiche nella base Usaf di Aviano. Molti pensano
che si tratti di un’azione velleitaria, visto il precedente del Cermis:
la Cassazione condannò la Filt Cgil, costituitasi parte civile contro
il governo USA, a un risarcimento di 50 milioni di lire, data l' “immunità
di giurisdizione” degli Usa in base al trattato di Londra. Però,
come mise in rilievo Lafargue, i processi, anche quando la vittoria non è
molto probabile, hanno un grande valore politico, perché servono a
sensibilizzare settori sociali, altrimenti non influenzabili.
Non è chiaro, soprattutto, come vengono gestite le spese militari.
Si dirà che è ovvio, che si tratta di problemi di sicurezza,
e che non è possibile renderle pubbliche nei particolari. Qui si finge
di non capire. Si violano segreti militari se si vuol sapere come si spendono
i soldi pubblici, quali profitti ricavano le ditte fornitrici, comprese quelle
che hanno i lavori in subappalto? I datori di lavoro e il fisco hanno tutti
i dati sulla busta paga dei lavoratori, ma questi ultimi possono conoscere
solo i bilanci lisci, levigati, perfettamente simmetrici, che vengono pubblicati
sui giornali, non quelli reali.
Si dirà che si tratta di dati tecnici, incomprensibili ai più.
Ebbene, si tolga il segreto commerciale, e i sindacati, le associazioni, o
gruppi di semplici cittadini, mobiliteranno contabili ed esperti, pagati da
loro, perché verifichino e ne traggano conclusioni comprensibili ai
più.
Dal tempo della glasnost gorbacioviana ci hanno inondati con discorsi sulla
trasparenza, mai però ci hanno presentato qualche esempio concreto.
Non possono farci conoscere i dati reali, anche perché in tal modo
si capirebbe fin troppo bene chi detiene effettivamente il potere politico
e chi , invece, è soltanto un valletto.
Industriali e banchieri, politici e sindacalisti, fanno a gara nel cantare
le lodi del libero mercato, della liberalizzazioni riguardanti barbieri e
tassisti, ma i capitalisti non amano la concorrenza, preferiscono andare sul
sicuro, con le commesse statali.
Fin dal tempo della I guerra mondiale le forniture militari costituivano una
greppia perfetta, e molti soldati vennero mandati in guerra forniti di scarpe
con suole di cartone. Ci parlano di patria, di onore nazionale, di diffusione
della democrazia con azioni militari, di pacificazione mediante interventi,
ma la radice di tutto è da cercare negli interessi delle banche e delle
imprese fornitrici, al cui servizio i governi stanziano miliardi, sottratti
a spese sociali vitali.
Il fascismo sfacciatamente parlava di guerra, di conquiste, di impero. Non
meno militaristi dei gerarchi di allora, i politici di oggi aggiungono l’ipocrisia,
e parlano di rispetto dell’art, 11, di spedizioni di pace. I nuovi arrivati
al governo, più buffi di tutti, parlano di riduzione del danno.
C’è chi si nasconde dietro un sofisma di questo tipo. Noi saremmo
pacifisti, ma gli Stati Uniti sono la potenza egemone, impongono la loro volontà
agli alleati, ed è pericoloso contrastarli. Ma l’imperialismo
non è un comando unificato e rigido, compatto come un plotone ben addestrato.
L’imperialismo è una giungla di interessi, che si compongono
e si disarticolano secondo le convenienze, in cui una lobby potente conta
assai più di un generale o del ministro della difesa. Non sono i tecnici
a decidere quale tipo di arma o di aereo costruire, ma sono le banche e le
multinazionali, delle quali persino gli onnipotenti Stati Uniti sono uno strumento.
Quanto hanno lucrato le banche, le borse e le compagnie petrolifere per i
continui sbalzi del prezzo del petrolio determinato dagli eventi bellici del
Golfo? Il sangue umano che così copioso scorre in Iraq, Afghanistan,
Palestina, Libano, si traduce in dollari sonanti. Ecco chi ha interesse a
che la guerra non finisca presto. E il partito democratico, obbediente, mentre
finge di contrastare Bush, propone date di ritiro, lasciando tante possibilità
di modificarle. E’ evidente che si tratta solo di una manovra per confondere
l’opinione pubblica americana, stanca dei continui conflitti.
Prendiamo il caso della base di Vicenza. Quante spese, oltre quelle ufficiali,
si faranno per strade, servizi, ecc. Quanti ospedali, scuole, asili, istituti
di ricerca scientifica verranno chiusi, perché mancheranno i fondi,
spostati a favore di un’economia militarizzata? Quanto denaro è
stato speso nella propaganda per convincere il “cittadino sovrano”
che la costruzione della base darà ricchezza e lavoro, e, a differenza
delle precedenti, non porterà inquinamento, diffusione della prostituzione,
pericoli di esplosioni e di attentati, pressione poliziesca sul territorio,
ecc.
Si possono avere solo i dati ufficiali, quelli degli affari “autorizzati
dallo stato”.
Un articolo del Manifesto ne riporta alcuni significativi: “Secondo
il rapporto della Presidenza del consiglio, le vendite di armamenti all'estero
autorizzate dal governo italiano nel 2006 sono salite addirittura del 61%,
passando da 1,36 miliardi del 2005 a 2,19 miliardi.
Mentre le consegne già effettuate hanno fruttato 970,4 milioni.
Le ditte esportatrici sono sempre le stesse, Augusta (810 milioni di euro),
Alenia (311), Oto Melara (283), Avio (127), Lital (123), Selex (81,5), Aermacchi
(73,4), Alcatel Alenia (71,5), Iveco (49,6).
Delle prime dieci aziende esportatrici, ben sette appartengono a Finmeccanica
di cui lo Stato è il principale azionista. In pratica lo Stato autorizza
se stesso a vendere armamenti all'estero.”
E poi dicono che il capitalismo di stato non esiste più, anche se forse
sarebbe meglio chiamarlo “bellicismo di stato”.
Quanto alle banche, quella che ha fatto più affari nel capo militare
è la San Paolo-Imi.
“Dietro San Paolo-Imi (446,7 milioni di pagamenti ricevuti), seguono
Bnp-Parisbas (290.5), Unicredit (86,6), Bnl (80,4), Banco di Brescia (76),
Commerz Bank (74,3), Banca Popolare Italiana (60,6), Banca Intesa (46,9).
Il business va ben oltre la gestione passiva degli incassi. I flussi finanziari
legati alle armi nel 2006 sono saliti fino a 2,27 miliardi di euro (nel 2005
ammontavano a 1.775 milioni).
E poi ci sono le percentuali sulle transazioni, in pratica su ogni pagamento
le banche incassano una percentuale che varia da affare ad affare ed aumenta
a seconda del rischio. “Una vendita agli Usa o alla Gran Bretagna
- spiega Giorgio Beretta di Unimondo - può valere una percentuale
del 2-3% mentre un affare con uno stato meno sicuro, magari del terzo mondo,
permette di guadagnare fino al 10%. I compensi di intermediazione nel 2006
superano i 32,6 milioni di euro.” (2)
Questi sono i dati ufficiali, ma, soprattutto dopo i casi della Enron, della
Parmalat e della Cirio, siamo diventati tutti più sospettosi. In realtà,
è più facile conoscere, almeno in parte, i guadagni e le gigantesche
speculazioni della DynCorp e della Halliburton piuttosto che quelle delle
imprese italiane. Ed è chiaro il perché: se venissero alla luce
pienamente tutti questi affari, sarebbe assai difficile continuare a sostenere
la fola dell’Italia pacifica, che manda truppe in tutto il mondo solo
per salvare la pace, per i più nobili ideali. Cadrebbero le quinte
di cartone dietro le quali si cela una politica di rapina, nei confronti dei
lavoratori italiani e degli immigrati, e dei popoli del sud del mondo.
Note:
1) Sbancor, Casus belli: la guerra in Iraq e le sue implicazioni economiche
e geopolitiche.
2) Giorgio Solvetti, Affari d'oro per le banche armate, il manifesto, 06 Aprile2007.