GLI ATTACCHI TERRORISTI IN USA: CERCHIAMO DI CAPIRCI QUALCOSA
IL QUADRO DI INSIEME CHE PUO' PERMETTERE DI CAPIRE LA DINAMICA IN ATTO, E I TERRIBILI PERICOLI CHE VI SI NASCONDONO


13 settembre 2001, REDS

 

L'11 settembre, una serie di attacchi suicidi ha portato alla distruzione delle Torri Gemelle a New York nel World Trade Center, e al crollo di un'ala del Pentagono a Washington. Si suppone che i morti siano migliaia. Qui di seguito alcune considerazioni a caldo.

Gli attacchi terroristici hanno mostrato la grande vulnerabilità dell'impero americano, e, in generale, del capitalismo internazionale. E' sorprendente che il più potente servizio segreto del mondo non sia stato messo in allarme quando per preparare questa azione, con ogni evidenza, sono occorsi anni. Una serie di obiettivi strategici (il Pentagono) non avevano protezione antiaerea. L'Amministrazione Bush è stata in maniera palese e piuttosto vergognosa colta dal panico (la fuga sull'Air Force One durata mezza giornata). Le Borse hanno reagito come se fosse scoppiata la guerra mondiale.

Questa vulnerabilità non deve essere in alcun modo scambiata per debolezza sistemica del capitalismo USA e internazionale. Qui sta l'errore strategico del terrorismo: immaginare che questo genere di attacchi possano, prima o poi, "piegare il nemico". Non è vero e spesso è anzi vero il contrario. Possiamo operare un paragone (più che un paragone, una metafora) con le rapine alle ville degli industriali che in questi giorni hanno riacceso la campagna per la "sicurezza" in Italia, una sicurezza di cui ci si preoccupa solo quando vengono colpiti gioiellieri e imprenditori. Il fatto che i ricchi subiscano rapine e annesse violenze, dimostra certo la fallacia dei loro sistemi di protezione personale, ma in nessun modo diminuisce il potere e l'efficienza del sistema che essi dominano: il giorno dopo torneranno al lavoro, ricompreranno i gioielli perduti e studieranno nuovi mezzi in grado di proteggerli con più efficacia; come è accaduto in questi giorni, essi pretenderanno un maggiore intervento repressivo dello stato, contro una criminalità che minaccia qualche loro isolata e sostituibile proprietà. Il terrorismo dei deboli, facendo le debite proporzioni, conduce agli stessi risultati. Colpisce solo apparentemente "il nemico", nella realtà quasi sempre lo rafforza. Tra qualche giorno le Borse avranno ripreso quota (se non accadrà sarà solo a causa della recessione mondiale preesistente), i servizi segreti avranno inventato sistemi di sicurezza in grado di evitare il ripetersi di attacchi simili, e gli stati imperiali si saranno attrezzati meglio per perseguire il terrorismo internazionale. La strategia terrorista non è solo sanguinaria e ingiusta (perché colpisce in larga misura gente che non c'entra con i veri responsabili), ma anche inutile e controproducente.

Per via puramente deduttiva e correndo il pericolo di essere smentiti a breve, ci pare difficile immaginare che l'attacco possa essere attribuito ad altri se non alle correnti fondamentaliste islamiche. La vasta disponibilità di kamikaze, la popolarità di tali gesti presso un certo "pubblico", i simboli scelti (le Torri Gemelle dopo l'attentato fallito del '93) porta a queste conclusioni. Nessuno stato oggi correrebbe infatti il pericolo di essere raso al suolo dalla vendetta nordamericana. Nessuna corrente politica antiUSA sarebbe in grado di organizzare un simile attacco, o ne condividerebbe lo stile (il terrore indiscriminato).

Il fondamentalismo islamico è emerso negli anni ottanta sull'onda del fallimento di due altre correnti che si opponevano allo sfruttamento e al dominio neocoloniale di USA ed Europa su Medio Oriente e NordAfrica: la sinistra e il nazionalismo laico.

La sinistra non è mai stata molto forte in quei luoghi, ma era comunque presente con alcuni partiti comunisti in tutti i Paesi arabi, tra i palestinesi l'FPLP e il FDLP avevano una certa consistenza, ecc. La sinistra aveva assunto anche un discreto ruolo nella rivoluzione iraniana del '79. Oggi è sparita quasi completamente di scena. Ciò si deve anche alla sua scelta campista, che la spingeva ad essere in pratica, nella regione, la rappresentante degli interessi dell'URSS, dalla quale dipendeva finanziariamente, più che degli interessi nazionali arabi. La catastrofe poi si raggiunse con l'invasione sovietica dell'Afghanistan, che questa sinistra si sentì in obbligo di sostenere, quando invece a livello di massa la lotta dei mujahiddin diventava sempre più popolare e segnava un'intera generazione.

Il nazionalismo laico invece arrivò al potere in tutta una serie di Paesi nel corso degli anni cinquanta e sessanta con colpi di stato (Egitto, Siria, Iraq, ecc.) o rivoluzioni popolari (Algeria). Ma questi regimi presto persero il sostegno delle masse che li appoggiavano in funzione antimperialista (nazionalizzazione delle risorse petrolifere, ecc.) sia a causa del loro autoritarismo sia perché costituirono la nuova classe dominante locale, ricca e corrotta, profondamente integrata alle strutture statali. Sullo stesso terreno nazionale piano piano questi regimi riallacciarono i loro legami con gli imperialismi un tempo loro avversari, sino a partecipare vergognosamente alla crociata occidentale contro l'Iraq (con l'esclusione della Libia).

Ognuna di queste due correnti era portatrice di una proposta identitaria. La sinistra metteva l'accento sul terreno classista, richiamo che a causa dello scarso peso numerico della classe operaia era dotato di scarso appeal, e d'altra parte sul terreno nazionale si appiattiva sulle direzioni nazionaliste laiche, specie se queste garantivano buoni rapporti con l'URSS. Il nazionalismo laico era invece portatore di una prospettiva panaraba che, all'epoca, era molto sentita ed aveva anche una sua ragion d'essere non campata per aria. Proprio per scongiurare il sorgere di uno stato economicamente potente, infatti, i vari imperialismi spezzettarono in maniera più o meno arbitraria quella che era una nazione con una lingua e una cultura comune, la nazione araba, appunto. Dalla Tunisia sino al Kuwait si parla la stessa lingua, salvo alcune popolazioni minoritarie (i berberi, ad esempio). Ma anche su questo terreno le direzioni nazionaliste laiche tradirono le aspettative popolari: tutti i tentativi di superamento delle forme statuali ereditate e imposte dalle varie potenze fallirono, perché i ceti dirigenti di quei Paesi preferivano sistematicamente i vantaggi che derivavano loro dal mantenimento delle divisioni territoriali.

Il fondamentalismo islamico si costruisce dunque sul fallimento di queste due correnti. Esso fa la sua irruzione nei due anni successivi alla vittoria della rivoluzione antimonarchica in Iran, quando la componente fondamentalista diretta da Khomeini, marginalizza e poi fisicamente distrugge la sinistra e il nazionalismo laico iraniani.

Il fondamentalismo è portatore di un'altra proposta identitaria. Non più un discorso classista, nazionalista, panarabista, ma religioso. La religione diviene il nucleo di una proposta che si colloca comunque sul terreno nazionale, o se si preferisce, etnico. Non è il solo caso della storia, anche gli ebrei fondano la propria identità nazionale in gran parte (ma non solo) sulla religione e i costumi legati a questa. Rispetto al panarabismo la proposta fondamentalista allarga drammaticamente il numero potenziale dei destinatari del proprio messaggio: gli arabi costituiscono solo una parte, minoritaria, della popolazione islamica. Questa corrente profondamente reazionaria, antioperaia, misogina e anticomunista vuole sovrapporre alle identità nazionali una nuova identità, che può rafforzarsi nelle masse solo se trova un antagonista che le si contrapponga sullo stesso piano. Per questo in Turchia il fondamentalismo ignora le rivendicazioni curde: in Turchia, si è tutti musulmani, dunque...! Anche Hamas e la Jihad non portano avanti un discorso nazionale di rivendicazione positiva dei diritti del popolo palestinese, ma affrontano il conflitto nazionale con Israele utilizzando un altro nucleo identitario, quello religioso appunto, che bypassa il terreno linguistico, delle tradizioni, ecc. Quindi il fondamentalismo è reazionario sullo stesso terreno nazionale, dove pure si colloca, anche se in maniera sui generis: occulta le contraddizioni reali e le oppressioni che certe etnie esercitano sulle altre. Pochi sanno ad esempio che sia l'Iran che il Pakistan sono in realtà dei mosaici di popoli che parlano lingue anche completamente diverse: il fondamentalismo sciita serve a nascondere il dominio persiano su azeri, curdi, arabi, beluci, ecc. così come il carattere confessionale che il Pakistan mantiene dalla sua nascita (e sulla base del quale si è separato dall'India) serve anche a nascondere il dominio pashtun, oggi esteso anche all'Afghanistan (dove il conflitto con Massud, che controlla una parte del nord, nasconde il conflitto con la minoranza tagika).

Si tratta comunque di una corrente niente affatto omogenea, spesso in conflitto: il Massud che si scontra con i talebani è egli stesso un fondamentalista, il conflitto sunnita/sciita tra Iran e Arabia Saudita ha prodotto numerosi episodi sanguinosi, ecc. Del resto tra gli stessi fondamentalisti al potere ben pochi hanno gioito per gli attacchi sul suolo USA, per i danni che ne potrebbero derivare ai privilegi delle elites locali da una reazione spropositata USA.

Ma il discorso fondamentalista islamico, ha comunque una sua base reale, non è pura costruzione astratta. La divisione occidente cristianizzato/mondo islamico, corriponde anche ad una suddivisione mondiale delle ricchezze e della potenza. Nessun Paese imperialista, nemmeno potenziale, ha una popolazione maggioritariamente islamica. L'Islam è una delle religioni del Sud del mondo, la parte del pianeta sottoposto allo sfruttamento e al dominio militare e politico del Nord del mondo. La lettura che propongono le correnti fondamentaliste di questa opposizione si colloca sul loro terreno, quello religioso identitario. Ma è sentito dalle masse influenzate da queste correnti come uno scontro che si colloca anche sul terreno antimperialista.

Del resto è perfettamente vero che l'Occidente per primo si colloca sul terreno della "lotta tra civiltà", come la chiama qualche analista occidentale. La lotta all'Islam però non costituisce il nucleo esplicito della politica occidentale per tutta una serie di ragioni, che poi in parte vedremo. Certo però le masse islamiche hanno più di un elemento per vedere la situazione da quella particolare ottica. Se noi percorriamo la politica occidentale, condotta sul terreno militare dagli USA, vediamo come negli ultimi venti anni proprio su quelle terre si sono concentrate le "attenzioni" militari della superpotenza. Prima di tutto attraverso il sostegno ad Israele. Israele sorge sulla terra degli arabi, in cambio dell'assicurazione degli interessi occidentali nell'area (vedi "Ebrei e palestinesi nella storia: miti e realtà"). Gli USA per primi dunque, per salvaguardare i propri interessi geostrategici, attuarono dove era possibile una politica estera dai risvolti etnici, preferendo confidare su un'intera popolazione bianca, europeizzata, piuttosto che sui regimi reazionari arabi. Regimi che comunque tornavano utili in altri contesti e altre condizioni. Vi sono infatti una serie di stati fantoccio che sopravvivono solo per l'esclusiva protezione statunitense: gli stati petroliferi del Qatar, del Bahrein, dell'Arabia Saudita, del Kuwait, ecc. Paesi che sarebbero già stati abbattuti da rivolte popolari o conquistati dai più popolosi vicini se non avessero goduto di queste potenti amicizie. In cambio essi sono molto moderati nelle politiche riguardanti il prezzo del petrolio, e girano gran parte dei proventi di quella materia prima evitando di investire nei propri Paesi e depositandoli invece nelle banche occidentali (petrodollari). Altri due Paesi a religione islamica sono sottoposti a varie forme di embargo (Libia e Iran). Inoltre tutta una serie di segnali (le offerte di compromesso verso la Russia, ecc.) portano a pensare che lo scudo spaziale USA serva soprattutto in funzione antiIslam. E certo non è sfuggito all'attenzione dell'opinione pubblica islamica la complicità occidentale nei confronti del massacro perpetrato dai soldati di Putin ai danni dei Ceceni, di religione islamica.

Le ripetute sconfitte, le umiliazioni quotidiane, il collo di bottiglia costituito da regimi corrotti e tra i più reazionari al mondo hanno creato una frustrazione nazionale nelle masse islamiche crescente. E' solo tenendo presente questo quadro di riferimento che possiamo comprendere (ma non giustificare) le scene di giubilo in Iraq e Palestina dopo gli attacchi subiti da New York e Washington.

Come abbiamo più volte sostenuto sulla rivista l'analisi di classe deve essere combinata con l'analisi etnica. Nel mondo non è solo in corso uno scontro tra classi (oggi, comunque poco evidente), ma anche tra nazioni (o etnie). Solo con una lettura che utilizzi in maniera combinata la strumentazione analitica di questi due piani ci può permettere di capire perché un miliardario come Bin Laden ce la possa avere tanto con gli USA, oppure, per restare ancora nell'attualità, cosa è accaduto a Durban. Possiamo forse interpretare in termini di classe quanto accaduto alla conferenza sul razzismo? Si è trattato di uno scontro netto tra bianchi occidentali da un lato, e neri e islamici dall'altra.

Tener conto del fattore etnico significa cioé comprendere che il conflitto riguarda intere popolazioni, e non solo alcune sue specifiche classi. Con ciò non vogliamo certo dire che la cosa ci piaccia: è un disastro, ma è così. Ce ne possiamo accorgere anche nella nostra vita quotidiana, da piccoli segnali. Ad esempio il cinema hollywoodiano è ben attento in questo periodo a sfornare film più o meno rispettosi delle varie etnie (neri, ispanici, italiani, ecc.); questa attenzione però non è riservata anche alle popolazioni islamiche. Costoro sono protagoniste ad esempio di innumerevoli action movie dove, dopo il crollo dell'URSS, la parte del cattivo è spesso riservata a qualche terrorista arabo. Ma non occorre andare tanto lontano: gli immigrati non hanno vita facile in Europa, quel che è certo però che quelli che hanno la vita meno facile, sono gli arabi. Su di loro si concentra più che su altri il pregiudizio popolare. L'estrema destra europeista (anche se oggi va per la maggiore quella localista), si spende per costruire una novella identità europea proprio nello scontro con l'Islam. Il conflitto non nominato tra Islam e Occidente ha ovviamente una base materiale, gli interessi petroliferi, l'imperialismo, ecc., ma questi coinvolgono anche il piano etnico, cioé le intere popolazioni delle due parti. E ciò porta anche al cinismo di massa tipico di queste dinamiche. Sui giornali italiani ed occidentali ogni strage ai danni degli Israeliani è portata in prima pagina, ma l'analoga e quotidiana strage di Palestinesi viene rigorosamente confinata in quinta. Di questa orrenda discriminazione dei morti e delle sofferenze noi occidentali ormai nemmeno ci accorgiamo, tanto è connaturato il nostro razzismo bianco. Eppure come pensiamo che questa discriminazione possa essere vissuta dagli altri? La strage (con connivenze occidentali) che ha portato in Ruanda alla morte di più di mezzo milione di persone ha guadagnato faticosamente la prima pagina dei giornali quando ormai era gia stata portata a termine: si trattava di neri. Oggi l'orrendo crimine delle Torri Gemelle, si guadagna interi giornali. Anche noi lo avremmo fatto, ma pensiamo che la stessa dignità spetti ai morti per fame che nell'ultima settimana hanno eguagliato con ogni probabilità le vittime statunitensi.

Ed è proprio il salto di qualità che questo attentato fa compiere alla guerra sotterranea, non dichiarata, embrionale, tra Occidente e Islam a costituire il maggior pericolo degli attacchi di ieri. La strategia del fondamentalismo islamico consiste appunto nell'accettare e nell'esaltare il piano della contrapposizione Occidente/Islam, in modo da annullare le altre (di carattere nazionale e di classe). Ma in questo modo essi danno un colpo mortale all'unica possibilità che le popolazioni del Sud del mondo hanno di liberarsi dal giogo imperialista: quella di legarsi ai soggetti sociali oppressi (anche se privilegiati rispetto ai loro "omologhi" del Terzo mondo) dei Paesi imperialisti. Attacchi indiscriminati, cioé terroristici, stringono tra loro, in maniera solidale sul piano nazionale le classi sociali dei Paesi imperialisti, e annullano anche le altre contraddizioni sociali lì presenti. Un esempio concreto: la vita del movimento antiglobal sarà certo, oggi, assai più difficile dopo quei morti. Altro esempio: la solidarietà verso la Palestina era scandalosamente bassa sino ad ora, ma da qui in avanti diverrà un'impresa quasi disperata.

Il fondamentalismo islamico è stato per anni favorito da USA ed Israele. Israele l'ha sostenuto negli anni ottanta in chiave anti-Arafat e anti-sinistra. Gli USA reggono regimi monarchici fondamentalisti come quello dell'Arabia Saudita. Infine, gli USA sono alleati del Pakistan che ha organizzato la vittoria in Afghanistan dei talebani. Lo stesso Bin Laden è stato finanziato e addestrato dalla CIA in funzione anti-URSS.

Perché dunque questa corrente è così poco riconoscente verso chi le ha concesso tanti spazi? Il fondamentalismo non è mai stato una creazione degli USA, esso è espressione di una dinamica sociale: tra loro c'è stato un rapporto reciprocamente opportunista. Ma esso può dilagare tra le masse, solo se mantiene le promesse della sua proposta, e cioé quello di attuare lo scontro con l'imperialismo sul terreno ritenuto (a torto, come abbiamo visto) più favorevole: quello religioso.

Per questo la situazione degli USA è oggi terribilmente difficile: per gli USA sarebbe disastroso nominare il latente conflitto Occidente/Islam: essi basano largamente la propria sicurezza militare ed economica sul rapporto con alcuni Paesi di fede islamica (Arabia Saudita, Pakistan). Eppure gli attentati hanno proprio lo scopo di portare lo scontro su quel terreno. Se gli USA lo rifiutano rischiano un tracollo della fiducia sulla quale si basa la delega a mantenere l'ordine planetario affidato dalle classi dominanti di gran parte del mondo, oltre che una grave crisi interna. Del resto se rispondono non possono che colpire degli alleati, alleati che però basano gran parte del proprio consenso sociale interno sul fattore religioso, cosa che appunto impedisce loro di essere duri con i fondamentalisti.

Del resto la strategia terrorista porta in un vicolo cieco la lotta delle masse arabe, islamiche, ecc. Possiamo tentare un paragone, fatte le debite proporzioni, con gli attacchi suicidi dei palestinesi: sono espressione tragica, disperata e sanguinaria, di chi è impotente e debole. Di chi, semplicmente, non può permettersi di affrontare in campo aperto il nemico, perché incommensurabilmente più debole militarmente. Pochi in queste ore si stanno fermando a riflettere sulla figura del kamikaze. Proviamo a pensare: quanti kamikaze troveremmo in Italia disponibili ad immolarsi sull'altare di una qualsiasi causa? Siamo certi: nessuno. E perché invece per questi attentati ne saltano fuori a centinaia? Una serie di interviste apparse sui giornali italiani a kamikaze palestinesi presi prima di farsi saltare in aria, in parte ci illuminano. Gran parte di essi non sono affatto mossi da fanatismo religioso, ma da una disperazione fatale, una incapacità di vedere un futuro, una rabbia cieca di fronte alla potenza dell'avversario. Ma il terrorismo dirige questa rabbia, causata da ingiustizie reali verso uno sfogo liberatorio, ma completamente inutile. Esso colpisce persone innocenti, quando invece il terrorismo sionista è ben più mirato: elimina dirigenti, attivisti, conquista posizioni, ecc. Il terrorismo crea nelle masse oppresse uno spirito di delega, non le rende in alcun modo protagoniste, ma solo spettatrici di tragici fuochi d'artificio. E fornisce argomenti per ridimensionare il terrorismo dei potenti, che è ben più devastante, e a dei risultati, purtroppo, porta.

I terroristi cercano di far assaggiare ai potenti almeno in parte le sofferenze che essi hanno distribuito in gran parte del mondo in questi secoli. La strage delle Torri Gemelle non è molto a confronto di quelle attuate consapevolmente dagli USA nei confronti della popolazione civile a Dresda, a Hiroshima, e nelle stesse città italiane (troppo spesso si tende a dimenticare che le vittime civili dei bombardamenti USA sono state superiori agli eccidi di civili compiuti dai tedeschi). Per quanto ci riguarda dobbiamo lavorare perché la guerra embrionale tra Occidente e Islam non prenda contorni più netti e irreversibili. Solo se riusciremo a scompaginare questo piano di scontro potremo sperare di far emergere piani di conflitto che siano per gli oppressi ben più favorevoli. Da ieri sarà più difficile, ma é il lavoro da fare.