LA GUERRA CONTRO IL TERRORISMO (E CONTRO I PROFUGHI) AL TEMPO DELLE ELEZIONI
OVVERO, L'AFGHANISTAN VISTO DALL'AUSTRALIA.


Novembre 2001. Di Jacky Pinko Dinkum

 


"Il Primo Ministro invia le truppe". "L'Australia in guerra". Gli australiani si sono svegliati così, giovedì 18 ottobre 2001. Con questi e altri terrificanti titoli su quattro colonne, sulle prime pagine dei quotidiani.
E' probabile che in Europa le notizie che arrivano dagli antipodi siano relegate in invisibili trafiletti di fondo pagina nella cronaca estera. Perciò molti non sapranno che l'Australia ha deciso di partecipare attivamente e con grande entusiasmo alla "War On Terror" lanciata dal Presidente Bush.
"Le nostre forze armate saranno presto impegnate sul terreno in nome del nostro Paese. Partiranno sotto i nostri auspici, accompagnate dalle nostre preghiere e dall'augurio di ritornare incolumi a casa. Ma non sarà un'operazione semplice e indolore. Sarà invece molto rischiosa e la possibilità di perdere vite umane sarà molto alta. Tuttavia l'Australia non può esimersi dal dare il suo contributo per sradicare la violenza e garantire il ritorno di un mondo più sicuro ".
Sono le parole con cui il Primo Ministro John Howard (liberale) ha annunciato l'invio nella zona operativa dell'operazione "enduring freedom", di 1550 uomini, 8 aerei, 3 fregate, unità da sbarco ed elicotteri da guerra.
Evidentemente, nella testa del Governo Federale australiano la sicurezza si garantisce attraverso il bombardamento e l'occupazione dell'Afghanistan, molto più che cercando di costruire relazioni mondiali più eque.
L'appoggio del governo australiano all'intervento armato era scontato, per ragioni che esporrò di seguito. Ciò che non era invece scontato era che l'Australia dovesse partecipare in modo così attivo e diretto, inviando sul campo le sue truppe migliori, con l'intento di impegnarle al più presto in azioni di combattimento. Perché questa fretta e perché tanta decisione? Ora vedremo.
Dal punto di vista strategico-militare l'Australia è entrata nella sfera di influenza statunitense a seguito dell'ingresso in guerra del Giappone, nel corso del secondo conflitto mondiale. Abbandonata dall'Inghilterra, troppo impegnata sui fronti europei, l'Australia si affidò agli Stati Uniti per fronteggiare la minaccia giapponese. Da allora non ha più abbandonato una politica della sicurezza fondata sull'alleanza con la potenza nordamericana. Questa alleanza dovrebbe garantire l'intervento americano nel caso, improbabile, in cui si realizzasse ciò che gli australiani temono di più: l'invasione delle "orde" asiatiche che premono al confine settentrionale. L'Australia è una nazione popolata da 19 milioni di abitanti, in maggioranza bianchi di origine europea, con un benessere diffuso ed uno stile di vita occidentale (anzi anglosassone), alle porte di un'Asia povera, turbolenta e popolata da miliardi di esseri umani: è facile immaginare come la paura dell'invasione sia stato un argomento utile e ben sfruttato dai governi federali per giustificare la politica di alleanza con gli Usa, la cessione di parti del proprio territorio per le installazioni nordamericane, l'incremento delle spese militari, la funzione di "gendarme" degli interessi americani nell'area del Pacifico e, come oggi, l'impegno concreto a fianco degli Usa in azioni militari. E questo sebbene in quarantamila anni di presenza umana in questo territorio, gli asiatici abbiano sempre dimostrato scarso interesse per gli aridi deserti australiani, tanto che neanche gli abitanti della vicina Nuova Guinea hanno mai installato colonie sul continente.
L'invio dei militari in Afghanistan ha illustri precedenti: truppe australiane hanno partecipato al conflitto mondiale in Europa (vennero arruolati anche soldati aborigeni, e questo sebbene i "neri" non fossero riconosciuti come cittadini australiani) e ad altri interventi militari, incluso quello in Vietnam.
Perciò gli Usa si aspettavano da parte dell'Australia non solo una condivisione dell'analisi della situazione dopo l'11 settembre (e il Primo Ministro Howard si trovava proprio a New York quel giorno). Non solo una sostanziale convergenza circa la necessità di rispondere con durezza agli attentati (e nei giornali australiani non si è esitato a parlare apertamente e senza eufemismi di "vendetta" e "ritorsione", chiarendo così il motivo per cui i civili afghani si vedono oggi piovere in testa le bombe occidentali). Non solo solidarietà politica e umana. Ma anche una partecipazione attiva e concreta. E questa non si è fatta attendere.
E' arrivato il momento di chiarire alcune delle motivazioni alla base della fretta con cui il governo australiano ha avviato il trasferimento di truppe nel teatro delle operazioni. Sono del resto le stesse motivazioni che hanno indotto il governo a inasprire la politica relativa ai rifugiati, di cui riferisco più avanti.
Lo scorso 5 ottobre il Primo Ministro, come è nelle sue facoltà, ha ufficialmente aperto la campagna elettorale per il rinnovo del Parlamento e del Governo federali. Lo ha fatto e, potendo scegliere il momento in cui farlo in un determinato periodo di tempo, come stabilisce la Costituzione, ha scelto di farlo quando l'attenzione degli australiani era concentrata non tanto sulle vicende nazionali quanto su quelle internazionali. E con il supporto di una stampa nazionale che di giorno in giorno alimenta l'immagine di un Paese assediato da potenziali immigrati illegali e minacciato dagli attacchi terroristici quanto l'Europa e l'America. Sembra essere in gioco la stessa organizzazione sociale che garantisce all'Australia un alto standard di vita in un prezioso isolamento. E il Governo si pone come baluardo per evitare che il paradiso si trasformi in un inferno. Quale momento più propizio per lanciare la campagna elettorale?
Il governo guidato dal liberale Howard è sostenuto da una coalizione conservatrice composta dal Liberal Party e dal National Party. La coalizione è al potere dal 1996, quando John Howard vinse le elezioni, dopo 11 anni di governi laburisti. Il Primo Ministro aspira ad essere confermato in quello che sarebbe il suo terzo mandato.
Ma, fino alla fine di agosto, nessuno avrebbe scommesso sulla rielezione di Howard. Anzi, tutti i sondaggi davano per grande favorito il leader dell'opposizione laburista, Kim Beazley. Questioni interne hanno eroso nel tempo il consenso al gabinetto conservatore: privatizzazioni, deregolamentazione del mercato del lavoro, riduzione dei diritti sindacali, taglio di fondi alle scuole e alle università pubbliche e, soprattutto, imposizione di una odiatissima tassa: la GST (IVA in Italia). Introdotta nel 2000, ha fatto lievitare il prezzo di molti prodotti e delle tariffe professionali del 10%. Il Governo aveva promesso, a fronte della GST, sgravi fiscali e detassazione su altri fronti, ma i consumatori australiani hanno in genere accolto con grandi riserve e malumori l'introduzione di questa tassa. Inoltre la deregulation nell'economia ha portato alla concorrenza selvaggia in alcuni settori, con i clamorosi fallimenti, quest'anno, di una grande compagnia di assicurazioni (HIH) e della seconda compagnia aerea del Paese (Ansett), fallimenti che hanno precipitato nel baratro della disoccupazione migliaia di lavoratori, rovinato gli azionisti e seriamente danneggiato centinaia di migliaia di clienti.
Eppure, anche a fronte di non esaltanti risultati nella politica interna, oggi ci sono ottime probabilità che il governo conservatore venga confermato dagli elettori. Il Partito Laburista, stimato intorno al 45% a fine agosto, con la coalizione conservatrice sotto il 40%, è stato agganciato, nei sondaggi, all'inizio di settembre, ed è ora dato intorno al 35%, con la coalizione che vola sopra al 50%.
I fattori che stanno influenzando le future scelte degli elettori australiani non hanno molto a che vedere con le vicende interne, ma sono tutti ricollegabili a due grosse vicende internazionali: la questione dei rifugiati, simboleggiata dalla vicenda della nave porta-container norvegese Tampa, apertasi all'inizio di settembre e non ancora conclusa, e, naturalmente, la complessa vicenda apertasi con l'attacco terroristico agli Stati Uniti dell'11 settembre. In definitiva si tratta della sensazione di insicurezza venuta a turbare il placido sonno degli australiani con il risveglio della "paura dell'invasione": l'invasione dei rifugiati, degli illegali, dei clandestini e, naturalmente dei possibili terroristi. Paure che il governo sta sfruttando ad arte e con grande maestria per i suoi fini di potere.
Le due questioni sono collegate da un particolare non irrilevante: la vicenda della nave norvegese riguardava in massima parte richiedenti asilo afghani. E l'Afganistan è il Paese che l'Australia si prepara a colpire.
Il 26 agosto 2001 la nave porta-container Tampa, battente bandiera norvegese, raccogliendo l'SOS di un mercantile indonesiano prossimo all'affondamento, ha deviato la propria rotta e salvato da sicura morte l'equipaggio indonesiano e 438 civili, per la maggior parte afghani. La nave, come altre su quelle rotte, era partita pochi giorni prima da un porto indonesiano, con l'intenzione di scaricare il suo carico sulle coste di Christmas Island, remoto avamposto australiano nell'Oceano Indiano.
Non era il primo né sarebbe stato l'ultimo carico di disperati in fuga da guerre e sanguinarie dittature diretto verso l'Australia. Solitamente il destino di questi profughi è di essere internati in centri di detenzione per un tempo indefinito (1): quello che le autorità australiane ritengono necessario per accertare l'identità dei clandestini e la genuinità della loro richiesta di asilo. Alla fine di una procedura che può durare mesi e anche anni, la maggior parte degli aspiranti si vede riconosciuto lo status di rifugiato e viene avviato verso i sobborghi urbani delle grandi città, con l'assistenza delle associazioni di solidarietà e dei gruppi etnici di provenienza, destinato ad un inserimento nelle fasce più basse del mercato del lavoro e ad un lento assorbimento nel tessuto sociale multietnico australiano. Coloro che invece vengono giudicati privi dei requisiti richiesti per avere il titolo di rifugiati vengono rapidamente rispediti al Paese di provenienza.
La vicenda della nave norvegese però, è andata ben diversamente, e la notizia ha fatto il giro del mondo: dopo aver salvato i profughi in acque internazionali la nave ha fatto rotta verso Chistmas Island ma, in acque territoriali australiane, è stata bloccata dalla marina militare e le è stato impedito l'approdo. Con un'azione da rambo, gruppi di assaltatori australiani hanno preso il controllo dell'unità norvegese, aprendo una vera e propria crisi diplomatica internazionale. John Howard ha dichiarato che gli illegali non avrebbero mai messo piede in Australia e che la nave norvegese sarebbe stata allontanata con ogni mezzo e costretta a fare ritorno in Indonesia con il suo carico indesiderato. Al rifiuto del comandante norvegese di fare rotta verso acque internazionali ha fatto seguito una lunga trattativa, il cui esito finale è forse noto a tutti: i profughi sono stati traslocati il 4 settembre su navi militari australiane e, sulla base di accordi con i rispettivi governi, portati in parte in Nuova Zelanda e in parte a Nauru, piccola isola-stato dell'Oceano Pacifico, la cui economia dipende interamente dall'Australia.
L'atteggiamento del governo australiano in questa vicenda è stato squallido e vergognoso. Howard si è persino appellato all'ONU per chiedere aiuto nella soluzione diplomatica della vicenda, quando il suo primo dovere sarebbe stato di fornire assistenza umanitaria ai disperati ammassati su una nave non adatta al trasporto di passeggeri.
L'appello di Howard non aveva senso, anche perché le cifre su profughi e clandestini che ogni anno giungono in Australia dalle coste settentrionali sono risibili se confrontate con le analoghe situazioni in Paesi europei come l'Inghilterra e l'Italia. E questo sia in termini assoluti che relativi, nel rapporto popolazione/illegali.
E l'Australia si è ripetuta, con meno clamore internazionale ma non meno determinazione, il 9 settembre, quando, con un vero e proprio atto di pirateria internazionale una unità da guerra ha abbordato in acque internazionali un battello indonesiano carico di profughi. Alla cattura ha fatto seguito il trasporto in Nuova Guinea dei malcapitati.
La vicenda della Tampa ha avviato nel Paese un grosso dibattito, con un certo iniziale disorientamento, a causa dello sdegno internazionale. Ma la determinazione del governo e la "brillante" soluzione della crisi (che peraltro è costata milioni di dollari, giacché non solo sono state impiegate costose unità da guerra, ma il governo di Canberra si è dovuto anche impegnare al mantenimento dei profughi) hanno fatto impennare gli indici di popolarità del governo. Il primo ministro ha mostrato grande abilità, disseminando di simboli e di retorica i suoi accorati messaggi alla nazione. E ha "vinto", nel senso che i profughi, effettivamente, non hanno messo piede in Australia.
La tesi del governo è che i rifugiati che giungono in Australia sulle navi indonesiane sono dei "queue jumpers", dei furbacchioni che "saltano la fila". Infatti i rifugiati che l'Australia accoglie provengono dai campi profughi allestiti dall'UNHCR (2) in Paesi quali il Pakistan e l'Indonesia. In questo modo la selezione viene effettuata prima dell'ingresso in Australia ed è garantito uno screening sulla base di determinati criteri di selezione. E' noto però che essere registrati nei campi dell'UNHCR non è semplice quando si sfugge a una situazione di persecuzione con mezzi precari e inoltre la cosiddetta "fila" è composta da centinaia di migliaia di aspiranti, con pochissime probabilità di essere poi effettivamente accettati e tempi di attesa spesso incompatibili con la drammaticità della situazione.
Tuttavia il Governo federale sostiene che, non consentendo alla nave norvegese di sbarcare i rifugiati sul territorio australiano, è stato inviato un chiaro segnale a chi vuole aggirare un credibile sistema internazionale di selezione. E inoltre, contro le esortazioni di carattere umanitario che spingevano per consentire intanto lo sbarco di naufraghi raccolti da una nave di passaggio, il Governo ha alzato il baluardo della sovranità nazionale, che sarebbe stata altrimenti violata: "nessuno può chiederci di rinunciare alla difesa delle nostre coste", è stato detto dal Ministro degli Esteri, come se stesse parlando di una nave da guerra pronta a sbarcare truppe di occupazione.
La questione non si è ancora conclusa ufficialmente, perché dopo il forzato trasbordo dei profughi si è aperta una complessa vicenda giudiziaria, a colpi di ricorsi e contro ricorsi, contro la decisione del Governo. Attualmente il tutto sta nelle mani della Corte Suprema, che potrebbe ordinare il ritorno in Australia dei 438 richiedenti asilo. Ma anche se ciò avverrà, sarà comunque dopo le elezioni federali, fissate per il prossimo 10 novembre.
Naturalmente John Howard ha sdegnosamente respinto l'accusa di aver sfruttato i profughi a fini elettorali, sostenendo invece di aver agito nell'interesse del Paese: "L'Australia è un Paese generoso. Ma non tenero. Siamo noi a decidere chi può e non può entrare". Parole che risuonano nei cuori di tanti conservatori bianchi, che vorrebbero vedere l'Australia restare una specie di paradiso occidentale alle porte dell'Asia, e che sono preoccupati dal ritmo con cui invece va popolandosi di asiatici.
Ed eccoci al secondo e più recente evento.
I fatti dell'11 settembre hanno spazzato via da giornali e televisioni le notizie sui profughi per dare, ovviamente, grande risalto agli attentati in Usa ed alle vicende che hanno seguito.
Il Governo australiano non ha avuto un istante di esitazione nell'appoggiare senza riserve la strategia americana, mentre contemporaneamente avvertiva i cittadini che l'Australia non doveva sentirsi al sicuro dagli attentati terroristici.
Si è così diffuso per il Paese un senso di insicurezza, alimentato da una serie di allarmi su presunti casi di guerra batteriologica, fino ad ora rivelatisi completamente fasulli.
L'ostilità verso la comunità islamica (composta in parte da rifugiati Afghani, ovvero, presumibilmente, oppositori dei Talebani) si è accesa, con una improvvisa impennata di atteggiamenti razzisti, aggressioni non solo verbali e distruzione di alcune moschee.
Ed ecco, al culmine di questa campagna, la notizia dell'invio delle truppe nel teatro delle operazioni. Aiuto richiesto, a quanto pare, dal Presidente Bush in persona con una telefonata al Primo Ministro australiano.
Pur se la partecipazione all'intervento si allinea perfettamente alla storia australiana del dopoguerra, non è possibile non mettere in relazione la rapidità della decisione e le modalità drammatiche dell'annuncio, con la campagna elettorale in corso.
E' chiara l'intenzione del premier di spostare tutta l'attenzione degli australiani sulle vicende internazionali e di creare un clima favorevole alla sua rielezione.
Gli australiani sentono di poter contare su un leader estremamente deciso, con una visione ed un progetto chiari. Ed è proprio ciò che chiedono ad un Primo Ministro, specie in un periodo di insicurezza e tensione. Lo confermano i sondaggi che vedono in crescita la popolarità del governo uscente.
Ma che succede all'opposizione? Il leader laburista Kim Beazley aveva la vittoria in pugno fino alla fine di agosto, ed ora è costretto ad inseguire il suo avversario. Senza esitazione ha appoggiato il governo sulla crisi della nave Tampa, attirandosi addosso le critiche di vari settori dell'opinione pubblica più democratica e progressista. E con altrettanta sciagurata determinazione ha espresso parere favorevole alla decisione dell'invio delle truppe. Anzi, di più. Ha dichiarato che in una situazione del genere lui stesso sarebbe stato il ministro della difesa ideale. Chissà, forse se sarà eletto raddoppierà l'impegno australiano in Afghanistan!
Gli australiani vedono gli atteggiamenti di Baezley come aleatori tentativi di mostrarsi più realista del re e, dovendo giudicare due leader che mostrano di pensarla allo stesso modo su questioni tanto importanti, chiaramente simpatizzano per Howard, perché una cosa è parlare ed altra cosa è trovarsi al comando ed agire. Così Howard appare come il comandante di una nave, sicuro della sua rotta, che guida deciso la nazione. E Beazley costretto ad un affannoso inseguimento.
Restano, a protestare per le strade e presso i centro di detenzione, i giovani militanti dell'Alleanza Socialista (3). Gli unici, a quanto pare, che hanno condannato apertamente e senza mezzi termini l'atteggiamento del Governo, sia nella vicenda della Tampa che nella partecipazione alla guerra di Bush.
Manifestazioni si sono svolte in tutto il paese, con scontri nei pressi di alcuni centri di detenzione per richiedenti asilo. Viene denunciata la situazione di degrado e di violenza all'interno dei centri, affermata l'illegalità di una lunghissima detenzione e condannata la politica del Governo in materia.
Le manifestazioni previste a Brisbane per l'incontro del C.H.O.G.M. del 6/8 ottobre, incontro cancellato a seguito degli attentati dell'11 settembre, si sono svolte ugualmente in chiave anti-guerra.
Ma si tratta di poche centinaia o al massimo migliaia di attivisti (3.000 a Brisbane), le cui tesi non sono neanche riportate dalla stampa nazionale, concentrata sulle dichiarazioni dei due leader in lotta per le elezioni.
E mentre la questione dei profughi sulla porta-container norvegese ha provocato un'onda di emozione e un notevole dibattito in tutto il Paese, risvegliando l'attenzione di molti su queste tematiche, la partecipazione alla guerra è invece stata accolta senza discussione.
Forse il clima cambierà se e quando cominceranno a giungere le notizie dei primi soldati australiani che avranno pagato con la vita la decisione del Governo. Ma questo sarà comunque dopo le elezioni.
Intanto il partito Laburista cerca disperatamente di riportare il dibattito elettorale sulle questioni interne, che sono il suo punto di forza. Una vittoria Laburista potrebbe servire ad affrontare in modo nuovo scottanti tematiche quali la questione aborigena, la scuola, il lavoro. Ma sul fronte internazionale non c'è speranza: conservatori o laburisti, per i profughi in cerca di asilo e per gli afghani sotto i bombardamenti la storia non cambierà.

 

(1) Fra le misure più contestate dalla sinistra radicale, il governo federale ha introdotto, in alcuni Stati della federazione, la legge conosciuta come "Mandatory Sentencing", che consente alle autorità di polizia e sicurezza di tenere in stato di detenzione di durata indefinita coloro che sono illegalmente nel Paese (anche nel caso in cui l'ingresso sia avvenuto in modo legale, ma si sia poi prolungato oltre i termini consentiti, come nel caso di un visto scaduto) . Altra caratteristica di questa normativa è la facoltà conferita al giudice di infliggere condanne detentive anche pesanti per reati minori che normalmente comporterebbero solo ammende pecuniarie, qualora commessi da pregiudicati. Ufficialmente varata per combattere i reati contro la proprietà in alcune zone del nord ed ovest dell'Australia, la legge si è rivelata un efficace strumento contro le fasce più marginali e deprivate del Paese: gli aborigeni e i rifugiati.

(2) UNHCR: United Nation High Commissioner for Refugees, noto in Italia come ACNUR (Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati).

(3) Composta da un gruppo di piccoli partiti ed organizzazioni della sinistra radicale.