La guerra d'Afghanistan: domande e risposte.
Rispondiamo
ad una serie di obiezioni che ci sono venute da chi non condivide il nostro
approccio interpretativo alla guerra. Nello spiegare gli eventi del conflitto
in corso, la sinistra ha sistematicamente ignorato i fattori nazionali, determinanti
in questa crisi, privilegiando una interpretazione eccessivamente economicista.
REDS.
Gennaio 2002.
Gli attentati negli USA mi puzzano: possibile che la CIA non sapesse? Per me sono stati loro stessi a organizzare gli attentati per avere la scusa di fare una guerra.
È vero che in passato le grandi potenze hanno costruito a tavolino delle provocazioni ai propri danni per giustificare la strategia colonialista. Ma certo non si trattava di provocazioni della dimensione vista a New York. Se gli USA avessero voluto una guerra contro l'Afghanistan avrebbero inaugurato già da tempo una campagna massmediatica tesa a mettere in cattiva luce i talebani: non avrebbero dovuto nemmeno inventarsi bugie come hanno fatto in passato con il Nicaragua, Cuba, ecc: bastava loro semplicemente raccontare la verità. Ma chi si occupa da tempo di Afghanistan sa bene che, invece, la situazione drammatica del regime totalitario talebano si nutriva della più grande indifferenza occidentale (ricordiamoci che non molto tempo fa la stessa ONU ha finanziato quel regime nell'intento di sradicare le coltivazioni di oppio) se non della sua complicità. Il Pakistan infatti, sino a settembre gran sostenitore dei talebani, era ed è uno dei pilastri dell'ordine imperiale nel Medio Oriente. Se gli USA avessero desiderato il rovesciamento del regime afghano dunque, avrebbero ben prima costretto in un angolo il governo pakistano, e avrebbero sostenuto l'Alleanza del Nord, che invece ha ricevuto aiuti soprattutto da Iran e Russia. Infine: la reazione da panico successiva agli attentati da parte della dirigenza statunitense poco si confà all'idea di una sorta di "autoattentato".
Se non sono gli USA allora sarà stato Israele a compiere gli attentati per aizzare gli Stati Uniti contro gli arabi.
I rapporti tra USA e Israele sono troppo stretti perché un complotto di tali dimensioni possa evitare una fuga di notizie. Il rischio per Israele sarebbe stato troppo alto: se si fosse scoperto, avremmo assistito ad una rottura strategica tra USA e Israele, che non si capisce chi in Israele potrebbe volere. Inoltre gli attentati e la conseguente reazione hanno messo Sharon in una condizione più difficile di prima. Subito dopo gli attentati il governo israeliano ha cercato di approfittarne per segnare punti a suo favore nella lotta coi palestinesi sul piano militare (invasione di Jenin, ecc.), ma subito una telefonata di Powell ha bloccato la manovra: la necessità di dividere il mondo islamico per isolare Al Qaeda ha reso necessario tenere sotto controllo la situazione palestinese. Per il momento.
Forse gli attentati non li hanno organizzati gli USA, ma comunque essi hanno approfittato dell'occasione per dar vita ad una guerra che aspettavano da tempo. L'Afghanistan è un crocevia strategico per il passaggio degli oleodotti.
In Afghanistan passano solo due piccoli oleodotti verso il nord, e gli altri di cui si parla sono solo in progettazione. Non si capisce perché mai gli USA dovrebbero organizzare una guerra planetaria dagli esiti incerti solo per appropriarsi di oleodotti che comunque non è detto sarebbero in grado di controllare e che comunque sono del tutto ipotetici. Oltretutto non si tratterebbe certo di oleodotti strategici. L'Afghanistan non produce petrolio, e quello centroasiatico occorreranno un bel po' di anni per renderlo disponibile e non giustifica dunque di certo una guerra condotta così in anticipo rispetto alle necessità. Infine: anche assegnando a questi fantomatici oleodotti un'importanza che non hanno, non si vede perché gli USA non abbiano esercitato per tempo pressioni sul Pakistan (dal quale dipendevano i talebani) al quale sono strategicamente legati per ottenere quanto chiedevano. Per gli USA l'area strategica è quella di produzione petrolifera (a ovest dell'Afghanistan) e, certo, per tenere libera quella strada sarebbero pronti a qualsiasi guerra. La guerra del Kuwait del '91 ad esempio aveva certamente per posta il controllo delle risorse petrolifere. Ma questo caso è diverso. L'importanza strategica dell'Afghanistan per gli USA è inferiore a quella nel passato attribuita dall'URSS (e prima ancora la Russia zarista) e dall'Inghilterra alla stessa regione. Per la prima si trattava di trovare uno sbocco o un'influenza diretta sull'Oceano Indiano, e per la seconda di assicurarsi la continuità nella catena di dominio coloniale che partiva dall'India e arrivava al Mediterraneo. Certo questo non significa che, avendone la possibilità, gli USA non cercheranno di trarre profitto dalla situazione, ma non è questa la causa della guerra.
Gli USA stavano entrando in una crisi recessiva: la guerra serve loro per uscirne, come è accaduto durante la seconda guerra mondiale e la guerra del Vietnam.
È vero che le guerre portano a volte ad un rilancio del capitalismo: esse comportano di solito grandi commesse alle industrie pesanti, degli armamenti, ecc. Ma questa dinamica non è affatto scontata. Per esempio il capitalismo occidentale non ha tratto alcun beneficio economico diretto (su quello indiretto parleremo poi) dai suoi interventi nei Balcani. Nel caso della guerra a Bin Laden è ancora peggio. Questa guerra è particolarissima, sembra fatta apposta per provocare una recessione. Una recessione si scatena quando i consumi non riescono più a esaurire l'aumento della produzione. Ebbene, è la prima volta nella loro storia che gli USA si trovano seriamente attaccati sul proprio territorio, e ciò sta provocando un fenomenale ribasso dei consumi. Il panico dovuto ai supposti pericoli riguardanti viaggi aerei e spedizioni postali, sta rallentando la velocità di circolazione di merci e persone, quando la "velocità" è una componente fondamentale di qualsiasi ripresa economica. Lo stato inoltre è costretto a compiere un forte passo indietro sul piano della liberalizzazione e della mondializzazione: i controlli interni, i filtri sull'immigrazione, l'ampliarsi degli apparati di sicurezza, ecc. sono tutte misure che rallentano lo sviluppo del capitalismo e distolgono risorse. A causa delle particolarità politiche del conflitto, gli USA non possono permettersi nemmeno di consumare troppe bombe (perché romperebbero la coalizione antifondamentalista), né di progettare l'impiego di vasti mezzi di terra, e dunque non assisteremo a investimenti militari per questo conflitto paragonabili a quelli dispensati durante la seconda guerra mondiale o in occasione della guerra del Vietnam, dove comunque gli USA si contrapponevano indirettamente ad una potenza mondiale, l'URSS.
Il capitalismo ha bisogno della guerra per rilanciare il saggio di profitto che andava inesorabilmente scendendo.
Le guerre non hanno quasi mai un contenuto direttamente economico, legato cioè ai cicli economici. Per cicli economici intendiamo l'alternarsi di fasi di 5-7 anni di recessione-espansione, che a loro volta possono essere raggruppate in periodi espansivi e recessivi di 20-30 anni. Non esiste alcun legame tra guerre e cicli economici. La crisi del Kuwait scoppiò quando ancora non si era entrati in piena crisi recessiva, che finì comunque 2-3 anni dopo il conflitto, la guerra del Kosova scoppiò in una fase espansiva che è durata sino all'anno scorso, ecc. Il fatto è che la guerra è sempre un fatto piuttosto imprevedibile: per questo gli stati vi ricorrono generalmente "solo" per garantire la propria potenza o per espanderla, o tutte e due le cose insieme. In ciò vi è, ovviamente, anche un tornaconto economico, ma non immediato, non legato cioè ai cicli. Anche gli interventi occidentali nei Balcani sono serviti per garantire la stabilità politica necessaria all'espansione del capitalismo, in una ottica di lungo periodo. La razionalità delle guerre cioè è di natura geopolitica più che direttamente e immediatamente economica.
Ma anche gli interessi geopolitici, in ultima analisi, vanno ricondotti a interessi economici.
Sì e no. Si tratta di esigenze legate agli stati capitalisti, e non direttamente alle loro contingenze economiche. Un moderno stato imperialista non fa una guerra per un oleodotto, e una crisi recessiva non è per esso la fine del mondo. In poche parole: generalmente le guerre dei Paesi imperialisti non sono proclamate perché così vuole questa o quella multinazionale, o perché la congiuntura economica volge al peggio, ma per esigenze geopolitiche. Lo stato riassume gli interessi dell'insieme della classe dominante, in un'ottica di medio-lungo periodo, la potenza di uno stato (la sua forza, il timore che incute, il territorio che controlla, il numero di popoli vassalli, la consistenza economica e tecnologica, ecc.) si ripercuote anche sulla potenza della sua classe dominante. In questo senso, certo, dietro alle guerre troviamo sempre gli interessi economici generali delle classi dominanti. Ma non solo: le guerre di potenza, quando sono vittoriose, si riverberano in diversa misura anche su tutte le classi sociali dello stato vincitore. Per questo le guerre di conquista, per lo meno fin tanto che vanno bene, sono di solito sostenute dal consenso popolare.
Se affermate che l'Afghanistan non è un obiettivo di fondamentale importanza economica, che l'Occidente non ha una necessità economica diretta a promuovere una guerra, e che non ha nemmeno un grande interesse geopolitico in questa vicenda, non si capisce proprio il perché dell'attuale conflitto.
Non occorrono indagini da 007, basta ascoltare attentamente i nostri stessi avversari: non fanno grandi sforzi per nascondere la verità. Gli USA sono stati spinti alla guerra dall'offensiva della corrente politica fondamentalista islamica. In occasione di altri attentati (ad esempio quelli in Arabia Saudita degli anni scorsi) gli USA hanno mantenuto un basso profilo nella risposta, perché altrimenti avrebbero dovuto rompere con un alleato strategico (l'Arabia Saudita appunto, che ben poco si era prodigata per trovare i responsabili), ma questa volta gli è stato impossibile. La mancanza di una reazione forte a quello che è un attacco senza precedenti al territorio USA, avrebbe costituito un segnale molto preciso verso tutti gli stati e correnti politiche nel mondo che non vedono di buon occhio il dominio statunitense. Gli USA avevano bisogno di fornire una dimostrazione chiara sulle conseguenze devastanti che incombono su chi osa attaccarli. In secondo luogo gli USA, lo stato USA, deve dimostrare ai suoi stessi cittadini di essere un'entità che non difende solo gli interessi delle multinazionali, ma anche quelli dei cittadini. Gli stati capitalisti si reggono su un patto implicito tra la classe dominante e il resto della popolazione: lo stato deve garantire gli strumenti necessari affinché la nazione di cui è espressione non cada sotto il dominio etnico di un'altra nazione, e, se ha dei privilegi nei confronti di altre nazioni, deve riuscire a mantenerli. In caso contrario la fiducia della cittadinanza verso lo stato tracolla. Ne abbiamo avuto sentore il giorno degli attentati, prima della martellante campagna patriottarda: le cronache (leggibili anche sul Corriere e Repubblica) riferivano che gli statunitensi nelle strade, nei bar, davanti alla TV, inveivano e fischiavano l'immagine del presidente, il quale tra l'altro scappava impaurito sul suo aereo.
Ci state dicendo che gli USA, dunque, poverini, non hanno colpa in questa guerra?
Stiamo dicendo l'opposto. Noi viviamo in una situazione di conflitto permanente tra potenze occidentali e quello che viene chiamato "Terzo mondo". È un conflitto che di tanto in tanto prende la forma della guerra, ma anche quando non sparano i cannoni, i morti si contano a milioni: sono le stragi per fame, per miseria, per malattia. È un conflitto di cui la popolazione d'Occidente non si rende conto, ma che come tale è percepito dalle popolazioni più povere del pianeta. Quindi gli USA e l'Europa sono costretti a intervenire per difendere il proprio ruolo imperialista e la continuazione dello sfruttamento del Sud del mondo.
Non si capisce però cosa c'entra Bin Laden, che è un miliardario, con i poveri del Terzo Mondo.
Noi stiamo parlando di conflitti tra stati. E gli stati si dividono, grosso modo, in due categorie, quelli "imperialisti" (o "ricchi", o "primo mondo" o "nord del Mondo", usiamo la definizione che ci pare, si tratta comunque di USA, Europa Occidentale, Canada, Australia e Nuova Zelanda) e quelli dipendenti (il resto del mondo) che comprendono tutti quei Paesi che dipendono dal denaro e/o dalla tecnologia e/o dalle risorse militari dei primi. Non c'è solo il "Terzo mondo", dunque, ma gran parte di quello che sino alla caduta del Muro di Berlino veniva definito "Secondo mondo" (Russia, ecc.). Nei Paesi dipendenti vi è pure una classe dominante locale, che ha peculiari caratteristiche: dispone di enormi privilegi rispetto ai propri connazionali, ma "dipende" dalle classi dominanti dei Paesi imperialisti. Queste ultime lasciano questi privilegi alle cricche locali in cambio del permesso di rapinare i loro Paesi. Un esempio calzante è costituito dai Paesi arabi produttori di petrolio, specie le monarchie del Golfo (Kuwait, Oman, EAU, Arabia Saudita). Essi esportano la maggior quota di petrolio mondiale. Ma esportano in una maniera del tutto favorevole ai Paesi imperialisti. Innanzitutto tengono bassi i prezzi, in secondo luogo affidano il petrolio a compagnie occidentali di estrazione, stoccaggio, trasporto e raffinazione. In terzo luogo i proventi dei guadagni sono depositati nelle banche occidentali. Queste classi dominanti locali si accaparrano poi il netto delle risorse rimaste dopo il prelievo imperialista, senza investirlo a favore della propria nazione.
Se è così perché la gente di quei Paesi non si ribella alle proprie classi dominanti invece di prendersela con gli USA?
Nel corso del secondo dopoguerra ci sono state molte ribellioni contro i regimi corrotti mantenuti dall'Occidente. Ad esempio: il golpe nazionalista di Nasser (Egitto, 1952) sull'onda di forte mobilitazioni popolari, che detronizzò re Faruk, sostenuto da Regno Unito e Francia; la rivoluzione di Gheddafi che nel 1969 rovesciò re Idris; la rivolta capeggiata da Bourghiba che depose il re tunisino nel 1957; la rivoluzione del 1963 che portò al potere il generale Kassim contro re Faysal in Siria; la travolgente rivoluzione iraniana del 1979 che spazzò via la sanguinaria dittatura dello scià, e così via. Ma i Paesi che hanno più petrolio e dunque Oman, Kuwait, Qatar, Bahrein, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti possiedono strutture interne che rendono più difficili le insurrezioni sociali: poca popolazione in relazione al territorio, e vaste masse di immigrati (che in alcuni casi superano la metà della popolazione) prive di diritti. Ciò fa sì che i proventi del petrolio siano goduti da una fetta consistente dei radi abitanti di quei Paesi. Inoltre i corrotti sceicchi che lasciano rapinare i propri Paesi (e che vengono definiti "moderati" dagli Occidentali, anche se all'interno promuovono regimi non dissimili da quello talebano) sono difesi a spada tratta dai governi occidentali. La guerra del Golfo è stata scatenata proprio per recuperare il Kuwait all'influenza occidentale. Per tutte queste ragioni nei Paesi arabi, la rabbia verso l'imperialismo è diffuso tra le larghe masse. Oggi la frustrazione nazionale ha preso la strada del fondamentalismo islamico, mentre negli anni cinquanta quello del socialismo laico e modernizzante, il motore che l'alimenta però è lo stesso. La gente di quei Paesi si domanda: ma come, abbiamo la materia che fa andare l'economia mondiale, l'Occidente dipende da noi, eppure continuiamo ad importare le loro merci, a non possedere industrie, a chiedere il loro aiuto. Le classi più basse, doppiamente sfruttate (dalla propria classe dominante e dai Paesi imperialisti), sono particolarmente sensibili a questi messaggi. Ma anche gli studenti, che, pur essendo qualificati, sono condannati dal sottosviluppo dei propri Paesi all'emigrazione o a lavori che non hanno nulla a che vedere con i propri studi. Ed anche una fetta minoritaria della classe dominante alla quale non piace accontentarsi delle grosse briciole che le classi dominanti dei Paesi imperialisti lasciano cadere: vogliono il boccone intero e sognano per loro un destino di classe dominante normale. Questa è la ragione per cui il miliardario Bin Laden, ma anche altri membri delle classi dominanti arabe e/o islamiche, o i loro figli, si identificano nel fondamentalismo islamico. Per loro tale "veste" è preferibile a quella socialisteggiante degli anni cinquanta, che avrebbe minacciato da vicino i privilegi di classe dominante dipendente.
Non capiamo però perché le manifestazioni antiUSA e proBinLaden abbiano toccato anche Paesi non arabi, come il Pakistan o l'Indonesia.
La frustrazione nazionale (cioè la rabbia e il senso di impotenza derivanti dalla condizione di sudditanza verso i Paesi imperialisti) è comune alle popolazioni di gran parte dei Paesi dipendenti. Questi sentimenti si dirigono soprattutto contro gli USA, non perché Europa e Giappone abbiano poche responsabilità, ma perché quelle degli USA sono più evidenti a causa del ruolo di gendarme che gli altri imperialismi hanno loro affidato. Questa rabbia latente prende la forma che di volta in volta le circostanze storiche e le tradizioni di un Paese rendono vicina, comprensibile e plausibile. Il fatto che la lotta si sviluppasse tra gli USA e una corrente politica nazionalista che ha adottato la forma dell'islamismo radicale, ha facilitato la canalizzazione del sentimento antiUSA e antimperialista in senso religioso nei Paesi islamici. Il conflitto Nord/Sud ha cioè preso in queste circostanze la forma di un conflitto religioso tra islam e cristianità. Dobbiamo sempre riuscire a distinguere la sostanza che muove larghe masse alla protesta sino al sacrificio di sé, e la veste che questa protesta prende. In realtà, nella storia umana, le rivolte delle masse oppresse (sul piano nazionale, ma anche su quello di classe) hanno spesso assunto una veste di carattere religioso.
Il fondamentalismo islamico cosa c'entra con il nazionalismo? Predica l'asservimento delle donne, rifiuta la modernità, vuole la legge islamica
Anche il nazionalismo arabo degli anni 50-60 si definiva socialista, ma non aveva nulla di socialista. Si tratta di ideologie che coprono la loro essenza nazionale. Per nazionalismo intendiamo il movimento che si muove non sul piano della lotta tra classi ma su quello della lotta tra nazioni (o tra stati). Se depuriamo i discorsi di Bin Laden dell'aggettivazione religiosa, troviamo una sostanza fatta di parole d'ordine nazionaliste: via gli USA dall'Arabia Saudita, abbasso le monarchie corrotte del Golfo, Palestina libera dagli Israeliani, ecc. Una nazione si definisce in base ad una identità che è variabile a seconda del tempo e delle circostanze. Quando una nazione è tutta compresa in uno stato col quale si identifica (a torto o a ragione) il compito risulta semplificato: l'Italia, la Francia, l'Inghilterra, la Germania, ecc. Ma quando i confini dello stato sono stati imposti dall'esterno (come è il caso dei Paesi a religione islamica) e non delimitano affatto la nazione, allora le persone si trovano con una identità nazionale oscillante: c'è il richiamo dell'adesione ai confini statali (per cui uno può definirsi "algerino", o "marocchino"), o a quelli della propria lingua (araba, o persiana, o pashtun), o a quelli della religione (l'islam). Vi sono una serie di correnti politiche nazionaliste che hanno esaltato il primo aspetto (ad esempio l'FLN algerino, o Al Fatah palestinese), altre il secondo (Baath siriano e iracheno, prima della degenerazione, nasserismo, ecc.), il fondamentalismo si basa sul terzo. Ognuna di queste correnti si propone a un "pubblico" più o meno ristretto: Al Fatah si rivolge chiaramente ai palestinesi, il nasserismo ai popoli arabi coltivando il sogno di una loro riunificazione politica, il fondamentalismo fa ricorso all'elemento religioso per ambire a qualcosa di ancora più vasto: l'unione di tutti i popoli islamici. Non a caso essi parlano di "nazione" islamica. Non si tratta di qualcosa di folle: è qualcosa di assai vicino anche alla sensibilità occidentale: in questi mesi di guerra il richiamo ai valori cristiani in maniera diretta o subliminale è stato ossessivo. Del resto la propaganda a favore della difesa dei "valori dell'Occidente" cosa è se non una proposta nazionalista che trascende o pone in secondo piano i nazionalismi particolari (italiano, tedesco, inglese, ecc.)?
Ma il fondamentalismo non è tutto uguale.
Come del resto tutte le ideologie che rivestono i conflitti sociali. Vi sono grosse differenze anche tra Al Qaeda e i talebani. La prima è una sorta di internazionale che ha trovato come base l'Afghanistan. La seconda è il regime che dominava l'Afghanistan a base etnica pashtun. Sia i primi che i secondi sono visti con grande simpatia nei Paesi islamici, ma non in Afghanistan, come dimostra il rapido crollo dei talebani: essi avevano perso qualsiasi base sociale che non avesse una qualche implicazione etnica (erano tollerati solo tra i pashtun). Del resto l'altro Paese nel quale una corrente fondamentalista ha preso il potere, l'Iran, vede una crescente opposizione al regime da parte delle masse popolari. Ciò si deve alla particolare natura di questa corrente nazionalista: la sua è una proposta di lotta non solo contro gli imperialismi ma anche contro i giovani e le donne e di difesa non dichiarata degli interessi dell'etnia dominante (in Iran i persiani, in Afghanistan i pashtun). Fintanto che queste correnti non sono al potere, le masse vedono in loro il lato antimperialista, ma quando le stesse masse si trovano ad avere a che fare con le loro leggi, solo i maschi adulti dell'etnia dominante le trovano sopportabili. Da qui l'apparente contraddizione: i talebani godono di maggior consenso fuori dal loro Paese che dentro.
Dunque siamo precipitati in uno scontro nazionalista a scala planetaria. Dobbiamo tornare a parlare di lotta di classe.
Non tutti i nazionalismi sono uguali. Nella tradizione del movimento operaio si è sempre fatta una distinzione tra nazioni oppresse e nazioni dominanti. Ciascuna di queste due tipologie esprime forme ideologiche nazionaliste, ma con una fondamentale differenza. Le nazioni (o nazionalità) oppresse rivendicano dei giusti diritti e basano la loro identità e partire da una situazione di ingiustizia; le nazioni dominanti, oppressive, mirano a preservare i loro privilegi, anche con belle parole come libertà, modernità, diritti umani, ecc. Per questo nell'analisi dobbiamo rigorosamente distinguere tra la sostanza dell'oppressione e le espressioni politiche che gli oppressi si danno o che adottano. Per farla breve: le masse dei Paesi islamici hanno tutte le ragioni di prendersela con il rapace Occidente, anche se per esprimerlo hanno dato spesso l'appoggio a correnti politiche detestabili (e tra queste vi è senz'altro il fondamentalismo islamico). Ma per combattere quelle correnti occorre riconoscere con prontezza e radicalità le ragioni sostanziali che vi stanno dietro.
Non si capisce come il fondamentalismo islamico possa essere considerato una corrente politica nazionalista, avendo un carattere religioso.
Abbiamo detto che nel fondamentalismo islamico la questione nazionale è uno degli aspetti costitutivi (ne ha altri, ad esempio la misoginia). Non è certo la prima corrente politica nazionalista a basarsi sulla religione. Che cosa è una nazione? Non vi può essere una definizione "oggettiva": una nazione è tale quando vi è un gruppo di individui che si considera tale. I suoi caratteri possono variare: la nazione può basarsi sulla comunanza della lingua e/o della cultura e/o del territorio e/o altro ancora. La religione è un dato certo non secondario nella formazione di una nazione. Per esempio gli ebrei israeliani hanno costituito un proprio stato su una discriminante religiosa: chiunque può divenire cittadino israeliano se dimostra di essere ebreo, che non è né una lingua (l'ebraico, lingua ufficiale di Israele non era parlato da alcun immigrato), né un colore della pelle (i falasha, un gruppo di ebrei provenienti dall'Etiopia, sono neri), ma "solo" una religione (con annesse anche un insieme di tradizioni, che comunque variano tantissimo a seconda dei vari Paesi). Altri popoli lottano per la propria autodeterminazione e si distinguono dagli altri soprattutto per l'elemento identitario religioso: i nordirlandesi, i tibetani, le popolazioni del Sud Sudan, i musulmani di Bosnia, ecc.
Questo dimostra che occorre superare tutti i nazionalismi, qualsiasi sia il loro fondamento identitario.
Così continueremmo a perdere. L'Afghanistan è invece la più chiara dimostrazione di come qualsiasi corrente, non solo di sinistra, è destinata a perdere se non contempla nel proprio programma la libera autodeterminazione dei popoli (qualsiasi sia il loro statuto identitario). I talebani sono crollati perché il loro fondamentalismo in realtà nascondeva il dominio dell'etnia pashtun su tutte le altre: ogni volta che nell'avanzata che li portò al potere negli anni Novanta conquistavano distretti in cui la loro etnia non era maggioritaria, collocavano nei posti di comando personaggi di Kandahar. Il punto di debolezza di Saddam è la tirannia esercitata su curdi, assiri, e sciiti del sud. E la sinistra araba del resto ha quasi sempre considerato immodificabili i confini imposti degli imperialismi, e ciò l'ha portata a non chiedere l'unificazione dei territori occupati maggioritariamente da curdi, o dagli azeri; ogni sinistra nazionale ha troppo spesso difeso gli interessi nazionali della propria classe dominante, ad esempio gran parte della sinistra marocchina nei confronti dei sarahui, o della sinistra iraniana nei confronti dei curdi.
E quindi dovremmo secondo voi sostenere il nazionalismo islamista?
Abbiamo detto che il fondamentalismo islamico
è visto dalle masse oppresse come una corrente antimperialista, noi abbiamo
aggiunto che questo è uno degli aspetti che lo caratterizza, ma tutti
gli altri lo connotano come una ideologia reazionaria. Il fondamentalismo islamico
è profondamente antioperaio: Komeini al potere ha represso i sindacati
che si andavano costituendo all'indomani della rivoluzione e l'intera sinistra;
i talebani, e prima di loro le forze che oggi si riconoscono nell'Alleanza del
nord, hanno assassinato decine di militanti comunisti (che pure si battevano
contro l'invasione sovietica). Il fondamentalismo islamico è contro le
donne perché le costringe a dipendere totalmente dal potere maschile;
è contro i giovani perché esaltando il potere patriarcale perseguita
le libere espressioni artistiche, di costume, sessuali, con cui i giovani si
costruiscono la propria identità. Infine, il fondamentalismo islamico
è reazionario sullo stesso piano nazionale. Su un piano ideologico esso
considera i musulmani tutti uguali, ma, dato che molto spesso questi popoli
sono divisi al loro interno tra popoli dominanti e popoli oppressi, il fondamentalismo
finisce per essere espressione della nazione dominante. In Algeria i fondamentalisti
sono contro le rivendicazioni dei berberi, in Marocco contro quelle dei sarahui,
in Iran contro quelle dei curdi, ecc. E ciò senza contare l'oppressione
esercitata contro popoli o minoranze non islamiche: nel Sudan meridionale, in
Egitto nei confronti dei copti, in Pakistan e in Indonesia nei confronti della
piccola minoranza cristiana.
Però: in tutta una serie di Paesi l'adesione all'islamismo radicale è
espressione politica della lotta di un popolo per la sua autodeterminazione:
è il caso del Kashmir, degli Uiguri in Cina, dei mori di Mindanao, ecc.
Come orientarsi in questo caos? L'unico modo è, di fronte ad un conflitto,
domandarsi: dov'è l'oppresso e dov'è l'oppressore? La Cina ad
esempio conduce nei confronti della popolazione islamica dell'Ovest una truce
politica di colonizzazione e sterminio culturale: siamo risolutamente dalla
parte della popolazione islamica e per il suo diritto all'autodeterminazione.
Anche se ciò non significa necessariamente condividere l'ideologia e
la pratica delle correnti politiche che se ne fanno portavoce. Saddam Hussein
reprime sciiti del Sud e curdi del Nord: siamo dalla loro parte (senza necessariamente
condividerne ideologia e azione), ma siamo dalla parte dell'intero popolo iracheno
nella sua lotta contro l'assedio dell'Occidente (senza con ciò provare
alcuna simpatia verso Saddam). Infine: siamo dalla parte di tutti i popoli afghani
contro l'interferenza e i bombardamenti statunitensi, siamo dalla parte dei
popoli arabi contro la rapina delle loro risorse da parte dell'Occidente, ma
siamo per il diritto dei cristiani pakistani a vivere in pace, contro la politica
di colonizzazione islamica delle isole cristiane indonesiane, ecc.
Va bene, d'accordo, il fattore nazionale ha un suo peso nella crisi attuale. Non è chiaro comunque perché perdiate tanto tempo in questa discussione che, alla fin dei conti, è solo ideologica.
Ha invece dei risvolti concretissimi. Le questioni
nazionali irrisolte alimentano la gran parte dei conflitti mondiali in misura
ben maggiore della lotta di classe. Se non sapremo unire le due lotte, quella
per una società senza classi e quella per una società dove ogni
popolo sia padrone del proprio destino, altri, e non la sinistra, prenderanno
in mano la bandiera dei popoli oppressi. Alla fin dei conti è ciò
che sta accadendo, e non vi è alcuna ragione di esserne contenti.