L'imperialismo in Iraq.
Traduciamo un articolo di Claudio Katz, economista, ricercatore del Conicet e professore dell'UBA, ad esclusione delle parti che si riferiscono all'America Latina. L'articolo integro si trova sul sito di Espacio Alternativo. Maggio 2003.


L’occupazione USA dell’Iraq ha colpito i popoli del mondo perché inaugura le azioni imperialiste del nuovo secolo. Appaiono chiari i meccanismi dell’oppressione militare, della sottomissione politica e del saccheggio economico dei Paesi periferici e si può osservare il mutamento sostanziale intercorso nelle relazioni tra le potenze centrali negli ultimi decenni.

Massacro e occupazione

L’invasione ha costituito un massacro atroce della popolazione civile, ed ha smentito le fantasie di guerra "indolore" che hanno diffuso gli uomini del Pentagono. Le "bombe intelligenti" sono esplose sui mercati e sulle scuole provocando un numero di vittime che è stato attentamente occultato. Se nell’ultimo decennio l’embargo è costato la vita a mezzo milione di iracheni, spaventa immaginare quale sarà il bilancio finale della tragedia in corso.

Persinio l’"aiuto umanitario" che avrebbe dovuto coronare la devastazione, è stato ritardato, mentre i bambini si dissanguavano senza cure, né acqua in ospedali distrutti. Non si è trattato di un "danno collaterale" ma di una sofferenza programmata dagli invasori per terrorizzare la popolazione di fronte alla prospettiva di una lunga occupazione.

L’arrivo dei marines è stata anche la causa dell’irruzione tollerata di una massa di saccheggiatori che ha distrutto i resti della vita organizzata delle grandi città. Il dantesco quadro di esecuzioni indiscriminate, musei distrutti, biblioteche bruciate, negozi svuotati e banche assaltate sotto gli occhi delle truppe nordamericane, illustra quel che Bush e Blair intendevano per "liberazione dell’Iraq".

E’ evidente che il pentagono e i suoi mezzi di comunicazione hanno ingigantito la capacità militare di Saddam per giustificare l’aggressione. Si è stimata la sproporzione di forze in diecimila ad uno ed alcuni esperti hanno calcolato che l’esercito iracheno è restato completamente annichilito sotto il peso di sette milioni di tonnellate di bombe lanciate durante l’operazione. Dove sono le armi chimiche che minacciavano la sopravvivenza di tutti? Al posto di armi di distruzione di massa i marines hanno incontrato vecchi fucili e granate inservibili. Questo risultato non è sorprendente perché il disarmo è stato realizzato prima dell’invasione grazie alle diverse ispezioni dell’ONU che hanno compromesso il dispositivo militare del Paese, trasferendo al comando nordamericano tutte le informazioni di spionaggio richieste per realizzare l’aggressione.

Guerra o invasione?

Il termine "guerra di Iraq" è poco adeguato per descrivere l’operazione di stampo coloniale che ha portato a termine il gendarme statunitense. E’ vero che l’invasione può scivolare verso una lunga guerra regionale, specie se la caduta di Baghdad incentiva il prolungamento dell’attacco verso i paesi vicini (prima la Siria poi l’Iran). Ma ciò che è accaduto in Iraq assomiglia di più alla conquista di Grenada negli anni ottanta e di Panama negli anni novanta che ha un confronto tipico tra due eserciti. Per questo è assurdo paragonare l’ingresso dei marines in un Paese periferico indifeso allo sbarco degli alleati in Normandia.

Allo stesso modo è la prima volta che le truppe nordamericane occupano una grande capitale araba sostituendo i tipici golpe della CIA con un intervento massiccio di soldati. Questo tipo di azione assomiglia alle tradizionali conquiste inglese dell’epoca vittoriana, quando ogni angolo del pianeta occupato dall’esercito reale era esibito come un trofeo di Sua Maestà. L’immagine della bandiera nordamericana che sventola negli edifici e monumenti dell’Iraq ricorda quel periodo. Ma l’analogia non si limita al piano simbolico, dato che riportandosi al secolo XIX Bush si appresta a designare un trafficante di armi come nuovo vicerè dell’Iraq e a creare un’amministrazione di gente che ricorda a malapena la propria lingua natale.

Il paragone con il precedente coloniale inglese calza anche con il tentativo nordamericano di dominare il Paese opponendo le etnie rivali con l’aiuto di alcuni capi tribali. Ma l’Iraq non è una nazione primitiva ed ha già resistito in passato ad una occupazione coloniale. A differenza dell’Afghanistan fa parte del gruppo di Paesi arabi di medio sviluppo economico, culturale e tecnologico.

L'aggiornata versione statunitense della "perfida Albione" è per questo molto più fragile e arrischiata del suo precedente britannico. Balcanizzare nazioni già costituite e sostenere allo stesso tempo la centralizzazione economica dei territori conquistati è molto più difficile che nel passato. Un segnale anticipatore di questi ostacoli è stato l’assenza della sperata ribellione sciita nel sud dell’Iraq ed anche il polverone che ha creato nel nord l’avanzata militare dei Kurdi in un cammino verso l’autodeterminazione nazionale che la Turchia non è disposta a tollerare.

Petrolio, armi e acqua

La preoccupazione prioritaria che hanno mostrato gli invasori per evitare l’incendio dei pozzi petroliferi conferma che uno dei principali obiettivi dell’aggressione è l’appriopriazione nordamericana delle immense riserve del petrolio iracheno. Non è un segreto che queste riserve siano sufficenti per alterare drasticamente il comportamento del mercato internazionale; per questo gli occupanti non dissimulano la propria intenzione di promuovere un incremento dell’offerta petrolifera che assicuri il rifornimento degli Stati Uniti ed indebolisca la regolazione dei prezzi da parte dell’OPEC.

Alcuni analisti stimano pure che questo controllo punta a riaffermare la supremazia mondiale del dollaro, potenzialmente minacciata dalla nascita della moneta comune europea ed pensano che l’invasione sia stata facilitata dalla decisione irachena alla fine del 2000 di commercializzare il suo combustibile in euro.

Il nuovo vicerè nordamericano comincerà distribuendo il bottino petrolifero tra le compagnie statunitensi, dopo aver sepolto il sistema nazionalizzato di estrazione e produzione del petrolio. Come verranno ripartiti i contratti è un punto conflittuale che Bush cercherà di risolvere con i suoi complici britannici.

Ma gli occupanti preparano come minimo tre affari addizionali. Il primo è la ricostruzione economica, che muoverà milioni di dollari a favore delle corporazioni più legate all’amministrazione repubblicana. E’ terribile sapere che questi contratti furono chiusi trentasei giorni prima dell’invasione e che in essi si è delineata la riedificazione delle strutture che sarebbero state poi demolite dall’aviazione. E’ difficile trovare qualche precedente più sanguinario di divisione capitalista del lavoro e di programmazione tanto atroce degli investimenti.

Il secondo campo di affari consiste nella vendita di armamenti, dato che la sperimentazione in battaglia costituisce la principale attività di marketing per gli esportatori del complesso militare industriale. Mentre l’impatto della crescente spesa bellica sull’economia nordamericana è ancora incerta, il suo effetto in maggiori vendite mondiali di armamenti è già percepibile. Questa voce d'esportazione risulta vitale per un settore attualmente più legato alla concorrenza mercantile che alla domanda statale e che per di più si trova molto colpito dalla crisi di sovrapproduzione che coinvolge i settori dell’alta tecnologia. Infine l’Iraq è un paese dotato di enormi risorse idriche la cui importanza strategica è tanto rilevante quanto i profitti che sperano di realizzare le compagnie privatizzatrici.

Il saccheggio economico dell’Iraq è la conseguenza più chiara dell’aggressione. Mentre risulta prematuro prevedere l’effetto di questa operazione sul corso dell’economia nordamericana ed internazionale, la depredazione di risorse che soffrirà il Paese è già un dato indiscutibile.

Impero o imperialismo

L’invasione è stato un atto imperialista perché punta a rafforzare la dominazione di una potenza centrale su una nazione periferica. Questa sottomissione include l’intervento militare, la ricolonizzazione politica e lo sfruttamento economico dell’Iraq. Ma la novità è la spudorata rivendicazione di questa oppresssione da parte di numerosi intellettuali. Un guru di Blair ha dichiarato recentemente che "il mondo necessita di una nuova forma di imperialismo" per assicurare "l’ordine e l’organizzazione" della società (1). Dalla tesi culturale dello "scontro di civiltà" si è passati così alla glorificazione dell’intervento bellico, resuscitando l’arcaico linguaggio del colonialismo. Questa linea di azione è condivisa da tutta la classe dominante nordamericana che ha sostenuto Bush con elogi sulla stampa, discorsi patriottici e l’approvazione legislativa del finanziamento dell’operazione. L’attacco all’Iraq non è stata l’avventura irrrazionale di un mistico guerriero, ma un azione collettivamente approvata da tutti i senatori democratici e repubblicani. L’invasione pretende di riaffermare l’egemonia dell’imperialismo nordamericano e per questo non costituisce solo una guerra arbitrariamente decisa dagli uomini di Bush (2).

Allo stesso modo non è corretto concepire l’aggressione come un atto dell’"impero" nel senso che Negri e Hardt assegnano a questo termine. I marines non hanno attuato al servizio di un capitale transnazionale, globalizzato e indiscriminato ma su richiesta delle corporazioni nordamericane al fine di sostenere la competitività di queste compagnie di fronte ai propri rivali europei. L’incomprensione di questo carattere specificatamente imperialista ha avuto due implicazioni negative tra i teorici dell’"impero" (3).

Da un lato questi autori si lamentano per lo spostamento che ha introdotto il conflitto nel movimento di protesta che ha conosciuto un'evoluzione dalla resistenza contro le corporazioni globali al rifiuto del militarismo identificato con gli USA. Invece di recepire il progresso nella coscienza anticapitalista che implica questo processo, osservano con diffidenza questo spostamento. Non comprendono che questo passo, dalla critica dello sfruttamento economico alla messa in discussione dell’oppressione politica, apre un nuovo terreno di lotta e contribuisce alla maturazione del movimento di protesta. Gli obbiettivi progressisti di questa battaglia non sono stati "deviati", ma, al contrario, si sono ampliati.

D'altro canto gli analisti dell’"impero" intravedono tratti di negativo antiamericanismo nelle mobilitazioni centrate nella lotta antimperialista ignorando che il sentimento dominante di queste proteste non risiede nel ripudio della nazione nordamericana ma nella guerra del petrolio che conducono le classi dominanti. Questa confusione deriva dall’incomprensione dell’imperialismo attuale, che opera attraverso le potenze capitaliste strutturate intorno a stati nazionali e insiemi regionali.

I cambiamenti interimperialisti

Il conflitto in Iraq ha provocato il maggior conflitto tra grandi potenze delle ultime cinque decadi. Si sono incrinate la NATO e il Consiglio di Sicurezza dell’ONU e in generale l'alleanza transatlantica che sostiente l’ordine mondiale vigente. Nonostante queste crisi siano certamente profonde è sbagliato dedurre che finiranno nella riproposizione degli scontri bellici tra potenze che predominarono fino alla metà del secolo XX.

Il concetto di "terza guerra mondiale" può solo giustificarsi se lo si interpreta come una estensione regionale dell’invasione nordamericana (e conseguente mondializzazione del conflitto). Ma anche questa prospettiva non implica un prolungamento della prima o della seconda guerra mondiale. Nessuna potenza è attualmente interessata ed in condizioni di sfidare la superiorità militare nordamericana e questo predominio, insieme al salto registrato nella associazione di capitali di diversa origine nazionale, differenzia radicalmente la crisi in corso dalle tradizionali guerre interimperialiste.

Le relazioni tra le classi dominanti di Francia e Germania con i loro rivali nordamericani sono divenute tese per conflitti contingenti (contratti petroliferi, debiti dell’Iraq, affari per la ricostruzione) e per dilemmi strategici. Nell’introdurre un cuneo tra "vecchia e nuova Europa", gli USA pongono in pericolo la continuità del progetto della comunità europea e compromettono la capacità dell’Europa di costruire un asse economico e una moneta alternativa all’egemonia nordamericana. Ma qualsiasi sia il corso di questo processo non è in vista un ritorno agli scontri che diedero origine alle guerre del ’14 o del ’39. Per questa ragione il concetto di imperialismo ha un significato attualmente differente da quello dell’inizio del secolo XX.

Nell’immediato l’imperialismo nordamericano pretenderà di estrarre grandi profitti dalle sue conquiste sanzionando l’atteggiamento franco-tedesco (e l’allineamento russo). Alcuni falchi (Wolfowitz) sostengono punizioni finanziarie (moratoria del debito iracheno con l’Europa) e petrolifere (marginalizzando la Francia riguardo i contratti). Kissinger stesso immagina un’allenza strategica con la Cina se l’Europa non si sottomette al quadro di riaffermazione della dominazione statunitense (4).

Il corso dell’invasione ha smentito per adesso le aspettative che molti intelettuali nutrono riguardo l’eventualità di un ruolo più autonomo dell’Europa (5). Ma il prevalere di un corso di maggiore tensione, o l'associazione o la subordinazione dei capitalisti del vecchio continente nei confronti dei loro concorrenti nordamericani dipende dalla capacità statunitense di tradurre la propria superiorità militare in dominazione politica stabile.

Un’egemonia incerta

La preminenza di un gruppo super reazionario nell’amministrazione Bush costituisce un dato significativo ed allarmante. Rumsfeld, Kagan, Wolfowitz sono falchi addestrati sotto il governo Reagan e Bush padre che hanno raggiunto un quadro di inedita omogeneità ed influenza. Sono riusciti ad unificare in una stessa strategia i gruppi destrorsi e opposti delle lobbies petrolifere ed israeliane. Hanno anche imposto una direzione unilaterale quando l’ONU ha resistito all’attacco e hanno intrapreso azioni ostili (spionaggio) e provocazioni poco usuali nella diplomazia occidentale. Hanno convertito la gran parte della stampa in una cloaca di patriottismo volgare restaurando un clima di caccia alle streghe sconosciuto negli USA dai tempi del maccartismo. Ma: questo gruppo ha un sostegno sufficiente per intraprendere un corso fascisteggiante?

Alcuni autori che suggeriscono questa evoluzione contradditoriamente pensano che la decadenza nordamericana persiste da diverse decadi. Non vedono che le due caratterizzazioni sono poco compatibili, dato che una riaffermazione militarista degli Stati Uniti non è concepibile senza retroterra economico, tecnologico e politico. Di fronte a queste difficoltà analitiche conviene precisare.

L’invasione dell’Iraq è stato un effetto del recupero egemonico che hanno registrato gli USA durante gli anni '90 su tutti i piani e non solo nella dominante sfera militare. L’aggressione ha corrisposto a picchi di accumulazione che obbligano ad espandere mercati e a cercare uscite alla crisi di sovrapproduzione anche con atti di forza. Ma questo rafforzamento non colloca gli USA sul piedistallo del "superimperialimo", perché nessun rivale della prima potenza è stato retrocesso allo status di Paese dipendente e nemmeno si è rassegnato al primato definitivo del dollaro.

E’ certo che l’Europa e soprattutto il Giappone hanno perso terreno di fronte alle corporazioni nordamericane, ma si mantengono in carreggiata e, come è già accaduto negli anni ‘70 e negli anni ‘80, il progresso nordamericano può invertirsi. Per questo si può supporre che nell’immediato all’imperialismo statunitense sarà necessario ricostruire alleanze molto più solide per sostenere la propria occupazione nel Vicino Oriente.

Il punto critico

Il punto più critico dell'assalto imperialista si situa nel mondo arabo perché è improbabile che una operazione coloniale possa imporsi senza resistenze in una regione segnata da memorabili lotte di emancipazione nazionale. Un anticipo di questa prospettiva si è già osservato nella prima settimana di conquista.

Invece dell’aspettato plauso popolare le truppe statunitensi hanno incontrato una insperata opposizione. La credenza che l’enorme ostilità alla dittatura di Saddam si sarebbe tradotta in un benvenuto ai marines è rimasta duramente smentita. Gran parte del popolo iracheno comprende che l’oppressione nordamericana non sarà migliore della tirannia di Saddam e per questo in alcune regioni i marines sono stati accolti dal grido "né Saddam né Bush".

E’ evidente che gli occupanti non hanno a disposizione un governo di rimpiazzo e che questa assenza, che aveva spinto 10 anni fa Bush padre ad evitare la caduta di Saddam, può compromettere l’occupazione nordamericana. Il regime-vicereame si trova davanti la possibilità di una resistenza popolare che potrebbe convertire l’Iraq in una nuova Palestina spingendo i marines verso lo stesso baratro in cui si è trovato l’esercito israeliano nel sud del Libano o le truppe francesi in Algeria. Per questo un conoscitore della questione ha avvisato gli Stati Uniti che gli iracheni non costituiscono un "popolo primitivo ma una delle società più sofisticate del Medio Oriente" (6).

L’emozione creata nell’universo arabo per gli episodi di umiliazione che di cui sono protagonisti i marines è vasta. La bandiera USA a Bagdad ha scatenato un sentimento di odio generalizzato.

La caduta di credibilità della CNN e la crescente audience di Al-Jazeera è un altro sintomo di questo rifiuto. L’avversione che affrontano gli Stati Uniti in tutta la regione è diversa dalla passività e dalla rassegnazione che ha predonominato dopo la conclusione della prima guerrra del Golfo. Per questo c'è il timore di una incontrollata moltiplicazione dei Bin Laden e di una crescente destabilizzazione dei regimi proUSA come l'Arabia Saudita e il Pakistan. La rivolta antimperialista è all’ordine del giorno in tutta la regione e la sua prospettiva dipende dalla forma attraverso la quale sarannno politicamente vissute le fallite esperienze nazionaliste e i reazionari tentativi fondamentalisti.

La resistenza globale

Come è già accaduto durante la guerra del Vietnam la battaglia contro l’invasione è stata sostenuta da una rete mondiale di mobilitazione. Ma a differenza degli anni ’70 la reazione popolare è cominciata prima del conflitto e si è manifestata in maniera simultanea e coordinata in un centinaio di Paesi.

Le manifestazioni gigantesche non sono finite dopo la caduta di Saddam perché vi è la coscienza che l’attacco non termina a Baghdad. La totale carenza di legittimità ha tolto ogni sostegno politico all’invasione e per questo i governi occidentali che appoggiano il massacro hanno pagato un prezzo di fronte all’opinione popolare.

Le mobilitazioni hanno raggiunto inedite proporzioni in migliaia di città. In Inghilterra si è registrata la maggiore protesta di piazza della sua storia. D’altra parte le manifestazioni per l’Iraq costituiscono un nuovo momento delle proteste globali che sono iniziate a Seattle, Genova, Firenze, Porto Alegre. Esiste già un Forum che organizza la campagna contro l’aggressione e che potrebbe rafforzarsi con la nuova prospettiva antimilitarista del movimento contro la globalizzazione capitalista.

D’altra parte una nuova prospettiva antimperialista è stata adottata da milioni di giovani, lavoratori e disoccupati nel mondo.

Alcuni intellettuali con una certa diffidenza sottolineano che persistono ingenue aspettative di molti manifestanti nei confronti dei governi europei, che in realtà si comportano come complici dell’invasione. Ma ciò non diminuisce il carattere progressivo della protesta, dato che la lotta è il principale terreno di apprendimento popolare. Nessuna illlusione può dissiparsi se non è posta alla prova nella battaglia per obbiettivi antibellici.

Lo stesso vale per le speranze riposte nelle Nazioni Unite. Ciò che è accaduto in Iraq dimostra che attualmente il diritto internazionale si riduce al potere del più forte. Per trasformare questa realtà non esiste altra strada che la resistenza all’imperialismo perché solo da questa azione potrà sorgere un nuovo ordine giuridico basato nei prinicipi di soluzione negoziata dei conflitti nazionali e di autodeterminazione dei popoli.

Socialismo o barbarie

Il crimine dell’Iraq tratteggia la natura del capitalismo contemporaneo. L’immagine del neoliberalismo "amichevole e sorridente" dell’era Clinton è stato bruscamente sostituito dalla faccia brutale del genocida Bush. Molti veterani della lotta sociale già conoscono questi ricorsi, ma per la generazione che è entrata nell’universo politico nell’ultimo decennio questi cambiamenti sono molto significativi e la riflessione su di essi può aprire nuovi orizzonti politici.

E’ cominciata una dinamica che può chiarire perché la battaglia per "un altro mondo possibile" esige di costruire un alternativa socialista. Il fantasma del collasso dell’Unione Sovietica non blocca più questa riflessione tra una gioventù che è meno esposta all’ondata di pessimismo intellettuale che ha accompagnato quel crollo. Riscoprire il socialismo è la strada per unire i popoli e per superare l’attuale incubo di sangue e dolore.

15 aprile 2003

 

Note
[1] Robert Cooper citato da Juan Gelman, in"¿Posmoderna?". Página 12, 21-3-03.
[2] Si tratta dell'erronea tesi di Sebrelli Juan José. "La guerra y el sistema internacional". La Nación, 28-3-03
[3] Vedi: Hardt Michel. "No al antiamericanismo". Página 12, 21-2-03
[4] Vedi: Kissinger Henry. "EEUU no estará solo en Irak", Clarín, 11-4-03.
[5] Per esempio: Todd Emmanuel. "Esto es una muestra de debilidad" Página 12, 30-03-03.
[6] Dichiarazioni dell'ex cancelliere israeliano Shlomo Ben Amí. Página 12, 3-4-03

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