Iraq dopo le elezioni
Dopo la farsa delle elezioni l'autentica realtà di un
paese in rivolta.
Di
Gianfranco Coggi. Settembre 2005.
I risultati delle elezioni
Il 30 e il 31 gennaio scorso si sono svolte in Iraq le elezioni imposte dall’Amministrazione
Bush per una Assemblea Costituente. “In queste elezioni il popolo irakeno
ha preso il controllo del destino del proprio paese e ha scelto un futuro
di libertà e di pace”: così ha trionfalmente commentato
George Bush. Negli USA e negli altri paesi che hanno inviato soldati in Iraq,
i giornali più prestigiosi gli hanno prontamente fatto eco, dichiarando
che la guerra contro Saddam e la presenza delle truppe straniere avevano permesso
ad un popolo oppresso di ritrovare il proprio destino.
Una grande esultanza, dunque. Come se tale evento avesse potuto fare tabula
rasa di ciò che è accaduto nel paese negli ultimi 20 mesi e
addirittura di ignorare che il processo elettorale era stato il risultato
finale di una guerra di aggressione e di una occupazione illegale. Poco importa
se le elezioni si sono svolte in un paese occupato da 200.000 soldati stranieri
e in stato di guerra, senza che alcun candidato abbia potuto fare una campagna
elettorale degna di questo nome, con i mezzi di comunicazione controllati
dalle forze di invasione.
E soprattutto senza tenere conto di una circostanza fondamentale: ossia, che
un paese occupato da truppe straniere non è in grado di esercitare
liberamente il proprio diritto all’autodeterminazione. Dunque, come
vi si possono svolgere “libere” elezioni?
Il mondo intero ha dovuto aspettare fino al 13 febbraio per conoscere i risultati
forniti dalla Giunta Elettorale. Il numero ufficiale dei partecipanti è
stato di 8.456.266 votanti, pari al 57% dei circa 14,7 milioni di cittadini
irakeni iscritti nelle liste elettorali, su circa 20 milioni di potenziali
aventi diritto al voto. Se solo il 70% della popolazione avente diritto è
risultata iscritta nelle liste elettorali, ne consegue, quindi, che la partecipazione
“reale” alle elezioni è stata di circa il 42%, come del
resto ha ammesso anche la rivista on line Debka, vicina ai servizi segreti
israeliani.
La coalizione sciita (che peraltro comprende anche formazioni di altre comunità
e confessioni), riunita intorno alla figura del grande ayatollah Sistani e
denominata Alleanza Unita Irakena, ha ottenuto il 47,6% dei voti, di cui il
60% a Baghdad (dove ha votato il 51% degli iscritti), ed il resto nelle province
meridionali del paese, dove il livello medio di partecipazione è stato
del 72%.
L’altra grande coalizione, l’Alleanza Curda, formata dall’Unione
Patriottica del Kurdistan e dal Partito Democratico del Kurdistan, ha ottenuto
il 25,4% dei voti. Al terzo posto è risultata la Lista Irakena dell’attuale
primo ministro Allawi, con il 13,6% dei voti. Al quarto posto la lista capeggiata
dall’attuale presidente interino del paese, Ghazi al-Yawar, sunnita,
che ha raccolto i propri voti nelle province centrali del paese, dove vi è
stata una partecipazione particolarmente bassa, dal 2% di Falluja al 29% di
altre località. Saranno poi presenti nell’Assemblea Costituente
altre 7 formazioni minori, tra cui quella del Partito Comunista e quella dei
seguaci di Moqtada al-Sadr.
Con la sola lodevole eccezione di alcuni mezzi di informazione alternativi
(antiwar.com, zmag.org, media-channel.org, democracynow.org, prwatch.org,
commondreams.org, nodo50.org, New Yorker, mundo arabe, rebelion.org, tra i
principali) i grandi mezzi di comunicazione nordamericani ed europei hanno
assecondato la strategia di disinformazione della Casa Bianca. Ma “i
fatti hanno la testa dura”: il livello della partecipazione elettorale,
i risultati finali di queste elezioni e, soprattutto, le contraddizioni che
esse aprono, sembrano piuttosto indicare che esse non sono servite a dare
una soluzione alla situazione di grande difficoltà, in cui si trovano
oggi le potenze occupanti ed i loro compiacenti sostenitori irakeni.
La
situazione attuale dell’Iraq
“L’invasione ha
rappresentato la guerra degli Stati Uniti contro l’Iraq. Oggi assistiamo
alla guerra dell’Iraq contro gli americani”, con queste
parole ha evidenziato la situazione attuale del paese Dahr Jamail, un giornalista
americano di genitori irakeni, originario di Anchorage, Alaska, che da circa
10 mesi opera all’interno dell’Iraq occupato. I suoi articoli
sono pubblicati nel sito internet del quotidiano progressista The New Standard
di New York, del quale è corrispondente a Baghdad. Dahr Jamail lavora
anche per altri giornali e cura un sito (www.dahrjamiliraq.com),
nel quale è possibile trovare anche una serie di fotografie che documentano
le atrocità compiute dalle forze di occupazione ai danni della popolazione
irakena.
Nel marzo 2003 le truppe degli Stati Uniti, della Gran Bretagna e dei loro
alleati avevano infatti iniziato la guerra per l’occupazione militare
e politica dell’Iraq, conseguendo una rapida vittoria militare contro
l’esercito irakeno. In brevissimo tempo erano riusciti a rovesciare
Saddam Hussein e ad insediare nel paese un regime neocoloniale attraverso
un governo fantoccio diretto dal primo ministro Allawi. Il trionfo di quel
sistema che Carlos Fuentes ha definito “petropotere” sembrava
ormai inevitabilmente assicurato.
Ma, come spiegava il poeta cubano José Martì, “in politica,
la realtà non è ciò che si vede”. La cronaca quotidiana
dell’Iraq ci consegna piuttosto la situazione di un paese in cui –
a distanza di due anni - l’aggressione imperialista è in seria
difficoltà. Contro di essa infatti si è scatenata una tenace
opposizione da parte del popolo irakeno. L’esercito più poderoso
del mondo, dotato della tecnologia militare più avanzata e di mezzi
di distruzione ineguagliabili, per giunta privo di qualsiasi scrupolo morale
o “umanitario” (come drammaticamente hanno dimostrato le vicende
delle torture ai prigionieri irakeni), non riesce a controllare un paese dove
tutte le infrastrutture sono state rase al suolo e con una popolazione ridotta
allo stremo.
Ma il fallimento dell’occupazione militare si rivela non solo sul piano
interno, ma anche su quello che potremmo definire mondiale. Contro l’aggressione
imperialista si è infatti sviluppato in tutti i paesi del mondo uno
straordinario movimento di opinione senza precedenti nella storia dell’umanità.
Attraverso i fori sociali mondiali, i movimenti antiglobalizzazione e l’iniziativa
delle organizzazioni progressiste tradizionali si è costituito un vero
e proprio movimento internazionale, che è anche riuscito ad ottenere
alcuni significativi, anche se parziali successi, come dimostrano il ritiro
dei contingenti militari della Spagna, delle Filippine, della Polonia e del
Portogallo (l’Olanda ha appena iniziato il ritiro dei suoi 1.400 soldati
e l’Ucraina lo ha annunciato dal prossimo ottobre).
Anche nei giorni scorsi il movimento contro la guerra si è fatto sentire
in tutto il mondo. Come deliberato dal Forum di Porto Alegre, il 19 e il 20
marzo – in occasione del secondo anniversario dell’invasione dell’Iraq
– si è svolta una giornata mondiale di mobilitazioni, con la
richiesta del ritiro immediato delle truppe di occupazione. Ad essa hanno
partecipato sia le forze che sostengono posizioni pacifiste “pure”,
sia quelle che propendono per una soluzione concordata (posizione particolarmente
diffusa in ampi settori della sinistra europea), sia quelle che “senza
se e senza ma” sostengono apertamente la resistenza irakena. In tantissime
capitali si sono svolte manifestazioni, la più imponente delle quali
è stata quella di Londra, dove hanno sfilato circa 200 mila persone.
Anche in Italia vi è stata una nutrita partecipazione alle manifestazioni
organizzate in varie città, a partire da quella di Roma, dove hanno
sfilato circa 50.000 persone.
Dahr Jamail ci racconta come è cambiata la percezione della situazione
politica del proprio paese da parte dei cittadini irakeni nel corso dei due
anni di occupazione militare:
“La maggior parte degli
irakeni aveva appoggiato il rovesciamento di Saddam Hussein. Ma questo appoggio
è cominciato a svanire rapidamente con l’occupazione mano a mano
che la gente iniziava a vedere membri della propria famiglia morti, detenuti,
torturati e umiliati dalle truppe di occupazione.
Dopo è venuto Abu Ghraib. E’ difficile riuscire a descrivere
adeguatamente fino a che punto quegli avvenimenti hanno pregiudicato la credibilità
degli USA in Iraq e in tutto il Medio Oriente.
A ciò si è aggiunto l’assedio di Falluja del mese di aprile
2004, la ricostruzione praticamente inesistente, l’importazione di lavoratori
stranieri per effettuare lavori per i quali gli irakeni sono molto più
dotati, l’installazione di un governo provvisorio illegale.
Qualsiasi credibilità abbiano potuto avere gli occupanti – e
dubito assai che ne abbiano avuta in qualche momento – l’hanno
persa dopo la distruzione di Falluja. Gli irakeni con i quali parlo sono furiosi
contro il governo americano. Anche se sono consapevoli che probabilmente la
maggior parte del popolo americano si oppone al regime di Bush, credono che
il governo americano e coloro che lo appoggiano siano colpevoli di crimini
di guerra della peggior specie. Ciò che vedo qui tutti i giorni è
rabbia, dolore e ansia di vendetta.
Odiano Allawi… Sono perfettamente consapevoli che Allawi è un
esiliato, che è stato per molto tempo, per troppo tempo, legato alla
CIA e ai servizi segreti inglesi. Lui e gli altri membri del governo provvisorio
sono considerati dei banditi, usurpatori e servi degli americani. Li odiano
a morte, poiché sanno che non sono qui per fare gli interessi del popolo
irakeno…
Le “forze dell’ordine” irakene, vale a dire la polizia e
la guardia nazionale, sono considerate dalla maggior parte della popolazione
come spie dell’esercito statunitense. La maggior parte degli irakeni
li considerano come spie e traditori. Anche se la gente comprende che molti
tra coloro che fanno parte di tali forze si sono arruolati per pura disperazione,
a causa della penuria di posti di lavoro, tuttavia continuano ad odiarli nella
stessa misura in cui odiano le truppe di occupazione straniere. Non aiuta
molto a migliorare la propria immagine il fatto che molti agenti della polizia
irakena sono compromessi col crimine organizzato.”
Un paese
in rivolta
Nel settembre 2004,
il portavoce ufficiale della Casa Bianca, Scott Mc Clellan, aveva annunciato
che 997 militari americani erano morti in Iraq, dopo 18 mesi dall’inizio
dell’occupazione militare del paese avvenuta nel marzo 2003.
In base a stime effettuate dall’agenzia Associated Presse,
attualmente il numero
dei soldati USA che hanno perso la vita in Iraq si avvicina a circa 1.500,
e 10.000 sono quelli rimasti feriti.
Ciò significa
che solo negli ultimi 5 mesi, gli USA hanno perso 500 soldati, la metà
circa di quelli caduti durante i primi 18 mesi di occupazione militare. Solo
nel mese di gennaio 2005, secondo fonti giornalistiche, sono morti circa 106
soldati USA e circa 300 collaborazionisti irakeni (tra poliziotti e soldati).
Il Pentagono ha inoltre ammesso che circa 5.500 soldati americani hanno disertato,
anche se le organizzazioni dei familiari hanno dichiarato che la cifra reale
è probabilmente assai maggiore.
Il comando militare americano ha riconosciuto che un quarto delle perdite
di soldati USA è dovuto ad attacchi ai veicoli da combattimento Humvees,
secondo un’informativa rilasciata da Al
Jazeera.
Un documento elaborato nello scorso mese di ottobre da parte di una commissione
strategica del Pentagono aveva chiaramente riconosciuto che la guerra in Iraq
era ormai persa: tale rapporto è stato in pratica “occultato”
dai mezzi di informazione più importanti degli USA, poiché avrebbe
creato seri problemi al governo Bush durante la campagna elettorale.
Ai primi di marzo il Washington
Post ha rivelato che l’offensiva dei ribelli contro le truppe
di occupazione e i loro collaborazionisti, dopo le elezioni di fine gennaio,
faceva segnare una media di circa 60 attacchi al giorno, per non parlare delle
vere e proprie insurrezioni militari, come quelle di Falluja e di Nadjaf.
Alle azioni militari dirette contro i soldati americani e le loro infrastrutture
va aggiunto che ormai la guerriglia sta portando a termine un piano sistematico
di attentati e di sabotaggi contro l’industria petrolifera irakena,
che provoca una considerevole interruzione nelle forniture di petrolio, di
acqua e di elettricità. Il New
York Times in un servizio del 20 febbraio scorso, cita gli esperti
del Institute for analisis oh
the global security, secondo i quali gli attacchi contro l’industria
petrolifera vengono effettuati in modo sistematico e coordinato e sono stati
intensificati nelle ultime settimane, colpendo non solo oleodotti e raffinerie,
ma anche centrali elettriche e infrastrutture per la fornitura dell’acqua.
Nell’anno 2004 vi sono stati – secondo tali esperti – 246
attacchi contro le infrastrutture dell’industria petrolifera, con una
media di uno ogni un giorno e mezzo. Nei primi mesi del 2005 tali attacchi
si susseguono ad un ritmo di 2,5 alla settimana.
Questi numeri non possono essere spiegati semplicemente facendo ricorso a
presunti tentativi di ex sostenitori del regime di Saddam di ritornare al
potere né alle cospirazioni di gruppi terroristi stranieri. Essi rivelano
al contrario, più di qualsiasi analisi, la presenza in quel paese di
una ampia azione di contrasto contro l’occupazione, che si manifesta
con una effettiva capacità militare e che conta un forte sostegno da
parte del popolo irakeno.
La situazione attuale dell’Iraq sembra dunque quella di un paese dove
è in atto una lotta di resistenza, che coinvolge una gran parte del
suo popolo, contro una potenza imperialista occupante. Una resistenza del
tutto simile a quella promossa a suo tempo dal popolo algerino contro la Francia
negli anni ’50 o a quella della Cina contro il Giappone negli anni ’30.
E questa lotta si sviluppa nel contesto internazionale di una coscienza di
massa – particolarmente avanzata peraltro proprio negli stessi paesi,
come l’Italia, che con le loro truppe partecipano direttamente all’aggressione
– che non si è lasciata ingannare dalle menzogne sulla guerra
preventiva né dalle campagne di disinformazione.
Non vi è dubbio che in Iraq viene compiuta quotidianamente anche una
serie di atti ascrivibili, nelle loro finalità e nei metodi, a gesti
di vero e proprio terrorismo, se non addirittura di pura e semplice criminalità.
Tra essi i più eclatanti sono stati di recente i frequenti rapimenti
e la decapitazione di personale dipendente da aziende straniere, ma anche
il sequestro di volontari e di giornalisti stranieri (magari collaboratori
di giornali di sinistra e contrari alla guerra), oltre a un gran numero di
attentati contro la popolazione civile. Spesso queste azioni vengono attribuite
all’organizzazione terroristica capeggiata da Al-Zarqawi (presumibilmente
legata a quella di Al Qaeda di Bin Laden), della quale, sempre ammesso che
esista, poco o quasi nulla si sa. E’ pressoché impossibile capire
se dietro quella che appare come una vera e propria “strategia del terrore”
vi sia un livello, più o meno occulto, di direzione. Sembra però
evidente che tutta questa serie di attentati ha un effetto preciso: alimentare,
innanzitutto, la spirale della paura all’interno del paese e creare
divisioni tra la popolazione sciita e quella sunnita; ma soprattutto, a livello
di pubblica opinione sul piano internazionale, quello di screditare l’insorgenza
in atto nel paese contro l’occupazione arbitraria ed il saccheggio delle
sue ricchezze. A questo proposito sostiene Dahr Jamail:
“Gli irakeni sono sbigottiti e indignati dalle decapitazioni e dai sequestri
di persone come Margareth Hassan. Molti di loro sono convinti che si sia trattato
di un complotto della CIA e del Mossad avente la finalità di indurre
le organizzazioni umanitarie e i giornalisti ad andarsene e quindi a lasciare
via libera ai militari e alle imprese di continuare nella loro opera di smantellamento
e di svendita del paese.”
La resistenza
irakena
Subito dopo le elezioni presidenziali, gli alti comandi militari americani
indicavano alla catena CNN che il Pentagono aveva aumentato ad una cifra compresa
tra 13.000 e 17.000 il numero ufficiale degli appartenenti alla resistenza
irakena, nella maggior parte, secondo tali informazioni, militanti o quadri
militari dell’ex partito baasista di Saddam. Si tratterebbe di un settore
rilevante, composto principalmente da ex ufficiali dell’esercito irakeno,
in maggioranza sunniti, che dopo l’invasione sono passati alla clandestinità.
Ma circa un anno fa il quotidiano Philadelphia Inquirer aveva divulgato un
rapporto della CIA, dove si parlava di una situazione molto più grave:
i combattenti irakeni sarebbero - secondo tale fonte - circa 50.000 e con
un gran numero di armi. Questa cifra coincide con le informative dei servizi
segreti di altri paesi occidentali, secondo le quali la resistenza conterebbe
invece da circa 40.000 a 60.000 combattenti, oltre al sostegno massiccio della
maggioranza della popolazione irakena.
Nella stessa intervista Dahr Jamail rileva:
“la maggioranza degli
irakeni considera i membri della Resistenza come dei ‘patrioti’
e dei ‘combattenti per la libertà’. Secondo una stima assai
prudente, la resistenza irakena riceve oggi il sostegno di almeno l’80%
della popolazione.”
Si tratterebbe di ulteriori settori, organizzati da movimenti religiosi o
di natura politica, ma che comprenderebbero al proprio interno anche molte
persone che hanno deciso di intraprendere la strada della lotta dopo l’occupazione
militare del paese:
“La resistenza è
composta principalmente da gente che si limita a resistere alla occupazione
del proprio paese da parte di una potenza straniera. E’ gente nelle
cui famiglie vi sono state persone morte, detenute, torturate e umiliate dalle
truppe di occupazione illegali di questo sventurato paese… In realtà
si tratta di una reazione difensiva contro gli occupanti che, man mano che
l’occupazione si prolunga, sta passando progressivamente alla offensiva.”
Gahzwan Al-Mukhtar è un attivista contro la guerra che vive a Baghdad
e che ha descritto le conseguenze della guerra sull’economia del suo
paese in un intervista pubblicata nel numero di marzo della rivista DemocracyRising.US.
Egli dice chiaramente che oggi per la gente la situazione è molto peggiorata
in Iraq: sia dal punto di vista economico che politico oggi gli irakeni si
sentono meno sicuri e meno protetti.
Nella vita quotidiana persiste la penuria di alimenti; l’elettricità,
ivi compreso a Baghdad, viene fornita solo per due ore al giorno, e non tutti
i giorni; il prezzo della benzina è raddoppiato e ci sono file in attesa
delle scarse forniture; il sistema dei servizi sanitari e le fognature non
funzionano; la maggior parte delle infrastrutture sono state distrutte a seguito
dell’invasione e non vengono riparate. La disoccupazione è aumentata
al 60% e gli irakeni sono costretti a osservare i contrattisti statunitensi
che fanno lavori che potrebbero fare loro stessi. L’industria petrolifera
è stata privatizzata ad opera del governo fantoccio e con i decreti
di Paul Bremer le multinazionali USA si sono impadronite dei settori chiave
dell’economia irakena.
Mentre gli strateghi della politica statunitense sostengono che il ritiro
delle truppe dall’Iraq avrebbe l’effetto di scatenare una guerra
civile aperta tra le opposte fazioni del popolo irakeno (sciiti e sunniti)
e tra esse e i curdi del nord, l’iniziativa concreta dei diversi gruppi
della resistenza sembra invece indicare una prospettiva diversa. Nell’intervista
rilasciata a Charles Shaw il 23 dicembre scorso, Dahr Jamail mette piuttosto
in evidenza la circostanza che l’azione dei diversi gruppi inizia a
unificarsi e ad evolvere verso una direzione centralizzata, o quantomeno verso
forme di collaborazione tra le diverse componenti:
“Durante l’assedio
di Nadjaf le moschee sunnite hanno organizzato colette di alimenti, e vi sono
stati anche combattenti della resistenza di Falluja che hanno fornito armi
e munizioni all’esercito del Mahdì a Najaf. Nel corso dell’assedio
di Falluja dello scorso mese di aprile gli sciiti hanno contribuito decisivamente
a fornire aiuti e hanno anche partecipato ad una iniziativa pacifica che è
riuscita a ottenere che un certo numero di aiuti potessero passare attraverso
un cordone statunitense e arrivare fino a Falluja.
La frattura tra sciiti e sunniti è in gran misura un mito fabbricato
dalla CIA. In realtà vi sono numerosissime tribù e matrimoni
misti tra sciiti e sunniti. Vi sono anche alcune moschee nelle quali essi
pregano insieme. Ricorda il proverbio arabo: ‘Io, contro mio fratello.
Io e mio fratello, contro mio cugino. Io, mio fratello e mio cugino contro
lo straniero’”
Come ha scritto su Liberazione
del 16 marzo scorso Walden Bello, la verità è che di fronte
alla resistenza militare crescente del popolo irakeno, “gli USA stanno
perdendo la guerra in Iraq, sia politicamente, sia militarmente”.
La “sindrome del Vietnam”
A parlare tra i primi di “sindrome del Vietnam”, è stato,
autorevolmente, negli Stati Uniti il senatore democratico Edward Kennedy,
il quale già nell’autunno scorso aveva avvertito il presidente
Bush che l’impantanamento delle truppe americane in Iraq stava producendo
un fenomeno analogo a quello prodotto nella seconda metà degli anni
’60 dalla guerra nel sudest asiatico.
L’espressione “sindrome del Vietnam” allude direttamente
alla profonda lacerazione impressa nell’animo del popolo americano per
effetto della grande sconfitta subita dall’esercito degli Stati Uniti,
in quella che è stata una delle guerre più sanguinose condotte
dall’imperialismo statunitense. Quella sconfitta è stata la risultante
di alcuni fattori che hanno agito contemporaneamente: la resistenza eroica
del popolo vietnamita con una guerriglia di massa in grado di infliggere continui
colpi all’esercito più potente del mondo; l’appoggio e
la solidarietà nei confronti dei combattenti vietnamiti da parte del
movimento pacifista a livello mondiale; il rifiuto dilagante della guerra,
anche all’interno degli USA, di fronte all’aumento crescente delle
perdite di vite umane; e, infine, il costo sempre più elevato della
guerra per l’economia americana. Tutti questi fattori sembrano presenti
– a veder bene - nella situazione attuale della guerra in Iraq.
Continua nell’analisi citata sopra Walden Bello:
“Anche i 135.000 soldati
americani cominciano ad essere troppo pochi e incapaci di arginare la vorticosa
crescita dell’insurrezione a opera dei guerriglieri. Secondo le stime
realizzate da molti esperti militari, il numero minimo di soldati necessari
a combattere contro la guerriglia fino ad arrestarla varia tra 200.000 e un
milione. E’ impossibile raggiungere questi numeri senza provocare massicci
fenomeni di protesta civile negli Stati Uniti, dove la maggioranza della popolazione
ormai non vede alcuna giustificazione per l’intervento militare. Certo,
Bush ha vinto le elezioni, ma non per l’appoggio della popolazione alla
guerra, e lo stesso presidente ne è consapevole.”
Bisogna poi considerare attentamente la spirale di odio e violenza che l’occupazione
militare del paese ha provocato.
Secondo la prestigiosa rivista medica The
Lancet (vedi il numero del 29/10/2004) almeno 100.000 irakeni
sono morti a causa della guerra. La metà di essi di morte violenta
e l’84% a seguito di azioni militari degli eserciti americano e inglese;
solo il 4% a seguito di azioni della resistenza.
Il 31 marzo scorso,a Ginevra, in occasione della riunione annuale della Commissione
per i diritti umani dell’ONU, davanti ai rappresentanti di 53 nazioni
riunite in assise plenaria, il responsabile Jean Ziegler ha avuto parole durissime
per le conseguenze che la guerra ha avuto sul paese e per quello che ha definito
un massacro silenzioso e quotidiano. La Commissione ha monitorato le condizioni
della popolazione irakena negli ultimi due anni, ossia dall’inizio dell’invasione
americana in Iraq e dalla conseguente caduta del regime di Saddam Hussein,
scoprendo che da allora nel nuovo Iraq il numero dei bambini malnutriti è
pressoché raddoppiato. Ecco come Liberazione
del 1° aprile scorso ha riportato il resoconto sintetico della relazione
di Ziegler, professore di sociologia e uno dei maggiori esperti delle Nazioni
Unite su questi temi:
Dagli ultimi dati raccolti dalla Commissione, emerge che al
momento della caduta di Saddam Hussein il 4% dei bambini al di sotto dei 4
anni aveva gravi problemi di denutrizione. A due anni esatti di distanza,
la percentuale di bambini che non hanno niente da mangiare è quasi
raddoppiata, arrivando al 7,7%, e a poco valgono gli sforzi delle organizzazioni
internazionali. Ai problemi di approvvigionamento del cibo, vanno poi aggiunte
le malattie causate dall’impossibilità di avere acqua pulita
e dalla mancanza di strutture sanitarie adeguate. Fattori che in Iraq, come
nelle aree più povere del mondo, restano i principali responsabili
delle morti infantili. La situazione in cui versano i giovani irakeni –
ha poi spiegato il relatore alla commissione – ‘è il risultato
della guerra condotta dalle forze della coalizione’.
Per potere contrastare la resistenza crescente del popolo irakeno le truppe
USA sono costrette ad operare con metodi sempre più crudeli. Geert
van Morter è un medico belga che ha trascorso lunghi periodi in Iraq:
“’Eliminare i terroristi’,
è la parola d’ordine con la quale occupano intere città
e paesi. Ho potuto vederne i risultati negli ospedali: molti civiie feriti
e morti per effetto delle bombe (vale a dire, delle bombe a frammentazione),
abbattuti nei controlli, durante le perquisizioni nelle case, per la strada.
Ho potuto verificare che l’esercito americano è di per sé
un fattore di insicurezza. I suoi soldati sparano contro tutto ciò
che gli sembra sospetto. Anche contro le ambulanze, nonostante le prescrizioni
della Convenzione di Ginevra. Un soldato al quale avevo chiesto di rispettarla
mi ha risposto: ‘Questa ambulanza potrebbe essere stata piena di esplosivi’.
Sanno che possono agire impunemente. E’ stato lo stesso Bush a darne
l’esempio lanciando l’attacco preventivo contro l’Iraq.
Nell’agosto del 2003 ho chiesto ad un agente della polizia militare
che cosa avrebbero fatto vedendo degli individui sospetti fuggire: Mi ha risposto:
‘Li ammazziamo’. Quando un soldato americano uccide un irakeno,
non si preoccupa neppure di fare un rapporto verbale. E, se è costretto
a farlo, ‘ne adatta il resoconto sostenendo che quella persona fuggiva
sparando’. Nel novembre 2004, durante l’assalto a Falluja, abbiamo
visto in televisione un soldato americano mentre trascinava un ferito in una
moschea. Il soldato non ci trovava niente di male. Questo tipo di azioni non
è una cosa rara nell’Iraq occupato. Ma le immagini hanno fatto
il giro del mondo, e, allora, quel soldato è stato costretto a rendere
conto. Alla fine di febbraio l’esercito americano lo ha esonerato dal
servizio.”
Ma questo metodi aumentano a loro volta l’odio contro gli invasori e
il sostegno popolare alla resistenza e, ancora, la necessità per l’invasore
di aumentare la propria brutalità in una spirale infernale che non
lascia intravedere alcuna prospettiva.
“Ho visto l’orrore
di ciò che stiamo facendo tutti i giorni in Iraq, ho preso parte ad
esso. Siamo solo degli assassini. Uccidiamo continuamente civili innocenti
irakeni: niente di più. Credo che bisogna ritirare immediatamente tutti
i contingenti militari stranieri in Iraq. E’ quello che dico agli altri
soldati, che, per evitare punizioni o rappresaglie da parte dell’esercito,
non vogliono parlare e ammettere che la nostra missione non è quella
di uccidere i terroristi ma civili innocenti.”
Sono le parole di Jimmy Massey di Waynesville, Carolina del Nord, sergente
del 3° battaglione dei marines, che in una recente intervista al Manifesto
ha deciso di infrangere il velo di silenzio che circonda la “nobile
missione” in Iraq.
Sempre più soldati americani rifiutano di continuare a vivere in questa
spirale di follia. Come Camillo Mejia, figlio del leggendario compositore
sandinista nicaraguese Carlos Mejia Godoy, che ha trascorso sette anni nell’esercito
degli Stati Uniti e otto mesi combattendo in Iraq. Durante una licenza militare
ha richiesto lo status di obiettore di coscienza ed è stato dichiarato
prigioniero di coscienza da Amnesty International (vedi intervista a Masiosare,
del 9 maggio 2004):
“Sono stato inviato in
Iraq nell’aprile del 2003 e nell’ottobre sono ritornato negli
Stati Uniti con una licenza di due settimane. Ritornare a casa mi aveva dato
la possibilità di mettere ordine nei miei pensieri e di ascoltare ciò
che diceva la mia coscienza. La gente mi faceva domande sulla mia esperienza
di guerra e rispondendo tornavo a vivere tutti gli orrori: le sparatorie,
le imboscate, la volta che avevo visto come trascinavano per le spalle un
giovane irakeno sopra una pozzanghera del suo stesso sangue o quando il fuoco
delle nostre mitragliatrici aveva strappato dal corpo la testa di un innocente.
Rivivevo la volta che avevo assistito al crollo emotivo di un soldato che
aveva ucciso un bambino, o
quando un vecchio era caduto sulle ginocchia e gridava alzando le braccia
al cielo, per chiedere a Dio perché gli avevamo
portato via il corpo senza vita di suo figlio.”
Il quotidiano di Città del Messico La
Jornada ha recentemente reso noto uno studio dell’esercito
degli Stati Uniti, secondo il quale circa 100 mila soldati americani inviati
in Iraq al loro ritorno sono costretti a sottoporsi a trattamenti psicologici
per problemi di depressione, insonnia, attacchi di panico e altri sintomi
di stress postraumatico.
Sempre più soldati americani in Iraq rifiutano di prolungare il periodo
della loro ferma, dopo avere compiuto l’anno iniziale previsto dal contratto
di ingaggio. E negli Stati Uniti ci sono ormai circa 5.500 disertori “ufficiali”
e un numero crescente di obiettori di coscienza. Si stanno diffondendo inoltre
in quel paese organizzazioni che sempre più pressantemente richiedono
il ritiro immediato delle truppe americane, come quelle promosse dalle famiglie
dei genitori dei soldati che combattono in Iraq e dei soldati veterani contro
la guerra.
Ecco un altro fattore che si era rivelato decisivo nella crisi del Vietnam:
il crollo del morale delle truppe impiegate in combattimento aveva dato luogo
da parte della gioventù americana ad una vasta contestazione del servizio
militare, con episodi di vero e proprio rifiuto e anche di aperta ribellione.
Questo diffuso movimento di opinione contro la guerra, che si sta diffondendo
negli Stati Uniti, ha indotto 16 rappresentanti del partito democratico del
Congresso degli Stati Uniti a richiedere – nello scorso febbraio - il
ritiro immediato delle truppe dall’Iraq; ma, soprattutto, nella genuina
spontaneità dei propri sentimenti, esso rappresenta la testimonianza
concreta della situazione di crisi, anche sotto il profilo morale, in cui
si trova oggi l’esercito americano in Iraq.
La farsa delle elezioni
E’ in questo contesto che Bush ha deciso di giocare la carta del processo
elettorale. Di fronte alla profonda avversità dimostrata dal popolo
irakeno nei confronti del governo Allawi e al sostegno massiccio dato per
converso alla resistenza, attraverso le elezioni la Casa Bianca ha tentato,
innanzitutto, di dare una legittimità a un nuovo governo del paese,
mediante una più ampia base popolare. Questa operazione è stata
possibile grazie alla complicità delle direzioni borghesi della minoranza
curda, nel nord del paese, e di rilevanti settori della componente sciita,
tra i quali l’ayatollah Sistani (principale autorità religiosa
di tale componente in Iraq). E’ stato proprio l’ayatollah Sistani
a invitare esplicitamente i propri seguaci a votare; egli ha anche apertamente
sostenuto uno dei partiti che hanno partecipato alle elezioni.
Nello stesso tempo ulteriori obiettivi del processo elettorale erano quelli
di screditare agli occhi dell’opinione pubblica interna e internazionale
la resistenza irakena, e, più in prospettiva, di dare una legittimazione
a posteriori all’intervento militare e alla occupazione del paese, dopo
lo smacco costituito dalla assenza delle armi di distruzioni di massa.
Dopo le elezioni la maggior parte dei giornali e degli uomini politici si
sono subito affrettati a mettere in risalto l’elevata partecipazione
al voto e l’esempio di democrazia dato dal popolo irakeno nei confronti
dei cosiddetti terroristi. Dichiarazioni esultanti a questo proposito sono
state fatte nei giorni successivi alle elezioni da Fassino; mentre Bertinotti
sulle pagine di Liberazione
ha dichiarato: “Ogni volta che un popolo riesce a votare è un’esperienza
che va apprezzata”. Una dichiarazione non molto chiara; anzi ambigua
per certi aspetti, anche se nella frase successiva si riconosceva che elezioni
in stato di occupazione non possono definirsi libere.
In realtà le elezioni del 30 e 31 gennaio in Iraq sono state una vera
e propria truffa. Ecco come il giornalista spagnolo Pascual Serrano ha descritto
lo svolgimento del processo elettorale:
“Non hanno detto però
che in tutta la campagna elettorale era proibito fare appello all’astensione,
cosa lecita e legale in qualsiasi sistema europeo. Persino il giornalista
indipendente Dahr Jamail, in un reportage intitolato ‘Chi non vota non
mangia’ ha informato della circostanze che molti irakeni avevano denunciato
che le autorità non avrebbero corrisposto la loro razione di cibo se
non fossero andati a votare e che si sentivano minacciati dal fatto che il
governo avrebbe potuto utilizzare contro di loro le liste dalle quali fosse
risultata la loro astensione. Va ricordato a questo proposito che le liste
elettorali vengono elaborate sulla base di quelle relative alla distribuzione
degli alimenti”
Delegati dell’ONU hanno riconosciuto apertamente che i risultati delle
elezioni sono meramente approssimativi, e che nessuno è stato in grado
di fare delle verifiche. Durante tutto il processo elettorale i 192 osservatori
internazionali dell’ONU sono rimasti nei loro alberghi a 5 stelle di
Baghdad, essendo stato loro proibito di uscire per motivi di sicurezza. Ma
se diamo per buona la cifra del 60% di partecipazione elettorale fornita dal
governo irakeno, e se teniamo conto che solo il 60-70% della popolazione con
diritto di voto è stata iscritta nelle liste elettorali, ne consegue
che avrebbe votato solo un 35-40% della intera popolazione avente diritto.
Ivi compresi gli 1.200.000 irakeni residenti all’estero, dei quali secondo
il governo avrebbe votato il 94% degli iscritti nelle liste elettorali. Solo
il 23% degli irakeni residenti all’estero è stato però
iscritto nelle liste elettorali.
Augusto Zamora, professore di diritto internazionale all’Università
Autonoma di Madrid, ci fa notare anche la mancanza di credibilità di
elezioni avvenute sotto l’occupazione militare straniera e ricorda che
nel caso analogo di Timor Est l’ONU aveva posto come condizione per
lo svolgimento delle elezioni la ritirata preventiva delle truppe indonesiane.
Egli cita anche come paragone storico l’editoriale del
New York Times del 4 settembre 1967:
“I dirigenti USA sono
rimasti sorpresi e rincuorati oggi dalla grande affluenza alle elezioni presidenziali
in Vietnam del Sud, nonostante la campagna terroristica dei vietcong per disturbare
il voto. Secondo i bollettini di Saigon, l’83% dei 5,85 milioni di elettori
registrati hanno votato ieri. Molti hanno rischiato le rappresaglie dei vietcong.
Il successo elettorale è visto come una pietra miliare nella politica
di Johnson… Le elezioni sono state il culmine di uno sviluppo costituzionale
iniziato nel febbraio ’66, nel quale il presidente Johnson si è
impegnato incontrando il premier Ky e il generale Thieu a Honolulu. Obiettivo
del voto: dare legittimità al governo di Saigon fondato su colpi di
stato e giochi di potere dal novembre ’63, quando il presidente Ngo
Dinh Diem fu rovesciato da una giunta militare.”
Qualche mese dopo i Vietcong davano inizio all’offensiva del Tet, che
avrebbe segnato l’inizio della sconfitta per l’esercito più
potente del mondo.
La vera realtà del paese
Ma anche sotto il profilo dei risultati queste elezioni rischiano di aprire
problemi notevoli. Innanzitutto per quello che concerne più in generale
il delicato equilibrio “geopolitico” nella regione medio-orientale,
col rischio di alimentare nuove tensioni tra gli USA ed alcuni stati limitrofi,
come l’Iran e la Turchia.
Sono noti infatti i legami tra la coalizione sciita, vincitrice delle elezioni,
e il governo di Teheran. Gli sciiti rappresentano circa il 60% della popolazione
irakena, da sempre tenuti lontani dal potere, sia durante il periodo della
monarchia che successivamente sotto il regime di Saddam Hussein, che è
un sunnita.
Al di là del facile trionfalismo, sarebbe più logico sottolineare
che solo il 40-50% degli sciiti ha preso parte alle elezioni: questo dato
è significativo, perché indica che metà della popolazione
sciita, che rappresenta la maggioranza del popolo irakeno, ha ignorato l’appello
del grande ayatollah Sistani. L’altra metà degli sciiti che è
andata a votare, lo ha fatto in realtà nell’illusione che le
elezioni avrebbero potuto servire come momento di avvio della ritirata delle
truppe straniere e, quindi, con l’obiettivo della indipendenza del paese.
Tahrir (indipendenza)
è la parola in nome della
quale molti hanno votato domenica; non per la ‘democrazia’, come
sostengono i mezzi di comunicazione occidentali, ma per la libertà:
per essere liberi di parlare, di votare; per liberarsi dagli americani.”
(Robert Fisk, La
Jornada, Città del Messico, 2 febbraio 2005)
E’ ancora Dahr Jamail a spiegare le ragioni per le quali circa un 40-50%
della popolazione sciita del paese ha accettato di andare a votare:
“Ciò che mai e
poi mai è stato rivelato è il fatto che coloro che sono andati
a votare, a prescindere dalla circostanza che siano stati il 35% od anche
il 60% dei votanti iscritti nelle liste elettorali, non hanno votato per appoggiare
l’occupazione permanente del paese da parte degli USA. In realtà
sono andati a votare precisamente per la ragione opposta. Ogni irakeno con
il quale ho parlato – tra coloro che hanno votato – è convinto
che l’Assemblea Nazionale che sarà formata significherà
la fine immediata dell’occupazione. Così come del resto promettevano
i cartelloni elettorali, i quali trionfalmente annunciavano: ‘Fratelli
irakeni, il futuro dell’Iraq è nelle vostre mani. Le elezioni
sono il mezzo ideale per buttare fuori gli occupanti dall’Iraq’.”
Ne è conferma il sondaggio preelettorale fatto in Iraq nel gennaio
scorso, dove si indicava che il 69% degli sciiti e l’82% dei sunniti
erano a favore del “ritiro degli USA in breve tempo” (vedi l’editoriale
di Noam Chomsky apparso su Liberazione del 29 marzo scorso).
Tutto sembra indicare invece che dopo le elezioni le truppe straniere continueranno
la loro occupazione ancora a lungo. Gli USA hanno deciso infatti di incrementare
la loro presenza fino a circa 150.000 soldati e le stesse autorità
di fatto, sotto il pretesto della insicurezza e dell’attuale vuoto di
potere, escludono una partenza delle forze di occupazione. La stessa posizione
è stata assunta dalla gerarchia sciita che ha vinto le elezioni. In
una dichiarazione riportata dal Washington Post del 3 febbraio scorso, Muhammad
Juzai, uno dei portavoce sciiti, ha confermato che la sua coalizione non richiederà
per il momento la partenza delle truppe di occupazione.
“Oggi continua ad essere
attuale la domanda: ’Che cosa succederà quando sarà formata
l’Assemblea Costituente e più di 100.000 soldati USA continueranno
ad occupare l’Iraq e l’amministrazione Bush continuerà
a rifiutare di presentare un programma per la loro partenza?”
A quel punto il grande ayatollah Sistani e gli altri suoi seguaci, vincitori
delle elezioni irakene, dovranno rispondere alle aspettative deluse del popolo
sciita, e soprattutto a coloro che li hanno votati nella speranza di ottenere
per tale via l’indipendenza del paese.
Delle due minoranze che compongono il popolo irakeno, i sunniti, che rappresentano
circa il 30% della popolazione, hanno massicciamente boicottato le elezioni.
Anche se in minoranza, i sunniti sono circa 5 milioni di persone, molto bene
organizzate, e controllano zone importanti del paese come la capitale, Baghdad,
Falluja, Ramada e altre decine di città nella parte centrale dell’Iraq.
Su 30 milioni di persone che costituiscono l’intero popolo curdo, solamente
circa tre milioni vivono nelle province più settentrionali dell’Iraq,
dove sono il gruppo etnico più numeroso. Oppressi violentemente da
Saddam Hussein, i loro attuali dirigenti borghesi, Barzai e Talabani, hanno
sostenuto l’invasione americana, ottenendo in cambio una certa autonomia.
Ciò aveva provocato la reazione del governo turco, che a suo tempo
non aveva dato il proprio sostegno all’invasione statunitense e anzi
aveva rifiutato che le truppe americane potessero passare sul proprio territorio.
La Turchia teme infatti che l’autonomia dei curdi irakeni possa incoraggiare
e sostenere la ribellione dei curdi che vivono nelle sue province; ha perfino
minacciato di invadere con proprie truppe le province del nord dell’Iraq
al minimo segnale in tal senso.
Anziché risolvere il problema della governabilità del paese,
le elezioni aprono ulteriori divisioni tra le varie componenti del popolo
irakeno e rendono ancora più precario l’equilibrio tra i vari
paesi della regione. A ciò si aggiunge la recrudescenza delle azioni
militari poste in essere dalla guerriglia: solo nel giorno delle elezioni
vi sono stati 50 morti a causa di attentati; e altri 26 morti nei tre giorni
successivi. Mentre le condizioni di vita del popolo irakeno peggiorano ogni
giorno di più.
Attualmente è difficile delineare quale potrà essere lo scenario
postelettorale del paese. Di certo per gli irakeni sarà difficile accettare
la presenza di forze di occupazione che hanno causato la morte di più
di 100.000 civili; che hanno incarcerato, torturato e assassinato decine di
migliaia di persone; che hanno imposto al paese un regime dittatoriale, che
segue metodi altrettanto brutali di quello di Saddam.
Intanto negli ultimi giorni di marzo centinaia di operai irakeni del settore
portuario hanno partecipato ad uno sciopero contro i maltrattamenti subiti
da parte dei soldati americani distaccati nella zona della città di
Bassora. La notizia è stata data dalla radio locale Radio Digla e riportata
da Prensa Latina
il 25 marzo scorso.
Il diritto dell’Iraq all’autodeterminazione
La ragione che tuttora giustifica l’occupazione del paese è che
sarebbe immorale abbandonare il popolo irakeno nel corso di una violenta guerra
civile, alimentata da estremisti e da terroristi che vorrebbero imporre al
paese un regime simile a quello dei Talebani. In questa rappresentazione vi
è senz’altro l’accettazione implicita dell’idea che
gli USA rappresentano la “democrazia” e che coloro che si oppongono
alle loro occupazioni militari sono esponenti del “terrorismo”.
Molto meglio dunque permettere alla volpe di entrare nel pollaio, affinché
possa farsi carico della salvaguardia della vita delle galline.
Altra rappresentazione consolidata è quella che la violenza dell’invasore
sarebbe giustificata dal nobile fine della “salvaguardia della democrazia”;
mentre quella che si manifesta nella resistenza di un popolo assoggettato
ad una brutale dominazione è illegittima e per giunta “terrorista”.
Come diceva Trotski “Tra il proprietario di schiavi che con l’astuzia
e la violenza li tiene incatenati, e lo schiavo che con gli stessi metodi
spezza le proprie catene, nessuno se non uno spregevole eunuco potrebbe affermare
che sono uguali di fronte al giudizio morale”.
E anche Lenin attaccava con forza qualsiasi manifestazione di quell’atteggiamento
radicato ai suoi tempi, che definiva lo “sciovinismo della grande Russia”.
In base a tale attitudine i governanti della Russia zarista consideravano
un diritto “naturale” mantenere sotto il dominio russo l’Ucraina,
la Lettonia, la Polonia e altre nazioni.
Oggi a ragione potremmo parlare di “sciovinismo statunitense”.
La grande maggioranza della popolazione degli USA, ma anche degli altri paesi
occidentali, è disposta infatti ad accettare che gli Stati Uniti possano
imporre il loro potere su altri paesi e sulle istituzioni internazionali in
nome della salvaguardia della democrazia e dei diritti umani.
Di fronte a tale realtà sia le forze di sinistra che lo stesso movimento
pacifista si sono mostrati spesso disorientati e incerti sulla posizione da
assumere, nonostante che il diritto alla resistenza di un popolo sottoposto
all’occupazione straniera sia un principio riconosciuto anche dalla
Carta dell’ONU.
La questione è più semplice di quello che può apparire.
In realtà si tratta solo di rispondere ad una domanda fondamentale:
il popolo irakeno ha diritto alla propria autodeterminazione? Se ammettiamo
che lo ha, ha anche il diritto di resistere, con i mezzi di cui dispone, all’occupazione
da parte degli USA. Disconoscere tale diritto e, conseguentemente, rifiutare
il proprio sostegno alla “resistenza”, viceversa, significa negare
anche il diritto alla autodeterminazione. Il che equivale di fatto ad accettare
il diritto degli USA a imporre la propria volontà al paese irakeno
con la presenza delle truppe.
E’ una questione di principio, che vale indipendentemente dalle critiche
di indirizzo politico che ognuno di noi potrebbe fare rispetto agli obiettivi,
ai metodi e ai programmi delle varie componenti che operano nel contesto di
un movimento di resistenza. Ma che vale anche – occorre dirlo per chiarezza
– indipendentemente dalla affiliazione religiosa o politica di esse.
Per dirla con Trotski: “E’ questa, concretamente, la ragione per
la quale nella contesa tra una repubblica civilizzata, imperialista e democratica
e una monarchia arretrata e barbara in un paese colonizzato, come socialisti
ci schieriamo dal lato del paese oppresso, nonostante che sia retto da una
monarchia, e contro il paese oppressore, nonostante la sua “democrazia”.
L’imperialismo nasconde i suoi stessi obiettivi – insediamento
di colonie, mercati, fornitura di materie prime, sfere di influenza –
con argomenti come “salvaguardia della pace contro le aggressioni”,
“difesa della Patria”, “difesa della democrazia”,
ecc. Tutte rappresentazioni false. Ed è un obbligo di ciascun socialista
di non sostenerle, ma, al contrario, di smascherarle davanti ai popoli di
tutto il mondo”.