Le tesi del XV congresso Cgil.
Le tesi presentate da Epifani. Luglio 2005.


preambolo
Riprogettare il paese.

Lavoro, saperi, diritti, libertà
1. All’atto del XIV congresso la situazione del paese, della sua economia e quella del lavoro e dell’occupazione presentavano un quadro denso di difficoltà e problemi, ma anche di opportunità da cogliere.
E’ vero: un liberismo globale senza regole lasciava per intero intravedere i suoi rischi per quanto riguardava gli effetti della globalizzazione, la protezione dei diritti dei lavoratori, la possibilità di ricerca di accordi e regole fra nord e sud del mondo, in un quadro di un commercio più equo, ordinato e solidale.
L’Europa, uscita dal periodo che aveva portato alla moneta unica, si esprimeva ancora con una impostazione alta di politica economica e sociale, quella definita dagli obiettivi dell’agenda di Lisbona, tra problemi e speranza si accingeva a misurarsi alla definizione di quello che sarebbe poi diventato il Trattato costituzionale.
L’Italia nell’anno di maggiore sviluppo di commercio internazionale (il 2000) cresceva meno degli altri paesi, continuava a perdere quote del commercio mondiale, ma comunque registrava una crescita del Pil del 3%. Al quale seguiva un anno in cui la crescita si attestava all’1,7%.
La coalizione di centrodestra aveva vinto le elezioni nel 2001, sostenuta da un patto esplicito con la Confindustria, simboleggiato dal convegno di Parma, e stava attivando i primi provvedimenti di politica economica e sociale: quelli tesi a ridurre ogni vincolo per l’impresa; quelli che portavano un attacco esplicito ai diritti dei lavoratori, con l’intervento sull’articolo 18; l’attacco alla scuola; e l’avvio di provvedimenti, quelli dei cento giorni e la prima finanziaria, tanto inefficaci quanto dissipatori di risorse e pieni di iniquità.
A distanza di quattro anni, la situazione del paese si presenta oggi con il volto di una crisi profonda: dissesto produttivo ed industriale; recessione; carenza di infrastrutture materiali e immateriali; assenza di politiche e di strategie verso il Mezzogiorno; arretramento nella qualità della scuola, della ricerca e dell’università; una politica sociale che, senza affrontare i problemi dell’efficienza e della qualità dell’offerta pubblica, attraverso una sistematica politica di riduzione delle risorse, ha teso a colpirne il carattere universalistico e ha finito per privilegiare un’offerta privata di bassa qualità e di alti costi, senza attenzione verso le crescenti aree della povertà, del disagio, della emarginazione.
E’ aumentata la precarietà, sono nate nuove forme di lavoro che non offrono ai giovani alcuna garanzia per il loro futuro né sulla qualità dell’occupazione né sui livelli retributivi.
L’Italia è oggi insieme un paese più disgregato, più diviso, più insicuro dal punto di vista economico, di quello sociale, del segno e del profilo della qualità della vita democratica e dell’etica pubblica. Un paese dove sono aumentate le disuguaglianze e l’impoverimento di ampi strati sociali fra cui i giovani, le donne e gli anziani. Un paese dove la criminalità organizzata ha rialzato la testa e le illegalità crescono.
Oramai come è evidente a tutti, anche a coloro che hanno tentato fino all’ultimo di nascondere la verità dei processi e della situazione, e di raffigurare un paese ideale non corrispondente al vero, l’Italia si presenta come il grande malato dell’Europa, per le proprie condizioni materiali e per quelle – in un rapporto di causa – effetto – in cui versano giovani, lavoratori e pensionati.
Il XV congresso della Cgil vuole misurasi, innanzitutto, con la gravità e la profondità della crisi del paese, nell’obiettivo e nella necessità di definire una proposta e un progetto per la sua ricostruzione, per la sua rinascita civile e morale, partendo, come giusto e doveroso per una grande forza di rappresentanza del lavoro, dalla centralità del valore del lavoro.
E’ importante richiamarsi alla centralità del valore del lavoro non solo come portato della nostra rappresentanza, ma indicandolo come valore di riferimento per l’intera organizzazione sociale, intendendo il lavoro in tutte le sue forme, in alternativa alla centralità del mercato, ridando forza – in questo modo – al concetto di “Repubblica fondata sul lavoro” come tratto distintivo della nostra comunità nazionale. Il lavoro e la conoscenza devono diventare il bene comune che orienta una nuova e diversa fase dello sviluppo economico e produttivo.

La globalizzazione e il ruolo dell’Europa
2.
Una proposta di questa importanza non avrebbe fiato se non dovesse prevalere a livello europeo e globale un’idea di sviluppo che assuma come profilo la qualità e come limiti invalicabili i diritti umani, del lavoro e la sostenibilità ambientale.
Al contrario l’enormità delle differenze tra Nord e Sud del mondo si avvia alla ingovernabilità politica, mentre la sostenibilità ambientale è già al limite e di per sé richiederebbe di rivisitare il senso di uno sviluppo che espone l’umanità a crescenti rischi e problemi.
Anche nei paesi economicamente avanzati crescono precarietà sociale e insicurezza come risultato dell’impoverimento del lavoro dipendente.
Siamo convinti che le nuove interdipendenze e differenze rischiano di trasformarsi in conflitti esasperati, tra paesi, continenti, lavoratrici e lavoratori, se non in vera propria acqua di coltura di terrorismo e guerra, se non vengono ricomposte in primo luogo sulla base del riconoscimento reciproco, principio di laicità democratica.
In secondo luogo se non si svela il fallimento, testimoniato da tutti gli indicatori di povertà e malessere nel mondo, della cultura politica liberista, veicolata attraverso le scelte concrete di Banca Mondiale, FMI, WTO e le multinazionali, che trova ancoraggio fondamentale nella soggezione del lavoro e delle forme della sua rappresentanza, attraverso la negazione della soggettività dell’uno e delle altre.
La strada da percorrere non può essere soltanto quella, pur importante se correttamente intesa, delle clausole sociali e ambientali nel commercio internazionale. Occorre che la rappresentanza sociale contribuisca a progettare e costruire un diverso modello di sviluppo e di globalizzazione, agendo per le vie che le sono proprie, la contrattazione collettiva nazionale e transnazionale nelle imprese nazionali e transnazionali, recuperando attraverso questa via soggettività, protagonismo e ruolo in processi che sembrano negarli.
Dalla capacità di sostenere questa sfida passa la possibilità di arginare un senso comune pervasivo che, di fronte alle tante insicurezze determinate dalla globalizzazione senza regole, sceglie la rassicurante e peraltro illusoria certezza delle identità giocate contro altre identità, delle chiusure, dei nuovi nazionalismi e integralismi sostenuti dai conflitti tra le culture, degli antichi e nuovi protezionismi.

3. D’altra parte l’esperienza dei paesi scandinavi dimostra che equità, giustizia sociale, protezione sociale, rispetto dell’ambiente possano essere volano di sviluppo e al contempo suoi limiti positivi scientemente praticati; le politiche pubbliche gli strumenti necessari per realizzarli: quella cultura politica, che è alla base di ciò che si intende per “modello sociale europeo”, oggi segna il passo anche in Europa sotto i colpi della congiuntura economica.
Al contrario l’Europa può fare molto su tutti i terreni decisivi per il futuro della Comunità Internazionale, se sarà in grado di andare avanti nella costruzione della propria dimensione politica e istituzionale, valorizzando e non cancellando, come pure sta avvenendo diffusamente a livello comunitario e nei singoli paesi, le caratteristiche del proprio modello sociale.
Il giudizio che abbiamo dato dall’inizio sul Trattato Costituzionale firmato il 29 ottobre del 2004 a Roma, ha utilizzato una chiave di lettura positiva, ma non semplicistica e che ne coglieva anche i limiti. Abbiamo valorizzato l’aspetto più positivo, l’inclusione della Carta di Nizza che definisce il profilo della cittadinanza europea come unione indivisibile di diritti civili e sociali. Non abbiamo però mai taciuto le contraddizioni ed i limiti del Trattato: l’assenza del ripudio della guerra; della cittadinanza di residenza per gli immigrati per favorire quei decisivi processi di convivenza e integrazione la cui centralità riemerge tragicamente e quotidianamente; quella terza parte che rischia di negare le affermazioni della Carta di Nizza. D’altra parte non tacere le contraddizioni aveva e ha il senso di tenere aperta una prospettiva di miglioramento, delineando i binari del percorso futuro, costruendo alleanze nella società per recuperare deficit democratico, calo di consenso tra i cittadini e partecipazione democratica.
Il voto negativo che ha accompagnato significativi referendum di recepimento del Trattato stesso rivela molti problemi e ne nasconde di significativi. Rivela il peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro in molti paesi europei veicolato da scelte sbagliate di governi e imprese, scelte addossate a Bruxelles e lontane dalla strategia di Lisbona, inaccettabili arretramenti come la Direttiva Bolkestein, e nasconde al contempo tentazioni nazionaliste di uscita dalla congiuntura internazionale. Ma l’interrogativo aperto oggi di fronte alla politica progressista e al sindacato dei singoli paesi europei e al sindacato europeo stesso, è come nell’erosione degli stati nazionali, ambiti nei quali erano state scritte e agite le norme costituzionali sociali del lavoro, sia possibile ricostruire a livello sovranazionale quella stessa qualità democratica come vera risposta, importante anche se parziale, all’allargamento come dumping sociale.
Perché in un mondo definitivamente interdipendente i diritti si difendono soltanto se si estendono.
Abbiamo bisogno di un passo avanti per uscire dalla contraddizione in cui ci troviamo: una Europa il cui spazio di mercato è sempre più grande, la moneta sempre più sovrana, e la dimensione politica arranca, insieme alla cultura politica e alla vocazione europea. Il futuro del modello sociale europeo è legato alla dimensione politica dell’Europa: non c’è modello sociale europeo se non c’è l’Europa, non c’è l’Europa se non c’è una Costituzione che la definisca politicamente. Abbiamo la consapevolezza che il sindacato europeo debba giocare un ruolo forte nel riproporre l’Europa sociale come prospettiva decisiva, la prospettiva cioè di un soggetto politico, distinto da altri in virtù del proprio modello sociale e per questo capace di favorire una globalizzazione equa, sviluppo sostenibile e pace nel mondo. Una Europa in grado, anche per questo, di contrastare la visione di una logica e di un potere unilaterale nel governo mondiale.

4. La Cgil ha avuto e ha un ruolo molto importante nel movimento della pace, che ha attraversato in questi anni l’Europa e il mondo.
Abbiamo sempre legato il nostro impegno al nesso tra affermazione della pace, ripudio della guerra, tanto più nel principio della guerra preventiva - affermata come teoria geopolitica unilaterale dell’amministrazione repubblicana degli Stati Uniti - e possibilità di difesa, promozione, estensione dei diritti del lavoro e dell’ambiente, tra pace dunque e possibilità di sviluppo sostenibile in Italia, in Europa, nel mondo.
Per questo abbiamo definito la pace come strategia razionale di sopravvivenza di un mondo globale interdipendente e su questo abbiamo costruito gli assi della nostra politica internazionale e fondato giudizi, iniziative, mobilitazioni, attraverso una crescita costante di cultura e sensibilità, spese nel riaffermare in maniera nettissima il valore dell’articolo 11 della nostra Costituzione.
Abbiamo avuto e abbiamo chiaro che la dimensione internazionale è oggi il banco di prova della rappresentanza sociale e politica, e che difesa e promozione di ciò che s’intende per modello sociale europeo, alternativo al “modello liberista”, è la condizione necessaria per proporre equità, solidarietà, diritti umani e del lavoro come perno dell’organizzazione sociale a livello globale, e che ciò ha a che fare con la riforma delle istituzioni internazionali, non solo quelle politiche ma anche e soprattutto quelle economiche in modo che queste ultime non contraddicano i buoni propositi delle prime.
E ancora che la cancellazione del lavoro, del suo valore della gerarchia dei valori sociali, nel Nord ricco e nel Sud povero del mondo, come dimostrano i dati OIL nell’indagine sul reddito da lavoro in ogni parte del mondo, e quelli ancora più recenti sulle nuove schiavitù è il punto fondamentale su cui si fonda la globalizzazione senza regole.
Abbiamo chiaro che il ripudio della violenza e del terrorismo, nel nome dell’integrità e della dignità di ogni vita umana, è impegno fondamentale del sindacato. Il terrorismo, che non ha mai giustificazione alcuna, riesce peraltro facilmente ad attecchire tra miseria, povertà, guerra, in aumento e non in riduzione oggi nel mondo. Ci è altrettanto chiaro che la convivenza e il dialogo tra culture è la vera risposta all’insicurezza e allo scontro di civiltà.
L’ultimo terribile attentato terroristico di Londra, dopo quelli dell’11 settembre e di Madrid, e non soltanto nel cuore di ciò che si intende per occidente, dà ancora una volta il segno della gravità e forza di questo fenomeno. Bandire ogni forma di violenza, affermare un’altra e contrapposta idea dei rapporti umani, politici e civili è per la Cgil impegno solenne e indiscutibile.

Un paese sempre più in crisi
5.
Non tutte le cause ed i problemi che affliggono il sistema produttivo italiano, i ritardi nelle politiche di riforma, la situazione dei conti pubblici, la qualità del nostro sistema di welfare e il suo carattere davvero inclusivo sono ovviamente riconducibili alle politiche del governo di centrodestra e a questa legislatura. Ma, se si guarda con attenzione alla situazione del paese di quattro anni fa e alla condizione odierna e si compie una verifica attenta delle scelte e delle politiche compiute dal governo, emergono in maniera assolutamente esplicita e incontrovertibile le grandi responsabilità ed i grandi errori che sono stati compiuti. Fino ad identificare la gravità di questa crisi con il fallimento delle politiche del governo di Silvio Berlusconi.
Ad un paese che nel 2001 mostrava già segnali di rallentamento della produzione e della crescita e che vedeva diminuite le proprie quote nel commercio mondiale, non aveva alcun senso prospettare la possibilità - a breve - di un nuovo miracolo economico e una fase di un turbo – sviluppo, come, nell’ordine, il presidente del Consiglio, il Ministro dell’Economia, il Presidente di Confindustria e il governatore della Banca d’Italia irresponsabilmente fecero fra il 2001 e il 2002.
Un’economia, che già segnalava l’affanno degli investimenti produttivi e della bassa crescita della produttività – a differenza di quello che avveniva in Francia e Germania -, andava fin da allora sostenuta con politiche di incentivazione e una cultura attenta al profilo della crisi industriale e all’intervento sui fattori della produzione e la bassa qualità dell’offerta di beni e servizi.
Il governo, invece, a partire dall’eliminazione dell’imposta di successione sui grandi patrimoni, finiva per sostenere una politica ed una cultura di segno opposto, tesa a difendere le posizioni della rendita ed i vantaggi patrimoniali acquisiti.
Nel Mezzogiorno del paese e in tutte le aree con problemi di sviluppo che, dopo anni di risveglio significativo, cominciavano a mostrare segni di rallentamento, il governo operava la più irresponsabile scelta che si poteva compiere: azzerare tutte le politiche e gli strumenti che avevano funzionato; si preparava a cambiare quattro volte in quattro anni normative e procedure per il sostegno agli investimenti.
L’ingresso della moneta unica, l’euro, determinava, negli stessi mesi, una visibile speculazione sul fronte del rialzo dei prezzi, attaccando e indebolendo ulteriormente la capacità di spesa dei redditi da lavoro e da pensione. Il governo di centrodestra non interveniva come sarebbe stato necessario, ma sceglieva esplicitamente di lasciare correre i fenomeni speculativi, contando su un tasso di inflazione più alto per riequilibrare i saldi dei conti pubblici e stimolare per questa via illusoria lo sviluppo. In realtà in questo modo il governo finiva però – invece – per concentrare ricchezze e profitti su una parte sola del paese, favorendo il capitale finanziario e la rendita speculativa.
Di fronte ad una condizione del lavoro, che il rallentamento dell’economia e il quadro della globalizzazione senza regole avrebbe portato verso una crescente instabilità dell’occupazione e della precarietà del lavoro, il governo sceglieva di operare con l’intervento sull’articolo 18 e poi con la legge 30 un’azione di destabilizzazione del mercato del lavoro con l’obiettivo di rendere più deboli le tutele e la funzione della contrattazione collettiva. E con la legge Bossi Fini faceva proprie tutte le paure e le spinte irrazionali nei confronti del fenomeno dell’immigrazione, arrivando a inaccettabili politiche di “accoglienza” e spesso a forme e atti privi di qualsiasi rispetto verso il valore della vita umana e della sua dignità; e riproponendo, nei fatti, una concezione di un diritto duale che disconosce ai migranti fondamentali diritti di cittadinanza. Insieme, con le leggi del Ministro Moratti, il governo consolidava l’idea di una scuola che separa le persone ed i loro percorsi sulla base delle condizioni del nucleo familiare e cancellava le più significative conquiste degli ultimi decenni; tempo pieno, innalzamento obbligo scolastico, primato della scuola pubblica.
Non a caso queste scelte si sarebbero poi definite nel tentativo di negare –nei fatti - il riconoscimento del ruolo e della funzione del sindacato e del ruolo delle rappresentanze sociali. Prima cercando di dividere le organizzazioni sindacali, poi tentando di sminuirne forza e autorevolezza negoziale.
Questo disegno veniva intrecciandosi strettamente con l’abbandono di una cultura delle regole, con il rifiuto di rispettare il ruolo delle istituzioni indipendenti e della funzione delle autonomie locali, con una politica legislativa in cui i conflitti di interesse e gli interessi di parte finivano per diventarne il segno distintivo.
Insieme, la maggioranza dava vita ad un progetto di controriforma costituzionale che invece di portare a conclusione in maniera condivisa il quadro della infinta transizione istituzionale dell’Italia, interveniva in maniera esplicita sull’alterazione dei delicati meccanismi fra gli equilibri degli organi costituzionali del paese, e su una scelta di devoluzione che finiva per ingigantire i problemi, pure presenti nell’ attuazione della riforma del Titolo V della Costituzione.
Infine, in un quadro europeo ed internazionale segnato dall’incapacità di costruire un profilo di governance e di riforma multilaterale delle istituzioni, il governo di centrodestra finiva per isolarsi in Europa, perdere credibilità verso gli osservatori ed i mercati internazionali; e con la decisione di portare le proprie truppe nel territorio iracheno, seguito all’ambiguità tenuta di fronte all’intervento armato, rompeva con una decennale tradizione di equilibrio e di attenzione vero il mondo islamico, allontanandosi dalle scelte compiute – negli stessi mesi – dai governi francese e tedesco, tradizionali punti di riferimento della comune solidarietà europea.
La cultura diffusa della rottura della solidarietà e della coesione sociale, l’ampliamento della illegalità e della prevaricazione – anche con l’allentamento della prevenzione e dei controlli pubblici - ha indebolito il tessuto sociale, accentuando la solitudine e l’abbandono dei soggetti più deboli, colpendo tra tutti il diritto reale al lavoro delle persone con disabilità. Il clima generale di difficoltà, incertezza, sfiducia nel futuro condiziona pesantemente la vita e le scelte personali e collettive, quelle dei consumi e quelle degli investimenti.
Con particolare determinazione, questo governo ha proceduto con politiche e azioni particolarmente penalizzanti per le donne: la precarizzazione del lavoro dei giovani e in modo particolare delle giovani, l’alta concentrazione di lavoro femminile in settori fortemente esposti alla concorrenza internazionale e/o caratterizzati da prestazioni dequalificate e a basso reddito, la progressiva riduzione della qualità e della quantità dello stato sociale, fino al suo progressivo, e programmato, smantellamento, hanno ricreato un clima di irrigidimento dei ruoli, nuove forme di ghettizzazione delle donne, attraverso una visione familistica dell’organizzazione sociale, che la storia e le battaglie politiche, sociali, culturali avevano messo profondamente in discussione.

6. A tali esplicite responsabilità ed errori, concorreva in maniera diretta la direzione della Confindustria, che finiva incautamente per sostenere quelle scelte di politica economica, che avrebbero poi portato al tracollo produttivo degli ultimi anni, e al sostanziale arresto dello sviluppo nel Mezzogiorno.
E’ evidente oggi la grande responsabilità che il sistema delle imprese ebbe in quel frangente. Disse SI all’intervento sull’articolo 18, SI agli interventi che rafforzavano rendite e patrimoni, SI a quei cambiamenti che avrebbero penalizzato il Mezzogiorno, SI a provvedimenti su previdenza, salute, sicurezza e ambiente, SI al disegno di isolare e di umiliare le posizioni della Cgil. Correttamente, d’altra parte, occorre dire che di questo non porta la
responsabilità solo il vertice della Confindustria di allora, ma più in generale il mondo dell’impresa, chiusa nella preoccupazione che tendeva a scaricare sui diritti e sui costi i problemi che si vedevano arrivare. Finiva così per prevalere l’esistenza, quindi, di una cultura che era portata a scambiare le cause con gli effetti, senza interrogarsi fino in fondo sulle responsabilità che le imprese italiane avevano avuto nel gettare al vento le opportunità successive alla grande svalutazione della lira del 1992.
La nuova direzione della Confindustria ha rappresentato per le imprese il tentativo di uscire da questo bilancio fallimentare e dal clima di scontro sociale che aveva alimentato, contro la Cgil, e che aveva determinato la firma del contratto separato, contro la Fiom.
Tale tentativo che ha consentito un dialogo reciprocamente fondato sul rispetto, il raggiungimento di accordi importanti con Cgil, Cisl e Uil in materia di politiche di sviluppo, di formazione e ricerca, sul Mezzogiorno, ed una grande capacità di accordi territoriali che hanno riguardato tutto il paese, ha dovuto tuttavia fare i conti con le difficoltà di un mondo imprenditoriale, colpito dalla profondità e dalla durata della crisi, non sostenuto da politiche pubbliche realmente efficaci. Tutto questo da un lato ha paralizzato la possibilità di fare avanzare i contenuti degli accordi sottoscritti, anche di fronte ad una scelta del governo che non li ha saputi né voluti recepire, e dall’altro ha determinato un irrigidimento dei comportamenti del sistema delle imprese ai tavoli dei confronti contrattuali aperti, frutto insieme di una scelta che sembra ostinarsi a muovere su una linea sbagliata e arretrata, con il rischio di ripetere gli errori del passato.
D’altra parte, le ultime vicende del capitalismo italiano, i tentativi di scalata al sistema bancario, per il controllo dei gruppi editoriali, sono espressione di un profondo rivolgimento degli assetti e degli equilibri di potere.
Sembrano premiati da queste scelte settori e aziende che si sono affermati a partire dall’uso della rendita fondiaria e immobiliare, a scapito dei settori industriali e manifatturieri esposti alla concorrenza internazionale. Questa è la conferma di una doppia patologia: il nostro capitale di rischio, quando può, tende ad orientarsi verso monopoli protetti, con profitti garantiti. In altri casi usa la leva dell’indebitamento per favorire scalate e posizioni di comando, finendo per accapigliarsi per aree di business economico sempre più asfittiche e sempre più ristrette, ma contemporaneamente ad alto tasso di redditività.
In questo contesto, una politica di investimenti tesa all’innovazione dei prodotti e dei processi, alla ricerca e sviluppo, alla scelta dei nuovi mercati, alla crescita dimensionale delle imprese incontra la sua prima resistenza proprio in una parte importante della cultura dell’imprenditoria e della finanza.
Non vanno comunque sottaciuti gli sforzi e le politiche di segno contrario che in un’altra parte dell’impresa italiana cercano di affermarsi. A questa parte del mondo imprenditoriale, che chiede rispetto delle regole e della trasparenza del mercato, che pone per la prima volta in maniera inedita e interessante il passaggio da una cultura legata alla rendita ad una legata agli investimenti e alle attività produttive, la Cgil guarda con interesse, nella convinzione che - al di là della differenza negli interessi rappresentati - con queste imprese è possibile un confronto su comuni obiettivi di cambiamento e di diversa politica economica.
La sfida che la Cgil lancia alla Confindustria attiene alla individuazione di un modello di sviluppo fondato sulla qualità dei fattori e diversamente orientato, attraverso cui ricostruire, in un percorso corretto, le condizioni della produttività e della competitività e della responsabilità sociale delle imprese.
Valorizzazione della risorsa lavoro, investimenti su e nei saperi, sostegno all’offerta anche attraverso politiche pubbliche mirate e selettive, sono gli assi di una strategia fortemente alternativa alla scelta di una competitività fondata sulla riduzione dei costi, su un’offerta marginale e dequalificata, sulla riduzione dei diritti e la precarizzazione del lavoro.

Il ruolo della Cgil
7.
Di fronte al precipitare della crisi ed ai tentativi messi in campo per ridurre il peso ed il ruolo dei diritti dei lavoratori, per minare la coesione sociale e operare vere e proprie controriforme, il XV congresso riconosce la straordinaria capacità che hanno avuto la Cgil, i suoi iscritti, i suoi militanti, i suoi quadri, nel sostenere un profilo di analisi, di critiche, di proposte, di mobilitazione e di lotta, in grado di corrispondere alla dinamica vera dei processi reali, consentendo così di tenere aperta la strada del cambiamento e dell’alternativa alle politiche fallimentari del governo di centrodestra.
Prima di chiunque altro, la Cgil ha colto per tempo la dimensione interna dei processi di globalizzazione mondiale e dei rischi che avrebbe portato. E prima di altri, con lo sciopero del febbraio del 2003, indicò con nettezza al paese quello che appariva allora il rischio del declino industriale, indicando nel contempo proposte, impostazioni di politica economica e nodi da risolvere per evitarne le conseguenze.
In questi anni la Cgil è stata uno dei soggetti determinanti per la difesa dei diritti del lavoro e della cittadinanza, per contrastare la precarietà, per impedire l’attuazione di riforme sbagliate nel campo della previdenza, della prevenzione, delle politiche di accoglienza, della formazione, della scuola e dell’università. Qui ha saputo costruire il più duraturo e importante schieramento sociale che ha attraversato tutto il paese, che ha visto giovani, insegnati, studenti e ricercatori mobilitarsi unitariamente nel nome della difesa dell’istruzione pubblica e della qualità dell’offerta formativa, contro le leggi Moratti.
Il 23 marzo ha segnato per il paese la più alta e straordinaria manifestazione della soggettività politica del lavoro e della sua centralità sociale. Per la Cgil è fondamentale tenere alte anche per il futuro le due grandi questioni di quella giornata. La difesa dei diritti e il legame fra questi e la libertà. E’ stata proprio la convinzione della centralità dei diritti come fondamento della libertà di tutti a rappresentare il valore simbolico e civile di un messaggio e di un impegno che ha saputo legare generazioni diverse, condizioni sociali e di reddito spesso distanti e unificare persone e interessi nel nome di un valore condiviso.
Lo stesso impegno, la Cgil, lo ha speso in difesa del rapporto fra la libertà informazione ed i più profondi valori della democrazia, opponendosi alle leggi su misura e difendendo il pluralismo dell’informazione, la libertà dell’informazione e il ruolo del servizio pubblico. La stessa cosa è avvenuta sui temi della giustizia e della legalità.
In queste scelte ed in queste iniziative, le donne e gli uomini della Cgil hanno incontrato tanti altre donne e tanti altri uomini. Quelli presenti nei movimenti, nei social forum – tra cui quello europeo di Firenze - i giovani, tra cui tanti cattolici, impegnati nel volontariato e nell’azione sociale e hanno lavorato per la costruzione di uno spazio sociale aperto, senza barriere ideologiche, muri religiosi o ostacoli al dialogo interculturale, i quali spesso sono stati frapposti da altri. Lo abbiamo fatto convinti della rilevanza politica della partecipazione civile, per realizzare quella qualità della democrazia cui aspiriamo; con la stessa convinzione che sta alla base della scelta di promuovere e sostenere l’Auser.
Dopo le dure divisioni precedenti e seguenti al patto per l’Italia e all’accordo separato nei meccanici, la Cgil – giustamente- ha ricercato nei limiti del possibile e del giusto, la ripresa di una ricerca e di una iniziativa unitaria con Cisl e Uil, nella coscienza che l’unità del sindacalismo confederale nelle condizioni di crisi e disgregazione del paese può – se legata a contenuti condivisi e iniziative efficaci di azione- rappresentare un punto di riferimento più largo e più forte alle domande di cambiamento e di rappresentanza.
La Cgil ha fatto proprie scelte e mobilitazioni importanti per la democrazia di tutti: quali la difesa della laicità dello Stato, la partecipazione democratica alle scelte collettive e, insieme con Cisl e Uil, si è battuta contro la revisione costituzionale, fino ad annunciare con chiarezza il suo NO all’eventuale referendum confermativo.
Si deve alla Cgil anche la ripresa dell’iniziativa e dell’attenzione attorno ai temi della legalità e della sicurezza. La decisione unitaria di celebrare il 1 maggio del 2005 nel quartiere di Scampia ha voluto rappresentare il simbolo di una scelta che vede impegnate tutte le nostre strutture, in tutto il paese, a sostegno delle denunce di ogni illegalità, contro ogni abbassamento nella tensione della lotta verso la criminalità organizzata e il brodo di cultura di cui si nutre, verso ogni compiacenza e collusione.
Il XV congresso della Cgil esprime tutto il proprio apprezzamento per il coraggio che molti delegati ed iscritti della Cgil dimostrano quotidianamente nel denunciare fenomeni illegali, nel contrastarli, assumendosi spesso rischi in prima persona.
Infine, sia pure fra le difficoltà per il rallentamento dell’economia, le scelte del governo e le posizioni del sistema delle imprese, la Cgil si è battuta per la difesa e la qualificazione delle politiche contrattuali, a partire
dall’affermazione forte del valore del contratto collettivo nazionale di lavoro e dalla sovranità contrattuale del sindacato, sia nei settori privati che in quelli pubblici. Anche in questo campo, quando si leggeranno meglio i raffronti e si potrà tirare un bilancio verificato dell’azione contrattuale, si potrà apprezzare per intero il valore di questo impegno. Di fronte ai nuovi processi produttivi, tecnologici e di mercato, ai mutamenti nelle condizioni di lavoro, alle modifiche normative intervenute, l’impegno verso una più forte contrattualizzazione del rapporto di lavoro, una più rigorosa scelta di unificazione e ricomposizione di cicli produttivi e tutele, l’estensione della contrattazione sociale su base territoriale rappresentano per la Cgil obiettivi complementari per dare forza e prospettiva al disegno di una rinnovata stagione di politica rivendicativa e contrattuale; e postulano la necessità di una riflessione – già avviata da diverse strutture regionali e territoriali – sulla riforma dei profili organizzativi.

Una proposta e un progetto alto
8.
Proprio la coerenza e l’autorevolezza del proprio ruolo e la capacità avuta nell’individuare, prima di altri, il progressivo decadimento del paese, mettono oggi la Cgil nella condizione di chiedere un forte, deciso e radicale cambiamento.
Per questo la Cgil si rivolge da un lato alle forze politiche e dall’altro alle altre confederazioni sindacali, alle autonomie locali, al sistema delle imprese, a tutti i soggetti della rappresentanza sociale perché condividano questa esigenza e favoriscano una politica di cambiamento.
L’Italia è davvero giunta ad un bivio: se non si cambiano le scelte, i valori e le priorità, il paese finirà davvero per allontanarsi dall’Europa e precipitare in una crisi senza soluzione.
Il XV congresso della Cgil indica il bisogno di un progetto alto, fatto di valori, scelte, contenuti, obiettivi e strumenti, determinazioni e passione civile per la ricostruzione e la rinascita dell’Italia.
Questo vuol dire, innanzitutto, determinare le condizioni per riscrivere il patto della cittadinanza, le basi sociali dei diritti e dei doveri, il profilo di una nuova etica e responsabilità pubblica, una pratica di democrazia partecipata, il ripristino di una cultura delle regole e del rispetto delle prerogative istituzionali di ognuno.
Un progetto di cambiamento come questo richiede – per l’appunto – non operazioni di cosmesi o di aggiustamento delle scelte compiute dal governo di centrodestra, ma il bisogno di un cambiamento profondo, fondato su alcuni assi fondamentali:
• la centralità del lavoro e la sua qualità;
• l’obiettivo di una via alta allo sviluppo, fondata sulla conoscenza, l’innovazione, la formazione, la sostenibilità, spostando gli investimenti dalla rendita alla innovazione e ricerca di prodotto;
• una programmazione democratica e partecipata dello sviluppo, nel quadro di un rafforzamento del welfare, inteso esso stesso come fattore di sviluppo e di redisrtibuzione, e di una politica fiscale diversamente orientata ;
• il rilancio della centralità del Mezzogiorno, da cui ripartire per un nuovo sviluppo produttivo, occupazionale e sociale;
• un ruolo di nuovo forte dei soggetti della rappresentanza sociale, e tra questi del sindacato e della Cgil, che sapranno essere, nella propria autonomia, all’altezza dei problemi posti da queste politiche di trasformazione.

9. Il primo obiettivo di una politica di cambiamento deve essere la lotta alla precarietà del lavoro che, per le sue dimensioni, le sue conseguenze sociali, è oggi la piaga più insostenibile della condizione di molte lavoratrici e molti lavoratori e finisce per permeare di sé la dimensione sociale della precarietà, a partire dalla condizione dei giovani, e di una intera generazione.
La Cgil ritiene fondamentale accompagnare uno straordinario e graduale processo di riconversione economica e produttiva con una politica di solida e stabile occupazione. Un lavoro dotato di diritti e tutele, anche dentro la copertura del contratto nazionale, è fattore di competitività nel modello economico, produttivo e sociale di un’Italia e un’Europa che connotano – anche in questo – il profilo della propria identità. Solo questa prospettiva può ridurre ed eliminare le forme di precarietà per i giovani, per gli anziani, per i tanti lavoratori migranti, costretti a vivere spesso in condizioni di forzata illegalità. E per impedire che sulla condizione femminile si scarichino insieme gli effetti della crisi industriale, le scelte sbagliate nel campo del welfare e la totale assenza di ogni politica tesa a conciliare tempi di vita e tempi di lavoro.
Le caratteristiche stesse della crisi e delle trasformazioni espongono la condizione delle donne oggi e per il futuro a due rischi che vanno invece prevenuti: una crescente collocazione verso le fasce di lavoro domestico e di cura, un’accentuata debolezza nei settori a più estesa concorrenza internazionale.
La stessa ampiezza progressiva della crisi industriale e produttiva, i fenomeni di delocalizzazione, i trasferimenti di produzione nei paesi di più basso costo e minori diritti, rende necessaria una politica di sistema che ne anticipi e ne corregga le tendenze. Occorre rivendicare la piena applicazione dell’articolo 41 della Costituzione che lega la responsabilità d’impresa a quella sociale, intervenire sui problemi aperti a livello internazionale, definendo un compiuto quadro di riforma degli ammortizzatori sociali, di estensione dei diritti del lavoro, di scelte fiscali in grado di premiare le corrette scelte aziendali e di colpire quelle sbagliate.
Fa parte integrante di questa battaglia contro la precarietà l’intervento per prevenire infortuni e incidenti nel lavoro, che espongono oggi la condizione dei lavoratori nel nostro paese ad una insopportabile esposizione ai fattori di rischio e di nocività. E l’impegno per ridefinire totalmente nuove e alternative
proposte per le politiche di accoglienza e di inserimento per i lavoratori migranti.
10. La crisi industriale presente, il bisogno di cambiare qualità delle specializzazioni produttive, l’esigenza di favorire politiche di sostegno alla ricerca, all’innovazione, alla crescita dimensionale delle imprese, raccordandosi con le scelte di politica industriale e di sviluppo dei più grandi paesi dell’Unione Europea, pone l’esigenza di un vero e proprio progetto per la ricostruzione delle basi produttive, delle infrastrutture materiali e immateriali e dei servizi del paese.
L’obiettivo di rafforzare una logica di sistema del paese, di fronte alle debolezze del sistema industriale, riposa su un ruolo dell’attore pubblico e dell’efficienza di mercato che sappia orientarsi verso la qualità dell’offerta e con contenuti tecnologici sempre più alti, che solo una programmazione democratica della crescita e dello sviluppo sono in condizione oggi di determinare. Senza questa politica è anche illusorio pensare di ridurre la distanza che separa le aree a reddito più elevato da quelle con reddito più basso. E le stesse potenzialità di sviluppo del Mezzogiorno verrebbero estremamente compromesse.
Questo obiettivo primario va sostenuto da un’esplicita volontà politica, da un quadro di strumenti adeguati e da un metodo fortemente partecipato.
Un progetto dal profilo così alto richiede innanzitutto una disponibilità di risorse finanziarie da indirizzare verso investimenti e fattori di crescita, a partire da quelli immateriali; e un intervento per ridurre i costi delle diseconomie.
Per questo il XV congresso della Cgil indica al paese la necessità di un nuovo patto fiscale, teso a consolidare il patto di cittadinanza e quello di uguaglianza fra cittadino e cittadino e fra cittadino e istituzioni, fondato su scelte che esplicitamente assumano la crescita dei redditi da lavoro e da pensione, le politiche di sostegno agli investimenti e ai trasferimenti selettivi verso le imprese, come propri riferimenti essenziali. Sempre più attuale, in questo quadro, si dimostra la proposta della Cgil di un intervento di fiscalizzazione contributiva sui salari più bassi, di restituzione del drenaggio fiscale, di riequilibrio della tassazione fra rendite, patrimoni e redditi da lavoro. Il paese ha bisogno di una nuova politica redistributiva fra tutti i redditi, che costituisca indubbio sostegno alle politiche contrattuali.
La natura di questo patto postula insieme due condizioni. Che non vi siano logiche dei due tempi, tra risanamento e redistribuzione, e che l’equità da ritrovare sia frutto di una scelta che corregge una politica che ha colpito i redditi da lavoro e da pensione più di ogni altra forma di tassazione.
Troppo in questi anni su questo terreno non ha funzionato. Finanza creativa, condoni a ripetizione, cartolarizzazioni, dismissioni del patrimonio pubblico, assenza di una politica di contenimento di prezzi e tariffe, abbandono di una corretta attenzione alle dinamiche dei redditi, attacco alla progressività del prelievo fiscale, scarsissima attenzione verso la lotta alle elusioni e alle evasioni fiscali, al lavoro nero e a quello sommerso – altro fallimento del governo -, vantaggi per rendite e patrimoni: questo è l’insieme che ha favorito l’arricchimento di una parte del paese a scapito della maggioranza dei cittadini ed ha penalizzato – innanzitutto – il lavoro e lo sviluppo.
Per questo, la lotta contro il lavoro nero è obiettivo fondamentale. Troppe donne e uomini, troppi immigrati, troppe imprese si situano fuori dalla legalità, dai sistemi di protezione sociali. L’intervento sull’economia irregolare è di straordinaria importanza, non solo per evidenti ragioni etiche e di solidarietà, ma anche per impedire forme di concorrenza sleale, per restituire alla collettività ingenti quantità di ricchezza attualmente evasa, per rompere quelle stesse convenienze fra soggetti deboli che minano la solidarietà generale (indicativa la condizione delle assistenti famigliari). E’ il presupposto per ogni possibile patto fiscale tra le ragioni del lavoro, dell’impresa e della cittadinanza.
Il livello di questa ingiustizia sociale è insieme causa ed effetto delle politiche di divisione e contrapposizione sociale.
Oggi direttamente o indirettamente, l’intervento del pubblico è richiesto da tutte le parti. Da chi chiede dazi doganali, da chi chiede riduzione della pressione fiscale, da chi punta all’appoggio delle istituzioni pubbliche per il sostegno alle proprie scalate e al consolidamento delle proprie posizioni, dalle scelte che hanno portato a concentrare in forme improprie partecipazioni pubbliche e disponibilità finanziarie in società e contenitori dalla dubbia trasparenza, efficacia e funzionalità.
Il problema quindi che si pone non è quello di dire sì o no all’intervento pubblico.
Ma domandarsi quale intervento pubblico si renda oggi necessario, per difendere innanzitutto produzioni, presenze strategiche del paese, beni di rilevanza sociale, e come la responsabilità pubblica possa consentire ai mercati di essere realmente più efficienti, trasparenti e regolati, nell’interesse dei cittadini, dei consumatori e dei lavoratori. Il passaggio dai monopoli della gestione pubblica a quella privata ha creato vantaggi solo per pochissimi, senza premiare investimenti, qualità e interessi dei cittadini.
La stessa responsabilità pubblica appare decisiva nel determinare un indispensabile salto in avanti sui terreni dell’innovazione di prodotto e della ricerca, nell’offerta formativa, nelle politiche infrastrutturali materiali e immateriali, nella gestione del territorio, nel promuovere politiche di attrazione degli investimenti e politiche di vantaggio per le aree a ritardato sviluppo, verso le quali non può essere interrotta la politica di bilancio e di investimenti dei fondi europei.
Le stesse scelte di ricerca e di innovazione nel campo dello sviluppo sostenibile e delle politiche ambientali, dal ciclo dei rifiuti ai vantaggi che si possono trarre nel campo delle fonti energetiche alternative, dall’applicazione del protocollo di Kyoto, richiedono un deciso orientamento della domanda pubblica.
In questo quadro, l’innovazione e la riforma del welfare, la sua crescente responsabilità nell’inclusione sociale, come fattore di redistribuzione contro povertà e disuguaglianze, rappresentano per la Cgil un obiettivo decisivo. Senza un welfare universale e di qualità non vi è né vi potrà essere, a maggior ragione per il futuro, un fondamento di uguaglianza e di cittadinanza, a partire dai diritti costituzionalmente garantiti e dalla difesa dei beni comuni.
Insieme, il welfare nelle sue funzioni fondamentali di sicurezza, prevenzione, salute, assistenza, formazione, previdenza è leva di crescita di investimenti, di occupazione e di occasioni di lavoro. Può stimolare con una domanda selezionata innovazione e ricerca; genera servizi sempre più estesi e personalizzati; crea condizioni per attrarre investimenti, deve accompagnare processi di riconversione e tempi e aspettative che vengono meno nella vita delle persone. L’economia dei beni sociali apre prospettive destinate a crescere.
Per la Cgil è prioritario che le funzioni e i compiti del welfare sappiano intercettare tutti i bisogni, a partire dal modo di contrastare le aree di povertà che in questi anni si sono allargate.
E che si affrontino, finalmente, le due condizioni sociali che sono oggi quelle più esposte: la condizione degli anziani non autosufficienti, i problemi legati alla prima infanzia. Anche se è evidente infatti che il primo non riassume tutto il quadro dei problemi della condizione degli anziani, in una società che allunga le attese di vita e fa diventare strutturale il fenomeno dell’invecchiamento delle persone e perciò richiede nuove politiche di relazione con la formazione e di invecchiamento attivo; e il secondo non risolve tutte le politiche del riequilibrio demografico: essi sono due temi che comunque assumono per la Cgil il valore di un obiettivo prioritario da proporre, affrontare e risolvere. E’necessario quindi assumere l’impegno per un rinnovato welfare che diventi parte costituente di un nuovo modello di sviluppo, che faccia interagire sviluppo produttivo, occupazione e servizi sociali rispondendo alla domanda di benessere sociale.

Una Cgil autonoma e democratica
11.
In questa prospettiva, un ruolo fondamentale spetta al lavoro, alle indicazioni e alla determinazioni del movimento sindacale e, per quello che ci riguarda, alla Cgil.
L’incapacità dell’azione di questo governo, che si conferma anche in questi mesi, i ritardi con cui l’opposizione si misura con un programma credibile di governo del cambiamento, l’incertezza e le divisioni presenti nel mondo imprenditoriale, la forza inarrestabile degli effetti di una globalizzazione senza regole, le difficoltà che incontra l’Unione Europea a progredire verso un profilo più compiutamente democratico delle sue istituzioni e verso la costruzione di una autonoma politica economica, industriale e infrastrutturale europea, tutto questo mette sulle spalle del movimento sindacale e della Cgil una responsabilità francamente inedita e decisiva.
Battere una cultura della rassegnazione, della corporativizzazione e della disgregazione sociale, anche sul terreno della lotta contro le illegalità, indicare una convincente e plausibile prospettiva positiva sono obiettivi che solo con un’azione decisa del sindacato, e della Cgil, possono essere conseguiti.
La Cgil è punto di riferimento per la ricostruzione di un’etica nei comportamenti collettivi, fondata sulla cultura della partecipazione, dell’esigibilità dei diritti come condizione ineludibile della democrazia e della libertà: questa cultura può rianimare un clima di fiducia a speranza, del quale soprattutto le giovani generazioni hanno bisogno per compiere processi di emancipazione e di crescita. Le giovani ed i giovani, le donne, la parte della società emarginata da questi anni di governo Berlusconi devono poter guardare con serenità al futuro, anche in virtù dell’impegno che con loro la Cgil assume.
Il XV congresso è consapevole del ruolo insostituibile che la Cgil – grazie anche al radicamento nel territorio operato da Camere del Lavoro, leghe dei pensionati e dalla rete dei servizi - può giocare nel delineare questa prospettiva. Naturalmente bisogna insieme operare perché si concluda in maniera condivisa la stagione infinita della transizione costituzionale; perché si affermi realmente, sul terreno politico, un compiuto bipolarismo programmatico nel paese, e perché vengano riformati e resi agibili percorsi e sedi di partecipazione e di confronto sulle scelte del paese per i soggetti della rappresentanza sociale, e segnatamente per il sindacato.
Ma quello che per noi è evidente è che solo una Cgil, capace di rinnovarsi, fortemente radicata nel lavoro e nelle sue trasformazioni, in grado di presidiare il territorio e orientarne lo sviluppo, capace di stare in campo con un profilo autonomo e un alto disegno programmatico, può davvero proporsi l’obiettivo ambizioso di misurarsi per intero con la grande sfida culturale, istituzionale, politica e sociale che è aperta nel paese: costruire nei fatti, declinandola per intero, la centralità del valore del lavoro e dei diritti.
Tutto questo richiede una Cgil forte dei suoi pluralismi interni e forte nel rapporto democratico con tutti i lavoratori. Per questo, la democrazia della Cgil vive dei suoi molteplici pluralismi – a partire dal valore della differenza, dai pluralismi programmatici, da quelli di struttura a quelli legati alla rappresentanza di interessi – e in un sistema di regole che ne garantisce la piena legittimità e agibilità. Il XV congresso si propone perciò di costituire un reale, esteso e democratico processo di dibattito e partecipazione. E’ diritto di tutte le iscritte e gli iscritti determinare con il voto sui documenti congressuali le scelte strategiche che definiranno il profilo e l’azione della Cgil nei prossimi quattro anni, nella valorizzazione di tutte le esperienze che l’organizzazione esprime.
Per la Cgil l’espressione democratica dei lavoratori resta una pratica e un obiettivo irrinunciabile. Chiedere che sia il voto democratico a validare piattaforme e accordi, costruire anche per via legislativa una cornice di regole
in grado di misurare la rappresentatività delle forze sociali e dare – dopo una sperimentazione endosindacale – certezza ai percorsi democratici non è né una fuga in avanti, né un atto che comprime le regole e la funzione dei principi associativi di ogni organizzazione. D’altra parte, le pratiche esperite in questi anni, il risultato delle elezioni delle RSU, il misurarsi con l’opinione dei lavoratori anche di fronte a compromessi contrattuali difficili non solo non si è dimostrato un esercizio rituale, ma ha finito esplicitamente per rafforzare rappresentatività e credibilità del sindacalismo confederale. Esprimendo in questo, la risposta più compiuta, più forte ai tentativi di delegittimazione messi in campo dal governo di centrodestra e al tentativo di tenere ai margini della vita sociale del paese il ruolo del sindacato.
Il principio della libertà di associazione, garantito dalla Costituzione e da ogni principio di democrazia, e il diritto dei lavoratori di decidere su quello che li riguarda non possono essere usati uno contro l’altro. Se lo si fa, si impoverisce il senso della confederalità ed il valore generale della funzione del sindacato, oltreché separare la giusta domanda di più unità e più democrazia.

12. Su questo terreno così come su altri contenuti, la Cgil non è riuscita compiutamente a trovare una piena condivisione unitaria da parte della Cisl e della Uil. Questo, però, non deve significare per la Cgil abbandonare il perseguimento di questi obiettivi.
Il XV congresso riconferma che il pluralismo, interno alle diverse culture e sensibilità del sindacalismo confederale, rappresenta un valore da cui partire per ricercare sintesi e approdi unitari e ridurre l’area dei dissensi esistenti.
Anche nei momenti più difficili di questi anni, la ricerca di una convergenza unitaria non è mai venuta meno per la Cgil; e ne attestano la conferma le scelte contenute nei documenti del congresso di Rimini, allor quando nel pieno della divisione sindacale, la Cgil continuava giustamente ad indicare l’obiettivo e l’esigenza di un percorso di unità. Scelta che la Cgil considera dall’atto della sua nascita strategica.
I congressi di Cisl e Uil, il congresso della Cgil, hanno ognuno di fronte a sé questo tema. Per quello che ci riguarda, riteniamo in questa prospettiva e con questa impostazione di proporre a Cisl e Uil di lavorare assieme alla carta programmatica dei valori del sindacato confederale. Una carta non in grado, ovviamente, di risolvere problemi e temi dei contrasti, ma capace di riaffermare la qualità dei valori comuni, che valga per l’oggi e per il domani, e rappresenti il segno distintivo, oltre le differenze e al di là dei pluralismi, del ruolo e della funzione del sindacalismo confederale.
Questa scelta, se condivisa, darebbe più forza e rappresenterebbe anche una proiezione più efficace al lavoro che attende il sindacato italiano verso la Confederazione Europea dei Sindacati e la Cisl internazionale, alle prese con processi di trasformazione, riardi e inerzie non più giustificabili.

13. Nell’anno di svolgimento del XV congresso della Cgil cadrà il centesimo anniversario della nascita della Confederazione generale del lavoro. La Cgil, celebrerà – come è giusto – e nel modo più alto possibile questa storia, il grande processo di avanzamento democratico delle conquiste del mondo del lavoro; in questo ricordando l’impegno e il sacrificio di tante generazioni di lavoratrici e lavoratori.
La Cgil non intende celebrare questa storia per sé, ma proprio per segnare il rapporto che lega indissolubilmente la storia del lavoro alla storia della democrazia e della libertà nel nostro paese. Una storia, dunque, comune, che ha fatto del movimento sindacale italiano – pur nelle alterne vicende di questo secolo – una grande istituzione sociale, una grande forza di rappresentanza ed un insostituibile soggetto in difesa della democrazia e della libertà.
Un processo che a partire dal formarsi delle prime leghe, dai primi sindacati di mestiere, fino alla nascita delle federazioni nazionali di categoria e delle Camere del Lavoro; dall’indizione del primo sciopero generale nel 1904, fino alla capacità di opporsi alla violenza del fascismo e alla cancellazione della democrazia e della libertà per tutti, ha poi dato vita al grande contributo dei lavoratori alla Resistenza, agli scioperi del 1943-1945, fino a segnare di sé contenuti e valori della Carta Costituzionale. Una storia che in questo dopoguerra ha continuato ad essere decisiva per crescita civile e sociale del paese, innanzitutto per la difesa della democrazia e della libertà e per battere ogni forma di terrorismo.
Per questo, il centenario si rivolge innanzitutto ai giovani e alle nuove generazioni, a quanti si interrogano su quale modello di società costruire, ai tanti fili invisibili che legano le memorie e le conquiste che passano da generazioni ad altre generazioni.
Questo è il cuore della proposta politica del XV congresso della Cgil: il progetto di un nuovo avvio per il paese ha senso e vive solo se rivolto esplicitamente alle generazioni che rappresentano il presente, ma soprattutto il futuro, del mondo del lavoro e del paese. Alle ansie, alle incertezze, alle preoccupazioni esistenti la Cgil intende offrire una proposta ed un messaggio fatti di valori condivisi, di partecipazione e passione democratica e di fiducia nel cambiamento, possibile e necessario del Paese.

1^ TESI
LA SFIDA DEL LAVORO E LA GLOBALIZZAZIONE:OBIETTIVI E PROPOSTE

1. Gli obiettivi generali
1.1 L’interrogativo principale per il sindacato oggi, nell’epoca della globalizzazione che ha eroso poteri e confini degli stati, è come ricostruire una rete di diritti sociali e del lavoro sul piano sopranazionale. La competizione globale neoliberista infatti fa leva esattamente su dumping sociale e mercificazione del lavoro. Riportare a livello sopranazionale, ed in modo esigibile, diritti che sono stati storicamente inscritti dentro i confini dei singoli paesi, è dunque un obiettivo fondamentale che dà qualità e senso a ciò che si intende per qualificare ed estendere la democrazia.
1.2 Ciò non potrà che avvenire a più livelli e percorrendo più strade: la definizione della dimensione sovranazionale dei contratti e della rappresentanza; la negoziazione/confronto con le imprese, con i governi, con le istituzioni multilaterali; la cooperazione sindacale allo sviluppo; la definizione, nei processi di integrazione regionale (Mercosul, Europa), di una dimensione normativa a tutela dei diritti sociali indisponibili e a sostegno della contrattazione collettiva.
1.3 Per questa ragione il metro di misura utilizzato dalla CGIL per il giudizio sul Trattato Costituzionale europeo è stato la presenza in esso della Carta di Nizza, della definizione cioè della cittadinanza europea come unione indivisibile di diritti sociali, civili e politici: premessa fondamentale per far sì che valore del lavoro, diritti sociali, contrattazione collettiva siano posti a fondamento del patto costituzionale europeo.
1.4 Ripudio della guerra, della violenza e del terrorismo e promozione ed estensione dei diritti del lavoro e dell’ambiente sono indissolubilmente legati. Infatti per noi la pace è l’unica strategia razionale di sopravvivenza in un mondo globale e interdipendente segnato da eventi traumatici che nominati tutti insieme compongono il quadro degli interrogativi aperti per la comunità internazionale e la sensazione di rischio per le persone. Dai più eclatanti, il terrorismo, New York, Madrid, Londra, Casablanca, Istanbul, la guerra in Iraq, da cui vanno ritirate le truppe, l’Afghanistan, il conflitto Israelo-palestinese, le tensioni interetniche nei Balcani, la Cecenia; ai più invisibili, le tante facce delle disparità tra Nord ricco e Sud povero del mondo, l’aggravamento delle disuguaglianze di genere in tutte le società, la privatizzazione strisciante o diretta ovunque di salute e istruzione; dai conflitti poco conosciuti per l’accesso all’acqua in molte parti del sud del mondo, a quelli più noti per il controllo delle risorse energetiche, fino alla tragedia dell’Aids del continente dimenticato, l’Africa, che riguarda soprattutto milioni di donne e di bambini.
1.5 Moltissimi di quegli eventi hanno come epicentro il Mediterraneo, che può essere al contrario mare di pace e prosperità e ponte tra culture, oggi banco di prova della capacità dell’Europa di progettare il proprio futuro nella globalizzazione. Ma solo se l’Europa stessa saprà realizzare gli obiettivi di cooperazione e integrazione definiti 10 anni fa a Barcellona, poi smarriti e confinati alla sola creazione di un’area di libero scambio, con gli effetti sociali testimoniati dagli indicatori delle agenzie ONU in quasi tutti i paesi della riva Sud.
2. La riforma del governo globale
2.1 I diritti non hanno territorialità se non esiste un tessuto democratico nel quale innestarli: ci riguarda dunque direttamente la riforma in senso democratico dell’ONU la cui fragilità democratica è emersa con evidenza insieme ai suoi limiti, contraddizioni e storture, e nonostante ciò unica alternativa alle tentazioni egemoniche e unilaterali della amministrazione Bush così come espresse nella teoria della guerra preventiva,una teoria appunto geo-politica,formulata in aperta contrapposizione alla Carta dell’ONU e per questo mai legittimata dalle Nazioni Unite.
2.2 L’elemento più negativo della politica estera degli Stati Uniti, ispirata dai neo-conservatori, sta appunto nella riproposizione della propria sovranità come luogo assoluto ed indipendente di tutte le scelte politiche che investono altri soggetti; scelte che, in virtù della forza militare ed economica di quel paese, diventano nuovo criterio ordinatore con cui il resto della comunità internazionale deve misurarsi, anche quando hanno il volto della violazione dei diritti umani, della riabilitazione dell’uso della tortura.
La condizione di premessa oggi per una nuova democrazia mondiale sta nella definizione della sua necessità come scelta tra quelle possibili ed in campo, alternativa dunque all’unilateralismo americano, ma che non può fare a meno anche degli Stati Uniti.
Decisivo in questo senso è il successo del processo di integrazione dell’Europa, sulla base del suo modello sociale, così come di quello del Mercosul.
2.3 Proposte importanti di riforma dell’ONU sono già state avanzate da parte di molti paesi(molti di quelli che hanno determinato il fallimento dei negoziati OMC di Cancun, il Brasile tra tutti): l’elezione di una Assemblea parlamentare da affiancare all’ONU, l’allargamento del Consiglio di sicurezza, il superamento del potere di veto che lo caratterizza, un rapporto nuovo con la società civile e gli stessi movimenti globali.
2.4 La nostra opinione è che quella riforma sarebbe incompiuta e inefficace rispetto all’obiettivo di una possibile “democrazia globale” se non si affiancasse al Consiglio di Sicurezza e con analoghi poteri il Consiglio di sicurezza economico, sociale e dell’ambiente. Il punto fondamentale infatti in generale è costruire consenso (e poi tradurre in pratica) ad una nuova gerarchia tra le istituzioni politiche (l’ONU e le sue agenzie) e le istituzioni finanziarie, anche esse da riformare. (FMI, Banca Mondiale e successivamente OMC).
2.5 L’asimmetria tra il livello politico e quello finanziario ha infatti determinato nel tempo uno scarto sempre più evidente tra impegni importanti (come quelli per il contrasto al lavoro minorile) e le politiche concrete e contrarie richieste ai paesi in via di sviluppo per la concessione di prestiti (privatizzazione di salute e istruzione, acqua e risorse naturali, insieme all’imposizione di modelli produttivi come le monocolture e l’uso di OGM).
2.6 Quell’asimmetria ha dunque consentito che la globalizzazione economica e finanziaria avvenisse,direttamente attraverso le ricette delle istituzioni finanziarie e indirettamente attraverso le multinazionali, senza nessun riferimento-collegamento alla difesa e promozione di beni comuni e collettivi, secondo una logica esclusiva di mercato senza limiti.
3. Diritti del lavoro, clausole sociali e ambientali
3.1 Abbiamo la consapevolezza che la richiesta di estendere i diritti sociali, del lavoro e dell’ambiente, possa essere percepita nei paesi in via di sviluppo come misura agita più per proteggere le condizioni di vita e di lavoro dei paesi ricchi che come scelta generale di profilo dello sviluppo sostenibile.
3.2 Avere tale consapevolezza non ci deve disimpegnare, anzi al contrario, ci obbliga ad assumere responsabilità diretta rispetto a quell’obiettivo attraverso la contrattazione nazionale, sopranazionale e nelle multinazionali, che è il nuovo grande banco di prova del sindacato.
3.3 E soprattutto occorre mettere insieme politiche contrattuali e politiche efficaci per lo sviluppo di quei paesi, in modo che la concreta realtà non neghi affermazioni teoriche. Naturalmente cominciando dalla totale cancellazione del debito, e dall’attivazione di risorse per il loro sostegno (Tobin Tax, 0,7% Pil), dirottando verso questa direzione gli enormi stanziamenti destinati alle spese militari. L’Italia, che è agli ultimi posti per la percentuale di PIL finalizzato alla cooperazione internazionale, al contrario è ai primi posti per le spese militari.
3.4 Così come rimaniamo convinti della necessità di rivendicare l’applicazione delle clausole sociali e ambientali OIL nelle relazioni commerciali, che devono essere attuate attraverso strumenti di orientamento e di sostegno del comportamento delle imprese, di cooperazione con i paesi in via di sviluppo, in modo che i fondi per la cooperazione allo sviluppo siano anche indirizzati alla promozione di diritti sociali ed economici. A questo fine è naturalmente decisivo un ruolo, di promozione e controllo, più forte dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL).
3.5 D’altra parte i negoziati OMC non possono avvenire “senza esclusione”: i servizi di interesse pubblici e i beni comuni fondamentali (acqua, salute, educazione) devono essere preservati dalla disciplina OMC. Così come all’agricoltura deve essere riconosciuta la funzione strategica e prioritaria di garantire in primo luogo la sicurezza e la sovranità alimentare, affrontando per questa via la necessaria profonda riforma dei sussidi e delle politiche agricole di sostegno.
3.6 La nuova competizione internazionale dei paesi emergenti non si batte con nuovi dazi e vecchi protezionismi. La fine dell’accordo Multifibre ha sicuramente svelato la necessità del cambiamento del modello di specializzazione italiano ed evidenziato le debolezze del nostro sistema industriale, debolezze che non possono però essere scaricate sulla condizioni di vita e di lavoro delle persone oggi occupate in quei settori. Ciò presuppone che vengano predisposte adeguate risorse per gli ammortizzatori sociali necessari negli stessi settori, misure di politica industriale orientate da efficaci politiche pubbliche, scelte non più rimandabili nel settore tessile (etichettatura d’origine, tracciabilità dei prodotti, tempi più lenti di applicazione della fine delle “clausole di salvaguardia”, misure contro la contraffazione).
4. Il modello sociale europeo come modello di sviluppo
4.1 Per modello sociale europeo si intende un modello di sviluppo sostenibile che tiene insieme crescita economica, coesione sociale e qualità ambientale, attraverso politiche pubbliche adeguatamente finanziate da un fisco equo e progressivo, contraddistinto storicamente da una presenza forte e organizzata del sindacato come soggetto della contrattazione collettiva e per questo della dialettica democratica.
4.2 Quel modello lo si intende distinto dal modello anglosassone, fondato su un presunto circuito virtuoso, meno tasse, meno stato, meno diritti, più crescita. Ora va detto che il modello sociale europeo per esistere non semplicemente come descrizione storicamente determinata dell’evoluzione dello “stato sociale” nei singoli paesi europei, ma come modello di sviluppo sostenibile dell’oggi, distinto da quello anglosassone, e per questo alternativa concretamente possibile per lo sviluppo globale, quel modello ha bisogno che esista l’Europa politica, che siano rilanciate le istituzioni europee e rafforzata la Corte di Giustizia per il suo contributo alla costruzione della giurisprudenza europea del lavoro. L’Europa politica a sua volta per esistere ha bisogno di una Costituzione, come esito finale di un processo politico coerente, oggi al contrario contraddetto dall’indebolimento percepibile della cultura politica che ha sostenuto negli anni il progetto europeo e dalla distanza tra quel modello e le politiche reali praticate in molti paesi europei e contenute in importanti direttive della Commissione.
5. Il Trattato Costituzionale Europeo
5.1 Abbiamo dato a suo tempo una chiave di lettura positiva del Trattato Costituzionale a occhi aperti, avendone presenti limiti, contraddizioni e deficit democratico e proponendo di recuperare ciò che a noi parevano e paiono le negatività più vistose (assenza del ripudio della guerra, della cittadinanza di residenza per i migranti, incoerenza totale della 3° parte con la 1° e la 2°) attraverso la procedura, presente nel Trattato, della raccolta di 1 milione di firme. Si trattava di una proposta pensata per cambiare gli aspetti per noi più contraddittori del Trattato, per recuperare il deficit democratico e nel contempo per rendere evidente come il Trattato stesso fosse la tappa di un percorso costituente aperto e in progress.
5.2 Quella proposta mantiene il proprio significato nel definire contenuti, alleanze e percorsi democratici per l’Europa sociale a cui non intendiamo rinunciare. In Italia è già avviata la raccolta di firme per la definizione della cittadinanza di residenza. Siamo infatti ben consapevoli che oggi esistono due rischi concreti che si alimentano reciprocamente: lo scarto sempre più grande tra la realtà europea e la retorica europea produce disaffezione e sfiducia come dimostra l’esito del referendum sul Trattato Costituzionale in Francia ed in Olanda; quella sfiducia viene utilizzata per allontanare sempre di più la prospettiva sociale dell’Europa e avvicinare sempre di più quella dell’Europa come grande area di libero scambio, di merci e non di persone, come dimostra l’esito della discussione sul bilancio europeo.
5.3 L’esito del referendum peraltro consegna anche al sindacato una domanda di rappresentanza che il sindacato deve saper raccogliere assumendosi il difficile compito di essere protagonista nel rilancio dell’Europa sociale e dunque dell’Europa politica, dicendo a quale Europa sociale pensiamo e quale Europa politica vogliamo.

2^ TESI
IL SINDACATO EUROPEO E MONDIALE

1. Globalizzazione e rappresentanza
1.1 Le recenti bocciature del Trattato Costituzionale svelano e non determinano la crisi dell’ispirazione europea. Si è detto, ed è sicuramente vero, dello scollamento che quel voto ha registrato tra élite politica e popolo. Va aggiunto che quella élite, ha da un lato propugnato il si al Trattato, dall’altro ha veicolato il contrario, additando l’Europa matrigna come responsabile delle politiche sociali ed economiche negative e liberiste che lei stessa produceva per contrastare la congiuntura economica sfavorevole che ha attraversato e attraversa tutta l’area euro. Cioè si è indebolita nel tempo una cultura politica che scommetteva sull’Europa come progetto di sviluppo economico e sociale alternativo e distinto. Quella crisi si è manifestata prima di oggi ed è sicuramente stata rivelata dalla guerra in Iraq. Appare con tutta evidenza la necessità di ridefinire il profilo di una proposta di tutte le forze progressiste politiche sociali e prima ancora quello di una cultura politica alternativa alla filosofia che sta dietro a ciò che si intende per modello anglosassone di sviluppo, ma altrettanto globale.
1.2 Per farlo non solo è necessario che la rappresentanza politica investa in quella direzione, emancipandosi dalla logica inefficace e pericolosa dei compartimenti stagni, le politiche nazionali da un lato, quelle europee e internazionali dall’altro, ma è altrettanto urgente e necessario che la rappresentanza sociale scelga la dimensione sopranazionale come banco di prova della sua efficacia, qui e ora.
2. La Cisl Internazionale
2.1 La CGIL ha espresso un giudizio positivo sulla nascita della nuova centrale sindacale internazionale, non semplicemente somma di Cisl Internazionale e CMT, ma nuova formazione comprensiva anche di quei sindacati oggi non affiliati all’una o all’altra centrale. L’abbiamo fatto proponendo al contempo ciò che a noi sembra decisivo per definire soggettività sindacale e profilo democratico della nuova centrale.
2.2 In particolare, poiché occorre un modello di funzionamento democratico, pluralista e inclusivo, sono necessarie regole e procedure democratiche nella costruzione delle decisioni, rispetto del pluralismo e della pari dignità di ogni organizzazione. Il riconoscimento di tutte le identità presenti, anche di quelle religiose, può e deve trovare soluzione all’’interno della nuova organizzazione stessa e non al suo esterno o con strutture separate. In ogni caso il rispetto di quelle identità non può far tornare indietro il sindacato internazionale su scelte che ne definiscono il profilo: tale è la tutela dei diritti riproduttivi delle donne in ogni parte del mondo.
2.3 Per la CGIL rifondare una nuova confederazione sindacale mondiale significa costruire un’organizzazione più rappresentativa; più vicina alle lavoratrici e ai lavoratori; più sindacale perché la sua priorità è sostenere la sindacalizzazione e aiutare e promuovere la contrattazione collettiva, creando così rapporti di forza da spendere anche nelle istituzioni sopranazionali; più pluralista, più inclusiva e più unitaria, perché costruisce il consenso nelle decisioni riconoscendo le diversità, sia di genere sia di interessi sia di ispirazione ideale o culturale, presenti al suo interno e lavorando per una sintesi solidale e multietnica.
2.4 D’altra parte il crescente ruolo delle imprese multinazionali nella nuova divisione internazionale del lavoro si intreccia con politiche governative di deregulation e antisindacali per attrarre investimenti, che sono spesso imposte dalle istituzioni finanziarie globali; pertanto una separazione tra azione settoriale e azione confederale risulta sempre meno comprensibile ed efficace e d’altra parte nella grande maggioranza dei sindacati dei diversi paesi la relazione tra queste due dimensioni organizzative e rivendicative è più stretta che su scala internazionale.
3. La CES
3.1 Per più ragioni e con evidenza è sempre più pressante la necessità che il sindacato europeo giochi in prima persona un ruolo per riconquistare la prospettiva dell’Europa sociale. E’ quindi indispensabile una riflessione su come la CES debba attrezzarsi per svolgere tale ruolo, in una situazione in cui la somma di alcune direttive (quella sui servizi nel mercato interno e quella sugli orari di lavoro) e delle scelte di molti governi e molte imprese si traduce nel peggioramento delle tutele e dei diritti delle lavoratrici e dei lavoratori così come degli anziani.
3.2 La CES infatti esprime oggi, un’iniziativa sindacale inferiore a ciò che sarebbe necessario e alle sue stesse potenzialità. Dopo essersi trasformata, da “sindacato” che agiva come strumento generico di confronto di esperienze nazionali in sindacato capace di sviluppare momenti negoziali, è ora necessario costruire una vera autonomia strategica e negoziale, uscendo definitivamente dalla concezione del ruolo del sindacato europeo come funzione sussidiaria rispetto all’iniziativa legislativa comunitaria.
3.3 Per farlo occorre rafforzare anche la sua democrazia interna coinvolgendo nelle decisioni con pari dignità tutti i sindacati nazionali .
3.4 E’ inoltre altrettanto insufficiente il coinvolgimento delle federazioni europee di categorie nel processo decisionale ed in quello della implementazione delle decisioni, soprattutto se si tiene conto che in Europa esistono modelli sindacali diversi, alcuni dei quali attribuiscono prevalentemente alle categorie potere contrattuale. C’è bisogno perciò di integrazione tra strutture “confederali” e di “categoria” per poter sviluppare un sindacato europeo pienamente rappresentativo.
3.5 Oltre al rafforzamento del dialogo sociale, è necessario rafforzare la capacità del sindacato europeo di negoziare accordi collettivi a livello confederale e settoriale, accordi che abbiano carattere vincolante, con un vero potere negoziale e con un bilancio dei risultati.
3.6 Partendo da un bilancio realistico dell’attuale debolezza dei CAE e del rischio del loro svuotamento, insito nelle ipotesi di direttiva allo studio, occorre al contrario rafforzare il ruolo dei CAE stessi come organismi sindacali transnazionali di base, che per svolgere efficacemente tale ruolo devono essere autenticamente rappresentativi.
3.7 Bisogna perseguire una maggiore sintonia tra i temi europei e quelli nazionali e, partendo da questo, sviluppare un potere di direzione, rafforzando il coordinamento della contrattazione collettiva come strumento primario per contrastare efficacemente le strategie politiche già in atto in numerosi paesi europei che rischiano di produrre un regresso delle condizioni contrattuali e lavorative e contro le strategie sindacali aziendali che puntano sul dumping sociale e sulle delocalizzazioni.
3.8 Bisogna inoltre, per rafforzare la rappresentanza della CES in una Europa che invecchia, che la Ferpa ne faccia parte con piena titolarità.
3.9 Considerando che l’obiettivo è quello di creare uno spazio contrattuale europeo, per rafforzare l’identità sindacale europea e per sostenere lo sviluppo della contrattazione collettiva a tutti i livelli, è opportuno per le Confederazioni nazionali e le Federazioni di categoria proseguire una riflessione sul trasferimento di competenze e poteri dal livello nazionale a quello europeo, ed è quindi importante che la CES promuova questa analisi e spinga a maturazione queste scelte.

3^ TESI
DIFENDERE LA COSTITUZIONE. COMPLETARE LA TRANSIZIONE POLITICO- ISTITUZIONALE.

1. La Costituzione nata dalla Resistenza, i suoi principi fondanti, i suoi valori, la stessa centralità che assegna al lavoro, rappresentano un patrimonio che la Cgil difende e difenderà dagli attacchi che già le sono stati portati – attraverso le modifiche in corso di votazione in Parlamento – e che, per la loro vastità, intaccano e si riflettono anche sulla prima parte, quella relativa ai valori fondanti.
1.1 Gli stessi tentativi revisionistici della Resistenza e della guerra di Liberazione – rispetto ai quali, allo stesso modo, la Confederazione si è opposta e si opporrà con assoluta determinazione – del loro significato e del loro valore, che hanno consentito proprio la definizione della Carta Costituzionale, rappresentano un elemento essenziale di questa operazione politica.
1.2 La Cgil sarà in campo nel referendum confermativo delle modifiche costituzionali con l’obiettivo di abrogarle. Esse, infatti, sono lesive dell’idea di democrazia e di coesione sociale che perseguiamo, in particolare relativamente al ruolo del cosiddetto premier, al suo rapporto col Parlamento, all’alterazione degli equilibri di potere, al ridimensionamento che investe la figura e il ruolo del Presidente della Repubblica; all’effettiva universalità di diritti fondamentali e alla stessa unità nazionale. C’è quindi una nostra opposizione di principio perché vediamo seriamente minacciate le regole fondanti e l’equilibrato contrappeso dei poteri istituzionali che hanno garantito la nostra democrazia e la ricostruzione del paese e, contemporaneamente, una necessità di difendere concretamente gli interessi delle lavoratrici e dei lavoratori, delle pensionate e dei pensionati che rappresentiamo.
1.3 La difesa della Costituzione deriva dalla sua straordinaria attualità e lungimiranza, ma anche dal carattere altamente rappresentativo della sua originale scrittura che testimonia, appunto, di quanto sia importante che la Carta fondamentale abbia il consenso più largo possibile, rappresentativo della pluralità delle culture e delle opinioni politiche. Per questo, la Cgil ritiene che anche le modifiche che si ritengano utili apportare – fermo restando l’assoluta impossibilità di intervenire sulle parti che ne segnano l’identità valoriale – non possano essere approvate dalla sola maggioranza parlamentare.
1.4 In questo senso i problemi che permangono - relativamente alla riforma del titolo V operata nella passata legislatura e che non potessero essere risolti con legislazione ordinaria - dovranno essere affrontati rigorosamente in questa prospettiva. Si tratta di problemi a suo tempo irrisolti e da noi puntualmente segnalati; attengono al corposo contenzioso aperto presso la Corte Costituzionale relativo al conflitto di attribuzioni; ci vengono consegnati dall’esperienza concreta di questi anni. Vanno affrontati, però, con una linea dettata dal rifiuto di ogni logica devoluzionista e dalla riconferma dell’importanza dell’idea federalista dello Stato, coniugata in modo indissolubile con i principi della coesione sociale e della solidarietà.
1.5 Anche i problemi legati alle modalità dell’utilizzo dello strumento referendario in materie non costituzionali, richiederanno soluzioni largamente condivise. Il tema della difesa dello strumento referendario - alla luce delle ripetute occasioni nelle quali è stato vanificato dal mancato raggiungimento del quorum - è assolutamente di prima grandezza. E questo non solo in quanto rappresenta di per sé sempre uno strumento di partecipazione diretta delle cittadine e dei cittadini, ma perché diventa ancor più essenziale e insostituibile in un assetto politico-istituzionale di tipo bipolare. Occorrerà, pertanto, ridefinire un nuovo equilibrio fra il numero di firme necessario per attivarlo e la percentuale di quorum richiesta.
2. Il processo politico-istituzionale, aperto dal bipolarismo, deve completarsi portando a compimento la lunga transizione politico-istituzionale avviatasi con la cosiddetta fine della prima repubblica. Ciò deve avvenire nel pieno rispetto dei principi e dei valori sanciti dalla nostra Costituzione. E’ in questo quadro e nella consapevolezza di vivere in una società sempre più complessa e in un’economia globalizzata - nelle quali i temi della democrazia e della partecipazione rischiano di perdere centralità - che vanno collocati ed esaltati ruoli e funzioni della rappresentanza politica e sociale e le garanzie delle rispettive autonomie. Si tratta di rendere ancor più netto nel sistema bipolare il ruolo degli schieramenti politici, quali aggregazioni portatrici di strategie programmatiche alternative; delle forze politiche, quali soggetti insostituibili della determinazione democratica della politica che assegna loro la Costituzione; delle forze sociali, quali espressione alta della rappresentanza degli interessi e portatrici di autonomi valori.
2.1 Si tratta di rendere possibile e praticabile un’idea alta del ruolo e delle funzioni dei soggetti della rappresentanza, nel pieno rispetto delle diverse prerogative e reciproche autonomie. C’è bisogno, in sostanza, di più politica sia nella sfera della rappresentanza partitica, sia in quella sociale, senza alcun timore di sovrapposizioni, sconfinamenti, cadute di autonomia. E quando ci riferiamo alla sfera sociale, parliamo certamente del sindacato, ma anche di quell’importante mondo dell’associazionismo, del volontariato, dei movimenti che tanta parte rappresentano del tessuto della società. Occorre uno sforzo di tutti e un’assunzione di responsabilità di ognuno, poiché quella ricostruzione del paese, al centro della proposta politico-programmatica della Cgil, si renda compiutamente possibile. Più politica, perché solo così si suscita e si rende concretamente praticabile la partecipazione; più politica, come unica democratica risposta al governo dei giganteschi processi di trasformazione che già sono in atto e che si presenteranno, con ancor più forza, nel prossimo futuro; più politica come strategia di reazione ai fenomeni di concentrazione dei poteri nell’economia e nella società e che rischiano di limitare la democrazia nel mondo contemporaneo.
2.2 Più politica, affinché il tema lavoro e la sua centralità torni ad essere elemento fondante di un modello di società. In questi anni abbiamo assistito ad un processo politico e culturale teso a mettere in discussione il valore lavoro. Esso ha coinciso con i processi di globalizzazione dell’economia contrassegnati da un’idea di fondo neo-liberista che assegna a un mercato senza regole un primato assoluto e dà una interpretazione sbagliata e strumentale della considerazione che i giovani avrebbero del valore lavoro. Ha coinciso anche con il venir meno del vecchio assetto politico e con la fine dei partiti di massa, così come li abbiamo conosciuti per quasi mezzo secolo. Centralità del lavoro, quindi, anche nella sfera della rappresentanza politica.
2.3 Occorre battere ogni idea di democrazia plebiscitaria nella quale tutto si riduce a un esclusivo rapporto fra eletto ed elettore che esclude ogni forma organizzata di partecipazione. E’ questo il rischio al quale il centro-destra ha sottoposto il paese attraverso una logica maggioritaria esclusiva, tesa a ridurre il ruolo e la sovranità del Parlamento – attraverso il continuo ricorso al voto di fiducia e, soprattutto, allo strumento della legge delega –; ad annullare il ruolo delle regioni e delle autonomie locali – in una logica neo-centralista che ha determinato serissimi problemi nei rapporti interistituzionali -; a marginalizzare i corpi intermedi della società - in particolare il sindacato, la sua funzione di rappresentanza. Questa politica avrebbe addirittura sanzione costituzionale con la riforma in votazione al Parlamento.
2.4 I compiti e le funzioni del sindacato debbono svolgersi e svilupparsi nella pienezza della propria autonomia e in un quadro di relazioni sindacali, certo ed esigibile, con il complesso delle controparti, chiaramente definito e regolato. E a questo è finalizzato, da sempre, l’obiettivo della Cgil di una Legge sulla rappresentanza e rappresentatività. Per quanto attiene al rapporto con le controparti pubbliche ai vari livelli occorre, in particolare, definire le modalità che consentano alle parti sociali la partecipazione ai processi decisionali. E’ il caso di scelte già compiute in occasione di definizione di taluni statuti regionali nei quali si sono, appunto, previste esplicitamente forme e modalità di partecipazione del sindacato. E’ il caso di una possibile rivisitazione dei ruoli del Cnel e dei Crel che possono essere utilmente destinati ad aiutare il normale processo di relazioni tra le parti. Sedi, quindi, istruttorie e di studio a supporto della contrattazione e del confronto programmatico.

4^ TESI
L’ITALIA E LA SUA CRISI. IL PROGETTO DELLA CGIL

1.La trasformazione e la ricostruzione del paese implica la definizione e l’assunzione di alcune idee forza, di valori, di principi e di nuovi paradigmi sui quali costruire una ipotesi politica all’altezza della sfida che il cambiamento impone. La costruzione della società della conoscenza e la valorizzazione del lavoro come fattore di innovazione e sviluppo, l’estensione dei diritti come fattore di uguaglianza e libertà, la sostenibilità sociale e ambientale dello sviluppo costituiscono i capisaldi per la definizione di un progetto alto, per il quale non è possibile ripercorrere le strade del passato.
Questi stessi principi definiscono l’identità del modello sociale europeo, che sempre più deve essere fondato sul Welfare come fattore di equità sociale e sulla qualificazione e avanzamento delle specializzazioni produttive, come fattore di competitività.
Il processo di integrazione europea va proseguito in stretto ancoraggio agli obiettivi di Lisbona, pensando, nel quadro dell’allargamento, all’articolazione di più velocità con forte coordinamento sul piano delle politiche economiche e fiscali.
Si propone con forza l’urgenza di costruire politiche sociali per l’Europa, finora residuali rispetto alle politiche di sviluppo economico.
Occorre ovviare all’insufficiente disponibilità finanziaria della UE attraverso strumenti, attualmente assenti, di politica economica per la formazione e la redistribuzione del reddito, la modulazione della domanda aggregata ed il sostegno al sistema produttivo. Ciò significa dotare la UE di una propria politica fiscale e di un bilancio adeguati, di una politica delle entrate e della spesa, per la riqualificazione della matrice produttiva. Ciò può essere realizzato attraverso la definizione di un DPEF e di un bilancio europeo assai più consistente, tale da consentire la gestione di adeguate politiche anticongiunturali e di sviluppo che non è più possibile perseguire in modo efficace solo a livello nazionale. Tale processo dovrà essere accompagnato da una riforma del sistema che regola i rapporti tra i governi degli Stati membri, la Commissione Europea e il Parlamento Europeo e le rappresentanze sociali tale da rendere possibile la partecipazione e l’acquisizione del consenso sulle scelte che si compiono da parte dei cittadini, al fine di favorire la crescita ed il consolidamento di una appartenenza e di una identità europea ancora non presente in gran parte della cittadinanza Europea.
L’economia italiana è caratterizzata dalla crescita più bassa nella UE, da un andamento negativo dei saldi della bilancia commerciale, delle esportazioni extra UE a differenza degli altri paesi europei, dal crescente disavanzo della bilancia tecnologica, dal peggioramento delle condizioni materiali di lavoratori e pensionati e dall’acuirsi delle disuguaglianze sociali. Mentre gli altri paesi europei si sono integrati verso l’alto, rafforzando le componenti a maggiore valore aggiunto legate ai beni intermedi e di investimento, l’Italia si caratterizza sempre più per la finanziarizzazione e immobiliarizzazione degli investimenti e resta ancorata ad una specializzazione produttiva legata ai beni di consumo, in declino nel commercio internazionale, caratterizzati da una elevata elasticità di prezzo e da una crescente concorrenza dei paesi asiatici.
Occorre individuare quali possano essere le misure e gli interventi possibili per affrancarsi dalla bassa specializzazione delle imprese che sostanzialmente importano tutte le tecnologie e i beni di investimento e intermedi. In tale situazione l’indistinto sostegno agli investimenti delle imprese non fa che confermare le attuali specializzazioni produttive. A ciò si aggiunga una difficoltà a tradurre i risultati della ricerca nella creazione di nuove filiere produttive nei settori in cui siamo assenti.
Per essere nei settori innovativi occorrono consistenti investimenti a redditività differita, per superare le barriere di ingresso e dunque politiche pubbliche mirate e il sostengo selettivo del sistema finanziario.
L’Europa deve sostenere e impostare piani per la ricerca e le infrastrutture materiali e immateriali da finanziare con euro bond: il nostro Paese deve essere dentro questi progetti, individuando le eccellenze e le priorità. In questo quadro, investire sul welfare è una delle chiavi decisive per realizzare lo sviluppo.
2.E’ necessario ridefinire un nuovo modello di sviluppo, attraverso una nuova politica economica e dei redditi che abbia come obiettivi centrali condivisi:
- l’equità nella redistribuzione della ricchezza che in questi anni si è tanto concentrata da rendere prioritaria l’esigenza di politiche pubbliche restitutive a sostegno dei redditi da lavoro dipendente e da pensioni;
- l’avanzamento e la qualificazione delle specializzazioni produttive e della crescita della produttività per consentire il passaggio all’economia della conoscenza, in un contesto di coesione sociale;
- la valorizzazione del lavoro come fattore di innovazione, come aspetto decisivo della libertà e dell’autorealizzazione delle persone, dell’eliminazione delle aree di esclusione sociale, soprattutto delle giovani generazioni;
- i benefici derivanti dall’innalzamento dei livelli complessivi di istruzione del nostro paese e l’affermarsi di un vero e proprio sistema di istruzione e formazione per l’intero arco della vita.
Questo il significato oggi di politiche industriali: a partire da un straordinario investimento in formazione e ricerca, l’emergenza della trasformazione del sistema assume valore prioritario, in una tensione sinergica del pubblico, dell’impresa e del lavoro, dove al pubblico spetta il compito della programmazione democratica e partecipata.
Occorre dunque finalizzare a questo obiettivo:
2.1. La ricostruzione di un ciclo di ricerca di base nei settori strategici che consenta la formazione del serbatoio di conoscenza fondamentale, propedeutico alla leadership tecnologica.
2.2. L’individuazione di grandi progetti nazionali (dentro un quadro europeo seda alla quale compete la macroprogrammazione), limitati nel numero ma di grande valore strategico sul piano del contenuto tecnologico e sul piano delle interconnessioni e implementazione che devono essere in grado di generare (P.A. ricerca pubblica ricerca privata ecc.). Un’intelligente sinergia tra ruolo del pubblico e delle imprese, sulla base di progetti di grande innovazione e qualità, cofinanziati da risorse pubbliche e private è rappresentata dalla recente approvazione francese del piano nazionale per la competitività.
2.3. Il rafforzamento degli attori economici attraverso interventi che sostengano la crescita dimensionale delle imprese, che premino i progetti che fanno sinergia e unità tra imprese, centri di ricerca, Università, territorio e che privilegino quelle imprese impegnate in processi di ricapitalizzazione.
Si pone anche con grande attualità il problema politico del ruolo dell’impresa cooperativa. A tale proposito è necessario un rinnovato e più moderno rapporto tra la funzione economica dell’impresa cooperativa, il funzionamento dei rapporti con i soci e il sistema di relazioni sindacali e di regole dei rapporti di lavoro.
2.4. La messa in operatività dei distretti industriali sul versante dell’innovazione.
2.5. Il rinnovamento delle relazioni industriali e lo sviluppo del modello contrattuale e salariale.
2.6. La centralità del tema della democrazia economica e dunque delle regole, dei percorsi e degli strumenti di un sistema partecipato, nel quale l’espressione di un’etica nei comportamenti dell’impresa si materializzi attraverso la responsabilità sociale e quindi nella disponibilità alla condivisione delle scelte, nel pieno rispetto dell’autonomia e delle prerogative delle parti. Coerente con questo obiettivo è una definizione della governance sul piano delle regole, della trasparenza e del conflitto di interessi.
2.7. L’avvio di un radicale cambiamento nel mondo dei servizi all’impresa, all’interno di una rinnovata politica industriale. La necessità di qualificare l’intera struttura economica e produttiva rende indispensabile un adeguato sistema di servizi di qualità tecnologicamente avanzati, con operatori professionalizzati, cancellando la logica del contenimento dei costi fondata sul basso costo del lavoro e sulla riduzione dei diritti realizzata con gli appalti al massimo ribasso.
2.8. Le scelte sulle infrastrutture materiali e immateriali, a partire dal Mezzogiorno, sul sistema scolastico e formativo, sul Welfare.
3.La finanza pubblica va rimessa sotto controllo ricreando le condizioni di una cultura diffusa di trasparenza e governo dei conti pubblici: risanamento e sviluppo si alimentano reciprocamente e contemporaneamente. Nell’emergenza di questa crisi sono improponibili politiche dei due tempi, da qualunque versante esse decidano di partire: non si possono frenare gli investimenti per ragioni di bilancio, mentre una spesa pubblica di qualità e selezionata deve essere strumento attivo per lo sviluppo.
Tale alimento reciproco non può che realizzarsi attraverso una nuova distribuzione dei prelievi che renda disponibili risorse da finalizzare alla crescita, all’aumento del benessere dei cittadini e un guadagno di efficienza ed efficacia della spesa.
Il prelievo fiscale costituisce uno strumento redistributivo del reddito capace di ridurre disuguaglianze e sperequazioni. Negli anni ‘90 si sono diffuse in Occidente, a partire dagli Stati Uniti la riduzione del prelievo fiscale e il taglio del bilancio pubblico, rendendo così inevitabile una corrispettiva riduzione e privatizzazione dei servizi sociali.
La pressione fiscale non può essere ridotta ma dovrà cambiare l’incidenza delle diverse imposte, realizzando interventi che spostino il carico fiscale e contributivo dal lavoro e dagli investimenti verso le rendite. La CGIL rivendica come elemento fondamentale di giustizia ed equità sociale l’aumento della tassazione delle rendite finanziarie e immobiliari, la tassazione delle grandi ricchezze e il ripristino della precedente imposta di successione. La tassazione delle rendite in Italia è infatti significatamente più contenuta di quella Europea tanto che un allineamento parziale al 23% darebbe entrate addizionali pari a quasi 4.5 miliardi di euro.
L’equità di un sistema fiscale è data dalla misura della sua progressività, prevista dalla Costituzione e oggi limitata ai redditi da lavoro e pensione: tale carattere va ripristinato rivedendo l’imposizione sulle persone e ristabilendo quella finalità redistributiva che un sistema fiscale deve avere sia direttamente sia come alimentatore di risorse per un welfare inclusivo in grado di garantire, in chiave universalistica, soddisfacenti standard qualitativi ai servizi sociali. Il soggetto pubblico deve essere messo in condizione di svolgere in pieno il proprio ruolo all’interno della nuova politica dei redditi.
In questo quadro si pone il cosiddetto “federalismo”. La sua missione non può che essere quella di strumento per l’unità sociale e civile del paese, attraverso il pieno finanziamento delle funzioni trasferite al sistema delle Regioni e delle Autonomie Locali e attraverso il fondo perequativo, finalizzato a garantire sostegno alle realtà più svantaggiate. Le funzioni statali, a partire dai livelli essenziali “uniformi e universalistici” delle prestazioni , devono avere garanzie di finanziamento su tutto il territorio nazionale.
L’inflazione incide pesantemente sui redditi da lavoro e pensione aumentando le disuguaglianze, erodendo il potere di acquisto e incidendo pesantemente sulla determinazione dell’imponibile (drenaggio fiscale). Per attutirne l’impatto, è necessario evitare il fenomeno dello slittamento degli scaglioni di imposta, facendo pagare le tasse su base reale anziché nominale. Occorre infine rivedere l’intero sistema delle deduzioni per risolvere il problema degli incapienti.
La ripresa di una lotta credibile contro l’evasione e l’elusione fiscale è determinante: la CGIL giudicherà la politica fiscale di un governo sulla base di quali e quanti interventi esso ponga in essere per affrontare seriamente questo endemico problema, devastante per le condizioni materiali dei lavoratori, diffusore di una perversa cultura dell’illegalità, distorcente regole e relazioni nella concorrenza.
4.Le politiche pubbliche devono mantenere un peso decisivo nella regolamentazione del mercato e un fondamentale potere decisionale in campo economico, attraverso la politica di bilancio, la definizione di standard normativi, il controllo dei monopoli naturali, finalizzato a garantire l’universalità dei servizi e dei diritti.
Per affrontare compiutamente il tema dello sviluppo bisogna affrontare il tema della penetrazione delle criminalità organizzata nell’economia in una parte consistente del Paese. Occorrono misure particolari, per affermare la legalità del funzionamento delle Amministrazioni Pubbliche e delle imprese, secondo le proposte emerse in molte iniziative di categoria e di territorio e per ultimo nella Conferenza di Palermo.
L’agenda delle riforme necessarie presuppone la ridefinizione dell’intervento pubblico in economia anche al fine di rendere il mercato più regolato e trasparente.
L’intervento pubblico va riorientato sia per mettere a punto nuove politiche industriali capaci di innovare, rafforzare e spostare in avanti, verso filiere tecnologiche più avanzate il nostro apparato produttivo di beni e sevizi, sia per garantire un mercato concorrenziale: vanno costruite le condizioni per un dinamismo economico di supporto alle imprese attraverso modelli di ricerca sviluppo, formazione, innovazione e trasferimento tecnologico.
Le regole che presiedono direttamente o indirettamente al corretto e trasparente funzionamento del mercato e delle singole imprese (diritto societario, diritto fallimentare, legge sulla tutela del risparmio, indipendenza delle Autorità di controllo), costituiscono un aspetto decisivo per l’ammodernamento del sistema economico italiano, oggi il più arretrato fra tutti i paesi sviluppati dell’occidente.
Capitoli centrali di questo ammodernamento sono gli indirizzi generali sulle politiche tariffarie di servizi strategici come le comunicazioni e l’energia e l’uso delle leva fiscale come strumento di contenimento del loro prezzo finale. E’ ormai improcrastinabile la liberalizzazione degli ordini professionali, indispensabile al fine di rompere gli steccati che cristallizzano la società italiana, di ridurre il peso dei poteri delle lobbies che innalzano i costi riducendo l’efficienza del sistema, di creare le condizioni per pari opportunità di accesso dei giovani a attività di elevato contenuto professionale.
5. Le privatizzazioni dei servizi a rilevanza industriale (energia, trasporti, telecomunicazioni, ecc.), così come realizzate negli anni scorsi, non hanno favorito la nascita di nuovi soggetti economici, né di investitori istituzionali e in alcuni casi hanno concentrato posizioni di rendita e di potere in poche mani. Esse hanno acuito il conflitto di interessi largamente presente nella nostra economia, hanno sottratto risorse al core business delle imprese acquirenti a favore di rendite nei mercati protetti, hanno addossato alle società acquisite un pesante indebitamento, con forti penalizzazioni sugli investimenti di queste in innovazione e ricerca. Esse dunque hanno rappresentato un’occasione mancata per migliorare i servizi ai cittadini e alle imprese e per l’attuazione di una politica industriale centrata sull’innovazione della struttura economica italiana, che risulta così più arretrata e meno attrezzata alle sfide della competizione.
Le distorsioni che si sono prodotte vanno ripensate criticamente e superate in avanti compiendo scelte che non antepongano l’esigenza di cassa ai processi di privatizzazione, decidendo strategicamente in quali settori sia giusto mantenere, nel quadro di un sistema liberalizzato, la presenza di proprietà pubblica, ristabilendo l’ordine temporale di liberalizzazione e privatizzazione. In ogni caso, nei settori a rete, va garantita la terzietà delle imprese proprietarie delle reti e un rafforzamento dei poteri dei regolatori pubblici.
Per quanto riguarda le imprese pubbliche locali, fornitrici di servizi strategici per le imprese e per i cittadini, possono e devono essere attori economici di nuove politiche industriali se si impegnano in processi di fusione che ne garantiscano la crescita dimensionale, la qualità delle prestazioni e la capacità competitiva, che consentano importanti investimenti tecnologici in grado di modernizzare e qualificare l’infrastrutturazione, soprattutto nel Mezzogiorno, superando così le logiche di finanziarizzazione che pure si sono determinate a scapito della qualità, per rendere praticabili gli obiettivi di riduzione nel consumo di acqua ed energia, produzione dei rifiuti e salvaguardia dell’ambiente.
Un’attenzione specifica merita il tema dell’acqua, che è un fondamentale bene comune.
Esternalità positiva è rappresentata dai servizi finanziari che dovrebbero facilitare lo sfruttamento delle opportunità di crescita e l’accesso alle innovazioni, favorire l’apertura degli assetti proprietari anche in funzione della crescita dimensionale delle imprese.
Il sistema bancario, tuttavia, manifesta evidenti debolezze soprattutto sui terreni, fondamentali a questi fini, della gestione finanziaria e della riorganizzazione societaria. Il suo vero fallimento è stato quello di non aver saputo intervenire nella ricostruzione degli assetti proprietari in un contesto – quello del nostro paese – in cui a una elevatissima flessibilità del lavoro corrisponde una assoluta rigidità del capitale. Le banche italiane, malgrado i progressi realizzati in questi anni, sono ancora largamente inadeguate. Il ruolo svolto nelle crisi industriali le ha portate a diventare, attraverso la conversione dei crediti in compartecipazione, azioniste di larga parte del sistema produttivo italiano. Risulta centrale disporre di alcuni grandi istituti di dimensione europea capaci di promuovere e accompagnare l’internazionalizzazione del sistema produttivo italiano, di svolgere un ruolo indispensabile a sostegno della sua riorganizzazione e della creazione di nuove filiere tecnologiche che richiedono l’impiego di ingenti risorse a redditività differita e dunque l’apporto di rilevanti investimenti a lungo termine. La politica portata avanti dalla Banca d’Italia non ha aiutato tale processo e non ha innovato le banche italiane rispetto ai loro competitori continentali, anche se è dimostrato che le stesse, quando ne hanno la forza, possono diventare protagoniste di grandi alleanze internazionali.
6. La valorizzazione e la finalizzazione dell’intervento pubblico al rilancio anche qualitativo del sistema Italia deve coinvolgere le Pubbliche Amministrazioni, nelle loro componenti:
- l’intervento pubblico sul sistema dei beni comuni e del welfare (istruzione, scuola, salute, acqua), riaffermando una unitarietà della potestà pubblica che inquadri in un “agire comune” il sistema dei poteri in campo sociale collocato oggi ai diversi livelli istituzionali;
- l’intervento pubblico per l’innovazione e la ricerca che caratterizzi la qualità del sistema produttivo, definendo le necessarie nuove regole e identificando strutture che semplifichino il rapporto tra pubblica amministrazione e imprese, senza destrutturate il sistema di regole che attualmente è alla base di uno sviluppo centrato su qualità e sostenibilità.
Anche per il lavoro pubblico, così come per quello privato, vanno rimosse le politiche che ne hanno ampliato la precarietà. E ciò richiede lotte che pongano la questione al primo posto delle piattaforme.
Infatti, la qualificazione dell’intervento pubblico dipende fortemente da una rinnovata centralità del lavoro pubblico che ha quattro grandi opportunità: garantisce i diritti fondamentali delle persone, produce sviluppo, favorisce l’insediamento produttivo, è frontiera e presidio della legalità.
Il Governo Berlusconi, asservendo totalmente la struttura amministrativa e burocratica alla politica, ha cancellato il principio di terzietà e imparzialità della P.A. e, di fatto, ha contraddetto la scelta, che ribadiamo fortemente, di separare l’amministrazione, cioè la gestione, dalla politica.
7. Cruciale per uno sviluppo diverso è un sistema formativo di qualità, basato sul diritto allo studio universalmente garantito, che offra a tutti pari opportunità nell’accesso a una buona scuola pubblica, che assuma il successo scolastico e formativo come una priorità che si estenda all’età adulta, in un’ottica di formazione per tutto l’arco della vita. La politica del centrodestra, imponendo un modello rigidamente duale basato su meno istruzione pubblica e sulla discriminazione economica, sociale e culturale di appartenenza, ha leso diritti, costituzionalmente garantiti, di inclusione sociale e di cittadinanza, la cui priorità va assicurata, cancellando e sostituendo i provvedimenti adottati su scuola, università e ricerca, anche con l’intento di realizzare gli obiettivi di Lisbona, nei confronti dei quali l’Italia accusa un gravissimo ritardo.
In questo quadro, l’obbligo scolastico a 16 anni, come primo provvedimento della nuova legislatura, per poi portarlo entro la fine della stessa a 18 anni, con le conseguenti modifiche nella legislazione sul mercato del lavoro, è un obiettivo fondamentale per elevare il livello culturale del nostro paese e per evitare il rapido scivolamento nelle posizioni marginali dello sviluppo e per scommettere nei percorsi successivi su una professionalità più alta e versatile.
L’autonomia di scuole, Università e enti di ricerca, sancita dalla Costituzione, rappresenta una scelta di grande valore e uno strumento indispensabile per innalzare i livelli di conoscenza e per impedire un incremento della frantumazione sociale.
La società della conoscenza deve fondare la sistematica capacità di innovazione del sistema produttivo su un’ampia diffusione del sapere critico. Solo persone capaci di continuare autonomamente ad apprendere non si sentono minacciate dall’innovazione e possono comprenderla e promuoverla. Del resto, in un ambiente soggetto a cambiamenti continui, le nozioni possedute sono soggette a rapida obsolescenza. Per questo occorre triplicare, in un lasso di tempo certo, il numero dei laureati, con particolare riguardo alle materie scientifiche e tecniche (con ciò superando il gap che ci separa dagli altri Paesi europei).
Occorre inoltre che il sistema formativo abbia come obiettivo primario una formazione che consenta l’aggiornamento ricorrente delle proprie conoscenze, così come occorre sviluppare un sistema di educazione e formazione permanente in tutto l’arco della vita. In questo quadro il sindacato deve porsi i seguenti obiettivi: sviluppare la formazione continua, anche attraverso l’utilizzo qualificato dei Fondi interprofessionali, rafforzare i diritti di accesso individuale alla formazione, saldare l’attivazione dei percorsi formativi con lo sviluppo degli inquadramenti.
8. In Italia si fa sempre meno ricerca. La contrazione della spesa sia da parte del Governo, che si è scaricata con effetti pesanti sull’attività delle Università e degli Enti di Ricerca, stringendo il personale in una morsa crescente di precarietà, sia da parte delle imprese private è la causa principale della scarsa o nulla capacità di innovare che caratterizza negativamente il nostro sistema economico, della conseguente perdita di competitività e della caduta delle nostre esportazioni.
Occorre, dunque, riportare in tempi certi il rapporto tra spesa per la ricerca e PIL alla media europea, incrementando gli investimenti nella ricerca universitaria e degli Enti pubblici di ricerca, fondamentale per quanto riguarda in particolare la ricerca di base, incentivando la ricerca attiva delle imprese, anche favorendo aggregazioni di imprese minori che abbiano questo obiettivo.
L’innovazione è la risultante di una crescita del livello di conoscenza della popolazione adulta, di un consistente progresso nella ricerca di base, di un processo di cooperazione tra soggetti pubblici e privati. Occorre acquisire al sistema nuove conoscenze e incorporare innovazione nei cicli produttivi, innalzando così la qualità delle produzioni.
Si tratta di una vera e propria produzione di beni immateriali collettivamente fruibili e disponibili per la competizione economica, che preveda il rafforzamento delle scelte di politica scientifica e di politica industriale per l’innovazione.
E’ questo un problema che deve essere affrontato con un incremento della spesa pubblica per la ricerca e attraverso adeguati incentivi alla ricerca privata.
Le risorse pubbliche per la ricerca vanno prioritariamente finalizzate a valorizzare la presenza italiana (centri pubblici, residua grande impresa, consorzi di piccole imprese) nei grandi progetti di ricerca europei, a organizzare grandi progetti nazionali di ricerca di base e applicata, a rafforzare, con forti incentivi, la ricerca universitaria e degli Enti di Ricerca anche in sinergia con le imprese, a sostenere i centri di ricerca ancora attivi nei grandi gruppi.
Anche a livello territoriale va sostenuta la collaborazione tra università, istituti di ricerca, sistemi di imprese e servizi finanziari specializzati (venture capital), incentivando le imprese a coordinarsi e cooperare per meglio accedere alle risorse della e per la ricerca, raccordandole con le politiche e le risorse per la formazione continua.
9. Per una nuova politica di sviluppo sostenibile è fondamentale la localizzazione sul territorio che si proponga di favorire il mutamento della specializzazione produttiva, l’innovazione tecnologica, la diffusione dell’informazione, specie per i distretti e le medie imprese, la promozione di centri di formazione e di conoscenza, lo sviluppo di strumenti assicurativi di copertura del rischio, la crescita dimensionale delle imprese, il rigore nel rispetto della legalità, la messa in sicurezza del territorio, il rispetto dell’ambiente, la valorizzazione del lavoro.
Occorre passare dalla gestione della crisi all’anticipo della domanda riconfigurando il tessuto produttivo e riannodando politiche pubbliche capaci di coniugare lavoro, diritti, stato sociale e prevedendo a tal fine strumenti operativi che facciano sistema tra i soggetti in campo.
Pertanto non servono politiche di finanziamenti individuali a pioggia ma vanno perseguiti, attraverso il coordinamento tra i diversi livelli istituzionali (regioni, stato centrale, UE), politiche di sostegno finanziario e organizzativo a programmi di sviluppo locale integrato. Ogni incentivo individuale e collettivo dovrà essere finalizzato alla formazione di reti cooperative che innalzino complessivamente la competitività di un determinato territorio e abbiano come obiettivo esplicito la qualità e la sicurezza del lavoro.
In questo quadro il sistema della autonomie – enti locali, scuola, università, ricerca – può svolgere un ruolo fondamentale nella costruzione dei sistemi territoriali di innovazione e offerta formativa.
Si tratta, in altri termini, di definire un modello di “ricerca e sviluppo” meditante un intervento dello Stato che sappia collegare ai grandi progetti europei i punti di eccellenza che tuttora permangono nel nostro paese e che sappia rendere fruttuoso il legame tra le università, le istituzioni scolastiche, i centri di ricerca, i centri di formazione professionale, le agenzie formative, le istituzioni locali e i sistemi territoriali di piccola-media impresa (nell’industria e nei servizi).
10. La sfida dell’innovazione è sfida per la valorizzazione del lavoro e di chi lo svolge: al lavoro povero corrisponde un’impresa povera (e viceversa), con un rapporto inversamente proporzionale tra dimensione e utilizzo delle nuove tecnologie. L’assenza di crescita della produttività totale dei fattori è dipesa dalla assenza di innovazione e la bassa crescita della produttività del fattore lavoro è dipesa dalla maggiore intensità delle prestazioni e dalla forte crescita di forme di lavoro atipiche e precarie. Limiti dimensionali delle imprese, specializzazione nelle attività tradizionali, bassa crescita nei mercati internazionali, delocalizzazioni delle imprese di settori manifatturieri maturi motivate dalla sola contrazione dei costi di produzione, debolezza della concorrenza, insufficienza del sistema dei servizi, finanziari e non: sono questi i punti di attacco per una politica industriale che ponga l’obiettivo di portare il paese fuori dal tunnel della recessione, dalla crisi di interi settoriali (auto e indotto, chimica di base, tessile abbigliamento calzaturiero, ecc.).
Anche per l’agroindustria, che assume un ruolo centrale data la consistenza dei sostegni pubblici in Europa e in Italia, bisogna puntare sull’ammodernamento, l’innovazione e la ricerca, abbandonando gradualmente obsolete politiche protezionistiche che affondano le radici nella storia economica italiana, in particolare nel Mezzogiorno.
A livello europeo, specie dopo l’allargamento, è ormai sul tavolo la questione delle percentuale del bilancio UE destinata all’agroindustria. Si pone, in questo quadro, la centralità del settore attraverso l’adozione di nuovi criteri di sostegno, la qualità delle produzioni, la sicurezza alimentare per i consumi di massa, l’abbattimento del costo della Politica Agricola Comune che si trasferisce sul prezzo dei beni di prima necessità e, quindi, sul potere d’acquisto dei salari e delle pensioni, la riconversione a favore delle politiche di sviluppo rurale. Il sistema della impresa agricola va normalizzato; vanno ricondotte a legalità la prestazione lavorativa e l’impresa, anche condizionandone i sostegni economici al rispetto di leggi e contratti.
Infine il turismo rappresenta una leva importante. Il settore va riorientato in direzione di un cambiamento, già espresso dalla domanda soprattutto straniera, attraverso il coordinamento della politica turistica che superi la parcellizzazione della promozione e punti su progetti integrati, come i sistemi turistici locali. A tale scopo occorre puntare alla destagionalizzazione dell’offerta, al rafforzamento delle reti turistiche meridionali, al recupero e valorizzazione dei beni culturali, storici, ambientali, all’innalzamento degli standard qualitativi dell’offerta complessiva, al potenziamento delle strutture di supporto, a partire dai sistemi di trasporto, alla qualificazione professionale dei lavoratori.
11. Il rinnovamento del paese passa è anche attraverso il riequilibrio territoriale. Il Meridione ha bisogno di più politiche pubbliche e di migliore qualità, attraverso l’attivazione di flussi significativi di risorse concentrati sull’innovazione, sulla diffusione e la qualità dei saperi, sulla costruzione del capitale sociale, su interventi infrastrutturali sostenibili. sul rilancio dell’azione di contrasto alla virulenta ripresa dell’iniziativa criminale delle organizzazioni mafiose. Va assunta la centralità dell’idea di sostenibilità economica, sociale ed ambientale dello sviluppo del mezzogiorno. E’ indispensabile ed urgente che lo Stato e le autonomie locali compiano scelte nette a tutela della legalità, anche attraverso il rilancio dell’azione di contrasto all’iniziativa criminale delle organizzazioni mafiose.
Per superare il degrado sociale particolarmente acuto nelle grandi aree urbane, è necessario costruire politiche rivendicative che anticipino ed accompagnino le grandi trasformazioni sociali e culturali e diano risposte alla crescente domanda di diritti.
La sfida/opportunità del rapporto tra l’allargamento dell’Unione Europea e la proiezione verso il Mediterraneo rappresenta un obiettivo importante anche per la Cgil.
La dimensione mediterranea, infatti, assume importanza strategica nella prospettiva dell’area di libero scambio che, a partire dal 2010, produrrà modificazioni profonde in tutta la regione.
Per questo alle questioni dello sviluppo del Mezzogiorno è organicamente collegato il progetto di un Mediterraneo grande mare di pace , che promuova il dialogo tra popoli e culture diversi in una logica di cooperazione e solidarietà.
12. La nostra proposta è quella di una politica industriale e dei servizi finalizzata alla costruzione di condizioni generali e specifiche favorevoli allo sviluppo. Si tratta, in primo luogo, di mettere a fattor comune la migliori energie e potenzialità disponibili nelle condizioni date, oggi troppo disperse per poter dar vita a progetti di crescita, in cui la produzione industriale mantenga un ruolo centrale. E’ una politica che penalizza la rendita, ovunque si annidi e valorizza gli investimenti produttivi a lungo termine.
A tali obiettivi è ancorata l’esigenza di una nuova politica di contrattazione confederale territoriale che, accanto alle materie del welfare, preveda anche quelle che attengono l’innovazione. Si tratta di attivare un modello di partecipazione nel territorio che arricchisca gli spazi di democrazia e valorizzi il ruolo del lavoro nel cambiamento.
13. Per sostenere lo sviluppo delle aziende più esposte alla competizione internazionale un ruolo fondamentale rivestono le infrastrutture materiali (porti, aeroporti, strade, ferrovie, reti, energia, acquedotti, telecomunicazioni). La competitività trarrebbe vantaggio dall’attuazione di un piano per l’intero paese, che colmi il profondo divario al sud, (a partire dalle urgenze del settore idraulico, dell’energia, dello smaltimento dei rifiuti) e superi le strozzature al nord. Il Sud, nel quadro di una riduzione generalizzata delle risorse destinate alle infrastrutture operata dalle Leggi Finanziarie del Governo Berlusconi, è risultato essere particolarmente penalizzato dalla riduzione degli investimenti, mantenendo invariato il differenziale infrastrutturale. La Legge obiettivo che avrebbe dovuto accelerare i progetti, si è rivelata, nei fatti, un autentico fallimento. Non ha consentito l’apertura di nuovi cantieri e, di fatto, ha bloccato quelli in essere, senza avere favorito, per altro, il necessario processo di qualificazione delle imprese e del mercato delle costruzioni, sempre più caratterizzato dal ricorso esasperato al subappalto e alla subcontrattazione.
14. Particolare attenzione va posta al sistema dei trasporti, ciascuna branca del quale presenta attualmente elementi di grande criticità e nel contempo potenzialità per lo sviluppo del paese. Occorrono regole, risorse finanziarie, programmazione di interventi, a partire dalla priorità delle autostrade del mare e del sistema dei porti, che, data la collocazione del paese sulle grandi direttrici dei traffici dall’Oriente, rappresenta un vantaggio competitivo naturale. Il paese ha bisogno di un trasporto aereo che non lo renda dipendente da quello degli altri paesi. Va risolta la crisi endemica del vettore nazionale, va perseguita un’alleanza internazionale, va razionalizzata la rete aeroportuale che tende a dilatarsi irrazionalmente. Vanno colte le opportunità offerte dall’alta capacità ferroviaria. Le Ferrovie italiane continuano a manifestare elementi di preoccupante criticità, malgrado le pesanti ristrutturazioni già intervenute. Il mantenimento dell’unicità dell’azienda e della sua capacità di investimento in tutti gli ambiti: rete, materiale rotabile per il trasporto merci e passeggeri rappresentano gli elementi che rendono possibile lo sviluppo del trasporto ferroviario essenziale per un sistema dei trasporti competitivo. Va affrontata l’emergenza del trasporto pubblico locale come priorità per una mobilità urbana sostenibile. Non è più rinviabile infine la riforma dell’autotrasporto per rilanciare il sistema logistico, attraverso provvedimenti per una razionalizzazione, anche con incentivi/disincentivi, nella movimentazione delle merci e dei semilavorati che, per effetto della trasformazione dei sistemi produttivi aumentano la necessità di trasporti, in particolare su gomma, e conseguentemente l’impatto sul territorio.
15.Una strategia di sviluppo deve proporsi di ribaltare “l’economia dello spreco” invalsa in questi anni, proponendo al contrario una economia del benessere, attenta all’uso sostenibile ed ottimale delle risorse. Essa va realizzata attraverso l’innovazione dei prodotti e dei processi, la riduzione del contenuto energetico e di materie prime per unità di prodotto, la manutenzione idrogeologica del territorio e la sua messa in sicurezza. Le Politiche integrate di prodotto possono essere un utile strumento per combinare innovazione di prodotto e competitività e una notevole opportunità in un sistema produttivo connotato da PMI e da filiere di prodotto complete.
Gli strumenti per la realizzazione di tali obiettivi debbono essere il coinvolgimento degli operatori (tecnici, ricercatori, ecologisti, personale sanitario, ecc.), la definizione di un idoneo quadro legislativo di sostengo ed una contrattazione aziendale e territoriale sul complessivo arco di temi che sostanziano la realizzazione di un progetto di sostenibilità.
La tutela dell’ambiente richiede un forte sistema integrato di protezione civile, che veda un ruolo attivo di tutti gli attori istituzionali (Stato, Regioni, Comunità Locali, Volontariato), dentro il quale va mantenuta e valorizzata nella sua funzione originaria, che il Governo vuole manomettere, la componente dei Vigili del Fuoco.
Il paese deve dotarsi di una politica energetica che assuma realmente i vincoli del protocollo di Kyoto. La CGIL considera prioritario l’obiettivo della riduzione delle emissioni di anidride carbonica, dello sviluppo della ricerca dell’utilizzo di fonti alternative e di serie politiche di risparmio, confermando la contrarietà alla costruzione di centrali nucleari con le attuali tecnologie. A questo vincolo prioritario si devono orientare tutte le misure volte a garantire la sicurezza di fornitura, riducendo la nostra dipendenza dall’esterno e diversificando le fonti di approvvigionamento, a partire dal petrolio (causa di tante guerre). Ciò anche al fine di colmare il differenziale di costo che grava sulla nostra economia. La privatizzazione della produzione e della distribuzione, le competenze concorrenti fra Stato e Regioni, hanno indebolito le sedi di governo del sistema. Senza rimettere in discussione radicalmente tali processi, è indispensabile ricostituire una regia nazionale che porti al superamento dei conflitti locali e garantisca la coesione sociale.
Investire con decisione nella sostenibilità significa investire sull’Italia, sulle sue risorse naturali, storiche, culturali ed umane. Anche in questo campo la ricerca può svolgere un ruolo fondamentale. La priorità dell’innovazione implica la rimessa in discussione di interessi consolidati dove, molto spesso, si annidano quelle posizioni parassitarie o di rendita che gravano sulla collettività. Sappiamo bene come tutto questo determina resistenze e reazioni anche conflittuali che troppo spesso riducono il Paese all’immobilismo. Per superare queste resistenze e favorire una graduale e progressiva riconversione di qualità del nostro sistema di produzione e di consumo riteniamo fondamentale lavorare per far maturare le indispensabili volontà e decisioni costituzionali e politiche. Nel contempo però riteniamo altrettanto indispensabile predisporre e rendere praticabili quegli strumenti e metodologie che consentano di integrare la dimensione economica con quella sociale ed ambientale al fine di consentire una valutazione complessiva, preventiva e condivisa della efficacia delle politiche di sviluppo.

5^ TESI
UNA OCCUPAZIONE SOLIDA E STABILE

1. Riportare ad unità il mondo del lavoro
1.1 Il mondo del lavoro e i suoi protagonisti sono al centro di un ampio processo di frantumazione e di riduzione dei diritti e delle tutele come mai da molti anni a questa parte.
All’interno di ampie trasformazioni tecnologiche e culturali che interessano la stessa base occupazionale italiana, assistiamo ad un’ampia frantumazione nel mercato del lavoro e nel lavoro: nel mercato attraverso una moltiplicazione delle forme contrattuali precarie, un’immersione di parte del tessuto imprenditoriale e una forte compressione dei salari e dei diritti individuali e collettivi, tanto nei settori privati che pubblici; nel lavoro, nei luoghi, nei tempi e nei modi del produrre, attraverso una parcellizzazione dei modelli aziendali e della catena del ciclo produttivo e dei servizi.
1.2 Si è giunti così anche alla vanificazione di leggi dal forte valore anche simbolico, come quella per il collocamento delle persone con disabilità, introducendo disposizioni che, anziché favorire l’inclusione sociale dei lavoratori più deboli, determinano la ghettizzazione degli stessi. Così come, dopo le lunghe, impegnative e positive lotte e acquisizioni sul piano contrattuale e normativo per la tutela della salute e sicurezza si è registrata una grave battuta d’arresto in materia, dovuta anche ad un affievolirsi dell’attenzione e della vigilanza del sindacato nei luoghi di lavoro, e soprattutto al venir meno di un ruolo efficace di vigilanza delle istituzioni pubbliche.
1.3 Conseguenze più dirette di questo processo culturale, produttivo, sociale e normativo sono infatti oggi: una condizione di precarietà nel lavoro che genera precarietà sociale; una riduzione della coesione sociale e un aumento dell’illegalità; un impoverimento del lavoro dipendente privato e delle pubbliche amministrazioni; un depauperamento delle competenze e delle professionalità; una riduzione degli strumenti e dei luoghi del sapere e della formazione strettamente connessi ad un lavoro di qualità; uno svilimento delle capacità e della efficienza delle amministrazioni pubbliche, con una riduzione del loro ruolo e della qualità dei servizi da esse erogati; una caduta nei livelli di sicurezza e prevenzione degli infortuni; uno svuotamento degli strumenti democratici e del ruolo dei soggetti collettivi in azienda e nel territorio; un tentativo di negare alla radice l’essenza stessa della confederalità che è alla base del movimento sindacale italiano.
1.4. Riportare ad unità il mondo del lavoro e rivendicarne il protagonismo e la visibilità; dare voce e maggiore rappresentanza anche al lavoro precario, al lavoro dipendente più povero, ai lavoratori emarginati sono le coordinate entro cui, per la Cgil, occorre declinare un “nuovo patto di cittadinanza”. Un patto che abbia come cardine il nuovo concetto di “lavoro economicamente dipendente” con la conseguente estensione dei diritti (e dei costi) attribuiti oggi al lavoro subordinato a tutte le fattispecie economicamente dipendenti dall’impresa (a partire dalle collaborazioni), concetto alla base delle proposte di legge di iniziativa popolare su cui la Cgil ha raccolto oltre 5 milioni di firme. Un patto che assuma da un lato il valore sociale, di emancipazione e di liberazione del lavoro come volano per un maggiore benessere, coesione e democrazia; dall’altro che faccia della qualità del lavoro il nesso inscindibile con una maggiore specializzazione del sistema economico, in una collocazione avanzata nel contesto della globalizzazione.
Questa era del resto l’intuizione e il portato più profondo, ancorché non compiutamente realizzato, della politica europea a partire dal Libro Bianco di Delors.
1.5 Non è un caso dunque se il lavoro è uno dei terreni su cui più organica è stata l’iniziativa del governo di centro-destra, inserendosi peraltro in un processo di precarizzazione dei rapporti di lavoro già in atto.
Il Libro bianco del governo Berlusconi disegna una società caratterizzata dall’indiscussa ed indiscutibile supremazia delle ragioni dell’impresa, che deve essere libera di competere nella globalizzazione senza vincoli, di costo e di diritti. Ai lavoratori, e alle loro organizzazioni sindacali, è preclusa ogni funzione paritaria nell’impresa; non solo il conflitto ma anche il semplice “confronto” è considerato come portatore di ritardi e causa di impacci competitivi. Al suo posto, ed al posto di un riconoscimento delle ragioni del lavoro nell’impresa, si suggerisce al sindacato uno spazio, eventualmente bilaterale con le imprese e le loro associazioni, in cui esercitare attività di servizio fino al collocamento e alla certificazione dei rapporti di lavoro. Quindi una uscita progressiva del sindacato dall’impresa, cui consegue la svalutazione del ruolo contrattuale del sindacato a favore degli spazi di contrattazione individuale e fittiziamente “paritari” tra lavoratore ed impresa.
Una decontrattualizzazione dei rapporti di lavoro, nel pubblico e nel privato, inaccettabile che porterebbe allo snaturamento della funzione contrattuale collettiva del sindacato confederale.
1.6 Base teorica di questo disegno è stata un’artificiosa contrapposizione degli interessi dei lavoratori tradizionali (gli insiders) cui si è voluto opporre gli interessi dei lavoratori irregolari o dei disoccupati (gli outsiders), sostenendo che la ragione della condizione dei secondi fosse l’eccessiva tutela dei primi.
L’attacco all’articolo 18, la concezione della “donna” come soggetto strutturalmente svantaggiato, del lavoratore disabile come “peso” per la competitività delle impresa, sono state la logica conseguenza di tutto ciò; emblemi, non unici, di una specifica visione ideologica della società e del rapporto tra lavoratori, cittadini ed impresa, così come prospettata nello stesso “patto di Parma” tra la Confindustria di D’Amato e il leader del centrodestra.
Si inserisce in questo disegno, del resto, il tentativo del governo, spalleggiato dalla parte più retriva del padronato italiano, di smantellare ulteriormente le tutele per la salute e sicurezza nel lavoro, con un’ipotesi di Testo Unico che è stato costretto a ritirare anche grazie alla mobilitazione dei lavoratori, degli RLS, dei sindacati, delle associazioni della prevenzione e di tanta parte del mondo giuridico e medico-scientifico
2. La proposta alternativa della CGIL
2.1 La Cgil è stata in campo contro questa impostazione ed ha il merito di aver contribuito a far sì che tale disegno, dalle ambizioni organiche, sia riuscito solo parzialmente, e che sia stato successivamente ulteriormente ridimensionato dall’esercizio, quasi sempre unitario, della contrattazione collettiva. Del resto basta citare tre dati di fatto per dimostrare l’iniquità, oltreché l’inefficacia, delle disposizioni e soprattutto della filosofia che le ha ispirate: il rallentamento della crescita occupazionale femminile rispetto a quella maschile; la progressiva perdita di competitività delle merci italiane nel contesto internazionale, nonostante esse siano prodotte nel cosiddetto “mercato del lavoro più flessibile d’Europa”; l’estensione ulteriore dell’area dell’economia irregolare, che quelle norme avrebbero dovuto spingere all’emersione (a partire dalle false collaborazioni);.
Quindi si deve e si può cambiare strada. Andare oltre la legge 30 significa ribaltarne l’intera filosofia: vanno infatti cancellate tutte le norme che precarizzano il rapporto di lavoro e favoriscono la destrutturazione e l’impoverimento dell’impresa; vanno cancellate le norme che indeboliscono la contrattazione collettiva; vanno cancellate le norme che alimentano ulteriori forme di svantaggio. Questo significa per noi cancellare la legge 30 e sostituirla con un sistema di norme e diritti complessivamente alternativo, partendo dalle nostre proposte.
2.2 Per questo la Cgil non si è limitata a denunciare la filosofia e le norme inaccettabili contenute nelle leggi del governo, ma ha articolato la sua battaglia su tre piani:
• Sul piano culturale, in difesa delle ragioni dei diritti del lavoro anche e proprio nella nuova congiuntura economica: prova ne sono, a sostegno della grande iniziativa contro la manomissione dell’art.18 e per i diritti al lavoro, le proposte di legge di iniziativa popolare su cui 5 milioni di uomini e donne hanno voluto condividere le nostre scelte; proposte caratterizzate da un’impostazione non solo di merito, ma anche culturalmente alternativa a quella del governo, che ne hanno così dimostrato gli ideologismi e le mistificazioni, a partire dai presunti “vincoli comunitari” alla base delle proposte del centrodestra.
• Sul piano contrattuale e di contrasto, impedendo l’ingresso nel mondo del lavoro delle forme più pericolose di precarietà (staff leasing, lavoro a chiamata), evitando unitariamente ogni stravolgimento degli enti bilaterali frutto della contrattazione ed evitandone la costituzione nei campi del collocamento e della certificazione dei rapporti di lavoro; contrattando, unitariamente nella stragrande maggioranza dei casi, affinché - per le tipologie d’impiego “tradizionali” - non si realizzassero le ipotesi di precarizzazione, in particolare per le donne, previste dalle nuove leggi, come nel caso del part-time, ed invece fossero accresciuti diritti e prospettive di stabilizzazione della condizione occupazionale, come è avvenuto per i contratti d’inserimento. Ciò naturalmente non ci può esimere dal contrastare ogni tentativo di relegare i rapporti a part-time, specie per le donne, in posizioni cui sia negata ogni prospettiva di crescita professionale e di inclusione nell’organizzazione del lavoro 35
• Sul piano della proposta e della interlocuzione dialettica con le forze politiche, a livello nazionale e delle Regioni, cercando di dare massima centralità alla dimensione del servizio pubblico da un lato, e del protagonismo dei soggetti collettivi e contrattuali dall’altro. Su quest’ultimo punto vale la pena ricordare le iniziative nazionali della CGIL alle cui piattaforme si fa esplicito rinvio e riferimento: sui servizi all’impiego e le politiche regionali sul lavoro; sulla politica del lavoro e i diritti; sulla conoscenza; sui diritti degli immigrati; sulle politiche di emersione, su salute e sicurezza nel lavoro.
Il semplice elenco dei temi contraddistingue un approccio organico globalmente alternativo alla filosofia liberista del centro-destra: rimettere al centro il valore sociale del lavoro e la sua “unità” vuol dire, infatti, fare i conti con l’area tanto dei “vecchi” che dei “nuovi lavori”.
2.3 Per questo proponiamo un concetto allargato della dipendenza economica come fondamento dei diritti, delle tutele e dei costi cui deve far fronte l’impresa, attraverso una ridefinizione di lavoratore ”economicamente dipendente” cui far corrispondere l’equiparazione dei diritti e dei costi.
Questo vuol dire fare del contratto subordinato a tempo indeterminato la normale forma di lavoro e di assunzione per l’ordinaria attività di impresa, e quindi limitare i contratti c.d. flessibili ad una mera eccezione. Vuol dire ridurre le tipologie non a tempo indeterminato, non solo attraverso interventi legislativi e contrattuali che puntino anche ad una loro progressiva stabilizzazione, ma anche attraverso un aggravamento del loro costo unitario.
Vuol dire riportare in “correlazione” diretta la fatica e l’impegno nel lavoro con una retribuzione giusta, con un corredo di diritti universali, indipendentemente dal nome contrattuale, estendendo così lo Statuto dei diritti dei lavoratori. Consapevoli che parte importante dei sistemi di welfare potranno innovarsi e ampliare la portata degli interventi, alla luce delle grandi trasformazioni avvenute, solo con più stabilità nel lavoro, oltreché con il riconoscimento che la stessa imparzialità della Pubblica Amministrazione si indebolisce se la prestazione lavorativa è svolta con tipologie precarie.
3. Contrastare la frammentazione delle imprese
3.1 Vuol dire che l’impresa va considerata nella complessa sfaccettatura che ne costituisce l’attuale configurazione. Esternalizzazioni, internalizzazioni, appalti, trasferimenti e cessioni d’impresa o dei suoi rami (così come il ricorso al lavoro temporaneo o in collaborazione) sono elementi di natura strutturale che vanno indirizzati, e non subiti passivamente. A cominciare dal contrastare, anche nei servizi pubblici, operazioni di esternalizzazione motivate dal solo risparmio sul costo del lavoro. Occorre quindi allargare i diritti di contrattazione, a cominciare da quelli di informazione/consultazione. A tale scopo, all’interno di una riflessione sugli accorpamenti contrattuali, serve introdurre il concetto di “codatorialità” nei confronti dell’intera catena di imprese interessate dalla filiera di esternalizzazioni, e renderle tutte complessivamente responsabili.
3.2 Analogamente e più in generale serve una profonda revisione delle norme sul socio-lavoratore, che ripristini almeno l’equilibrio raggiunto nella legge 142/01 prima delle modifiche della legge 30. Inoltre sugli affidamenti nella P.A., va affermato che i diritti tutelati costituzionalmente ed i servizi relativi ai beni comuni non possono essere esternalizzati nella gestione né affidati a strutture terze. Ma occorre fare di più, anche oltre ai meccanismi di affidamento in appalto: si deve evitare che l’impresa che esternalizza si possa poi disinteressare del lavoro e dei lavoratori che ha ceduto.
3.3 Occorre poi intervenire per evitare fenomeni di dumping contrastando uno svuotamento dei contratti collettivi attraverso l’impiego improprio della cooperazione e del terzo settore, come ad es. avviene con l’affido di commesse a cooperative in sostituzione di assunzioni regolari di lavoratori con disabilità. Rimane ferma per la Cgil, infatti, la continuità delle politiche volte all’integrazione “vera” dei cittadini e delle cittadine con disabilità, anche causata dal lavoro, attraverso servizi efficienti di orientamento e formazione, capaci di valorizzare la professionalità delle persone con disabilità e contrastando azioni di discriminazione diretta e indiretta che possono pregiudicare la possibilità o la conservazione di una occupazione. L’esclusione dal mercato del lavoro delle persone con disabilità può avvenire attraverso una negazione di diritti quali istruzione, assistenza, trasporto: la Cgil si attiverà affinché nei territori siano concertate con gli Enti preposti politiche contrattuali rivendicative di una piena occupazione delle persone con disabilità attraverso l’abbattimento di barriere fisiche e culturali e l’istituzione di servizi di accompagnamento, tutor e interventi sull’organizzazione del lavoro.
3.4 Occorre assumere l’importanza del sapere e della formazione all’interno di un sistema scolastico e universitario accessibile per tutti e di qualità come elemento centrale e strettamente intrecciato ad un modello solidale di mercato del lavoro e ad uno sviluppo di qualità. Si pone qui l’impegno di modificare la legislazione sul lavoro dei minori in stretta connessione con il contrasto ad ogni forma di lavoro minorile e con l’obiettivo del raggiungimento, nella legislatura, dell’obbligo scolastico a 18 anni; così come l’impegno per la formazione continua lungo tutto l’arco della vita, strumento collettivo di mobilità sociale, e per il diritto individuale alla formazione come strumento di valorizzazione della persona. In questo quadro va rilanciato un forte intervento del sindacato per rafforzare i diritti di accesso individuale alla formazione, ridefinendo e rafforzando le opportunità già esistenti nei vari contratti, spesso solo parzialmente utilizzate (150 ore, congedi formativi ecc.) e saldando nelle piattaforme contrattuali l’attivazione di percorsi formativi con lo sviluppo degli inquadramenti e del salario. In tale contesto assume valore la tematica dell’apprendistato, non come mero strumento per sotto inquadrare i lavoratori più giovani, ma come vero contratto a causa mista, con un forte investimento sul piano formativo, intrecciando proficuamente formazione formale esterna e formazione sul lavoro (piani formativi aziendali), con il riconoscimento pubblico delle competenze acquisite (libretto formativo).
3.5 Occorre assumere la sicurezza, la prevenzione, il benessere dei lavoratori come portato più generale di una ricostruzione di diritti universali; l’altra medaglia di un contrasto alla precarietà che fa male, che - nella competizione sul costo - arriva a disconoscere perfino il diritto alla integrità fisica e psichica. La CGIL si deve pertanto impegnare a proseguire e rilanciare con forza il ruolo del sindacato sul controllo delle condizioni e dell’organizzazione del lavoro, realizzando pienamente gli indirizzi dell’Unione Europea, reinserendo il tema nella contrattazione nazionale e di secondo livello e nella negoziazione territoriale, sviluppando le relazioni con il mondo giuridico e scientifico, con le istituzioni pubbliche e con le stesse parti datoriali, affinché la salvaguardia della salute e della sicurezza nel lavoro sia sempre più considerata come parte integrante dei diritti e della dignità del lavoro e dell’impresa.
3.6 In senso analogo le nostre scelte di politica dell’immigrazione (diritto all’ingresso per ricerca di lavoro, norme plurilingue su salute e sicurezza, azioni positive contro le discriminazioni dirette ed indirette, welfare fruibile e aperto) si saldano ad una impostazione di inclusione e contrastano frontalmente ogni logica ghettizzante e discriminatoria.
4. Tutelare il lavoro, combattere l’illegalità
4.1 Occorre garantire un nuovo sistema universale di ammortizzatori sociali e di tutele, fondato sul principio che il lavoro va difeso e non reso più facilmente eliminabile in caso di difficoltà. Va quindi esplicitamente premiata l’impresa che ridistribuisce il lavoro piuttosto che ridurlo e imposto il vincolo del “piano sociale d’impresa” là dove la difesa del lavoro risulti impossibile. Un nuovo ed universale sistema di ammortizzatori che abbia una forte integrazione con un modello di welfare dove, accanto a strumenti per la difesa nel lavoro, siano concretamente agibili diritti più ampi di cittadinanza, di lotta all’esclusione e alla povertà. In tale ambito il ricorso agli ammortizzatori sociali va connesso all’insieme delle politiche attive del lavoro (composte da interventi di formazione, riqualificazione, valorizzazione delle competenze comunque acquisite, utilizzo dei fondi dello 0,30) da avviarsi su base territoriale per governare al meglio le fasi di transizione da un impiego all’altro. Si pone qui, tra l’altro, la proposta di “contratto di inclusione”, istituto di collegamento tra lavoro e welfare, fortemente intrecciato, come indicato nelle proposte della Cgil, con modalità anche nuove di sostegno al reddito.
4.2 Occorre fare della lotta contro il lavoro nero la priorità per un paese in cui ancora troppe donne e uomini, troppi immigrati, troppe imprese si situano fuori dalla legalità, dai sistemi di protezione sociali. L’intervento sull’economia irregolare è di straordinaria importanza, non solo per evidenti ragioni etiche e di solidarietà, ma anche per impedire forme di concorrenza sleale, per restituire alla collettività ingenti quantità di ricchezza attualmente evasa, per rompere quelle stesse convenienze tra soggetti deboli che minano la solidarietà generale (indicativa la condizione delle assistenti famigliari). E’ il presupposto per ogni possibile patto fiscale tra le ragioni del lavoro, dell’impresa e della cittadinanza. Si tratta qui di operare coniugando un uso sempre più mirato ed efficace della repressione (ponendo mano ad una radicale riforma della legislazione del governo di centro-destra, a partire da quella sui servizi ispettivi), con misure selettive e temporanee di accompagno e sostegno alle imprese (o ai sistemi d’impresa di matrice distrettuale) che dimostrino di poter sostenere il ritorno alla legalità e i ritmi della competizione globale (crescendo anche in dimensioni ed innovazione); sostenendo i piani di stabilizzazione previdenziale dei lavoratori e la loro qualificazione professionale; spezzando le forme peggiori di ricatto ed illegalità che costringono centinaia di migliaia di lavoratori italiani ed extra comunitari in una condizione di rassegnazione e accettazione dello sfruttamento, fino al grave e crescente fenomeno del lavoro minorile.
4.3 Per fare tutto ciò occorre un rinnovato ruolo della dimensione pubblica nel fissare non solo le regole, ma nell’intervenire con politiche attive universali e realmente fruibili nel mercato del lavoro che facciano ritornare alla “legalità” e “visibilità” i soggetti sociali più deboli; occorre scommettere su una dimensione regionale/territoriale della politica del lavoro, che si basi sulla garanzia di un equilibrio reale tra la tutela dei diritti, che non può che essere nazionale, e un’articolazione delle politiche strumentali (servizi all’impiego connessioni con i sistemi formativi professionali e per tutta la vita, ammortizzatori sociali e politiche per popolazioni a rischio), in modo da essere coerente con la nostra opzione generale di “federalismo solidale”. In questo contesto la battaglia per il ruolo dei servizi pubblici all’impiego, di cui riaffermiamo la centralità, va saldata con il tema delle risorse necessarie per il loro rilancio, specie in previsione della diminuzione della copertura da parte dei Fondi comunitari; va altresì rafforzata la riqualificazione degli operatori impegnati nei servizi, e assicurata ad essi la necessaria stabilità occupazionale e di rapporto di lavoro.
Questa è oggi l’unica strada per uscire dalla crisi economico produttiva e per garantire una crescita e uno sviluppo duraturo e socialmente sostenibile: il paese ed i lavoratori necessitano oggi di risposte diverse anche rispetto al passato, più ampie e coraggiose per costruire un futuro migliore.

6 ^ TESI
I DIRITTI DEI MIGRANTI

6.1 La globalizzazione neoliberista, con l’accrescere delle disuguaglianze è da una parte causa delle consistenti migrazioni a livello nazionale, intra-europeo e internazionale e dall’altra substrato per risposte nazionalistiche e xenofobe, che sono anche risposte errate al tentativo di imposizione del “pensiero unico” che vorrebbe cancellare i pluralismi culturali, etnici, religiosi, di genere.
L’immigrazione è un fenomeno complessivamente in crescita, e molto articolato, che comprende persone in fuga dalle guerre e tirannie o da selvagge ristrutturazioni economiche e socio-politiche, tratta delle donne e dei bambini, ricerca di occupazione e/o di miglioramento delle proprie condizioni. Oggi circa tre milioni di cittadini stranieri risiedono regolarmente nel nostro paese e molte centinaia di migliaia sono, oltre a quelli in attesa di permesso di soggiorno, irregolari.
6.2 La CGIL considera la presenza dei migranti nel nostro Paese un fattore che arricchisce culturalmente e umanamente la nostra società e riconferma la propria impostazione per l’unità delle lavoratrici e dei lavoratori di tutti i paesi ed è quindi chiamata ad una capacità di analisi e proposta assai articolata sul fenomeno migratorio, per ottenere una politica aperta inclusiva che costruisca insieme ai migranti un patto di cittadinanza basato sui diritti e le responsabilità.
6.3 La presenza di un flusso costante di migranti permette all’Italia e all’Europa di contrastare il declino demografico della popolazione, di rallentarne il processo di invecchiamento, di mantenerne stabili le forze di lavoro e, conseguentemente, di accrescere il peso delle classi lavoratrici nella società. Gli studi della Commissione europea confermano il carattere positivo dell’immigrazione verso l’Europa e l’Italia.
La contraddizione tra apprezzabili “dichiarazioni di principio” e concrete politiche per l’immigrazione ha nel “Libro Verde” dell’Unione Europea una sua manifestazione evidente. La preoccupazione maggiore è che la Commissione Europea manchi di qualsivoglia ambizione nel governo di un processo così imponente, con il rischio di consegnarci una direttiva che assume come comune denominatore le più inique politiche sull’immigrazione dei singoli stati, in chiave prettamente “difensiva”.
6.4 In Italia questa deriva è già stata raggiunta con la legislazione emanata dal Governo di centro-destra che ha costruito un “diritto duale”, un incubatore, anche “culturale”, di una più generale impostazione ideologica: la legge Bossi-Fini è una legge sbagliata, una legge barriera e le incongruenze combinate fra questa e la legge 30 nella gestione del mercato del lavoro e del contratto di soggiorno sono un motivo in più per la loro cancellazione.
Infatti il concetto di contratto di soggiorno riflette la negazione della legittimità del progetto migratorio giacchè la facoltà di risiedere nel nostro paese è rigidamente vincolata alla domanda di lavoro delle imprese del paese ospitante; con la crudele conseguenza che ove -per qualsivoglia motivo- non vi sia più la costanza del rapporto di lavoro il migrante perde il diritto al soggiorno ed è obbligato, pena la carcerazione, a tornarsene a casa. L’opportunità di rimanere in Italia dipenderà dunque, in generale, dal grado di acquiescenza che l'immigrato saprà dimostrare nei confronti di colui da cui egli dipende ad ogni effetto: il padrone (“imparare a stare al proprio posto”). La legge Bossi-Fini ha poi determinato una diminuzione dei diritti per le immigrate, che si trovano in una situazione più vulnerabile rispetto all’istruzione, all’occupazione, alla sanità e alla partecipazione alla vita pubblica.
6.5 Complessivamente le proposte del sindacato hanno come obiettivo una legislazione finalizzata alla riorganizzazione e rafforzamento delle tutele e alla lotta al sommerso e assumono, quindi, l’obiettivo della cancellazione immediata della legge Bossi-Fini, e conseguentemente il varo di una nuova legge quadro sull’immigrazione che non riproponga tuttavia principi e strumenti di legislazioni precedenti che, dopo 8 anni, hanno mostrato tutti i propri limiti e inadeguatezze e che si caratterizzi invece per una organicità e sistematicità di nuove norme che sanciscano:
1. l’istituzione di un “ Permesso di Soggiorno per Ricerca di Occupazione”, certi che una tale norma possa divenire l’ architrave di una più aperta e giusta politica sull’ immigrazione in Italia e in Europa; una politica basata sulla agibilità di una via legale per sconfiggere il traffico criminale delle persone e l’abuso del lavoro migrante in nero, senza diritti e tutele;
2. la chiusura dei CPT (Centri di Permanenza Temporanea), non solo perché rappresentano un vero e proprio buco nero rispetto alle tutele dei diritti umani previsti dalle norme nazionali ed internazionali, ma anche perché, nel quadro di una legge alternativa che supera il proibizionismo attraverso la via legale all’immigrazione, non avrebbero più nessuna funzione e giustificazione;
3. la nascita di una rete di strumenti per l’inserimento e l’integrazione, che attivi, tra l’altro, centri di accoglienza e di servizi all’immigrazione, qualificati sotto la responsabilità degli Enti Locali, in grado di assicurare alloggio, informazione, formazione, istruzione, assistenza psico-socio-sanitaria, mediazione culturale e tutela legale, affinchè la diversità arricchisca tutta la società;
4. il trasferimento delle competenze agli Enti Locali per i rinnovi dei permessi di soggiorno e per l’ottenimento della Carta di soggiorno prevedendone le adeguate risorse.
6.6 E’ inoltre indispensabile intervenire per ottenere:
a) la regolarizzazione degli irregolari presenti sul territorio nazionale. La possibilità di uscire dalla clandestinità ed ottenere il diritto al permesso di soggiorno per quanti possano dimostrare la sussistenza di un rapporto di lavoro, così da dare impulso alla lotta al lavoro “nero”, rendere l’immigrato protagonista delle propria “emersione” e, ad un tempo, affermare un ruolo virtuoso dello stato come copromotore di un processo di riscatto sociale;
b) l’urgente approvazione di una legge organica sul diritto d’Asilo: solo l’Italia tra i paesi più industrializzati è ancora carente di una legge quadro che tuteli i rifugiati secondo i dettami della Costituzione e dei trattati internazionali sottoscritti dall’Italia;
c) l’estensione del diritto di voto attivo e passivo nelle elezioni amministrative;
d) la riforma della legge sull’acquisizione della cittadinanza italiana che dia maggior peso al principio dello “jus soli”;
e) l’adeguamento del personale per gli uffici consolari (per dare una risposta alle lungaggini burocratiche imposte agli immigrati);
E’ del resto con questa profonda convinzione che siamo stati e siamo tra i protagonisti di una campagna internazionale su 2 importanti Petizioni Popolari: per la ratifica della Convenzione ONU sui diritti dei lavoratori migranti e loro famiglie e per l’istituzione della Cittadinanza di Residenza Europea.
6.7 Le discriminazioni istituzionali, sancite proprio dalle leggi, vanno rimosse con azioni riformatrici. In molti altri casi, si tratta di svantaggi che non rendono effettiva la parità di trattamento formalmente sancita: emblematico è l’andamento degli infortuni, che a differenza degli italiani è in forte crescita, a causa proprio delle tipologie di attività e contrattuali e alla non formazione riservata ai lavoratori migranti. Qui deve intervenire la capacità contrattuale innovativa del sindacato, che può valere per gli immigrati e più in generale per tutti i soggetti deboli, tanto più quando questa disparità si somma all’essere donna. Ancor più degli uomini, le lavoratrici immigrate, anche se diplomate o laureate, arrivano in Italia con una professionalità ed esperienza di lavoro raramente riconosciute e sono costrette a lavorare, salvo poche eccezioni, nel settore dell'assistenza alle persone ed alle famiglie o come addette alle pulizie. Ciò spesso presso una famiglia, con un ciclo continuo di lavoro, nell’isolamento più completo e con i problemi connessi alla convivenza con il datore di lavoro. Esse sono un’importante risorsa sia per le famiglie, poiché spesso permettono, soprattutto alle donne italiane, la conciliazione fra lavoro professionale e famiglia, sia per l'economia del paese.
6.8 L’impegno della CGIL, forte anche della significativa presenza di lavoratrici e lavoratori tra gli iscritti, così come tra i delegati immigrati si esplicita principalmente nel versante contrattuale.
Noi siamo per affermare la parità di trattamento e di cittadinanza, una parità effettiva, e quindi il profilo della iniziativa sindacale dovrà rimuovere gli ostacoli alla parità, dovrà connotarsi come azione contrattuale e rivendicativa antidiscriminatoria, sapendo che su questa strada il cammino è molto impegnativo perché oggi si registrano condizioni discriminanti per i lavoratori immigrati in tutte le sfere della vita sociale, dalla durata dei contratti individuali di lavoro, al salario, agli ammortizzatori sociali, alla salute e sicurezza, al welfare nazionale e locale, alla casa fino al sistema pensionistico. Deve essere chiaro che una maggiore qualificazione e specializzazione delle aziende italiane passa anche per un diverso e più giusto rapporto con l’immigrazione.
6.9 La complessità dei problemi e la concezione di confederalità della CGIL ci deve impegnare anche sul versate della formazione per combattere esclusioni, abbandoni e svantaggi scolastici e sfruttamento del lavoro minorile, così come concezioni e pratiche di assimilazione che assegnano un valore negativo agli apporti culturali delle comunità straniere, che stanno alimentando forme di autoseparazione con la nascita di asili nido e scuole materne su base etnica. Dobbiamo operare per un inserimento non solo rispettoso delle diversità ma che permetta positive ibridazioni culturali, anche attraverso l’incremento dei mediatori linguistici nelle scuole e rafforzamento dei processi di educazione ed istruzione degli adulti.
A tal fine è necessario sviluppare maggiormente un rapporto crescente con le comunità esistenti nei vari territori.
6.10 La complessità dei problemi e delle soluzioni impegna la CGIL a una forte integrazione tra l’azione politica di rappresentanza (la CGIL nelle sue articolazioni) e quella di tutela individuale (il sistema dei servizi), con il pieno coinvolgimento delle immigrate e degli immigrati sia nell’elaborazione delle proposte che nella loro rappresentanza all’interno dell’organizzazione. Anche questo conferma la necessità di ricostruire un più vasto e ampio fronte culturale, politico e sociale, che sappia rimettere al centro il tema dell’immigrazione.

7^ TESI
UNO STATO SOCIALE INCLUSIVO, EFFICIENTE E DI QUALITA’

1. In coerenza con l’insieme delle politiche economiche neoliberiste, che ha caratterizzato l’azione del governo, il sistema di welfare è stato in questi anni impoverito e dequalificato, svuotandolo, così, di ogni ambizione di rappresentare uno strumento universalistico di tutela e di affermazione dei diritti.
In questi anni si è verificato un attacco con due diverse caratteristiche: da un lato un processo di svuotamento strisciante delle riforme realizzate negli anni precedenti con privazione di risorse, mezzi e strumenti per la loro realizzazione; dall’altro lato vere e proprie controriforme come la legge delega in materia pensionistica.
Caratteristica comune di tutti questi provvedimenti è la volontà di determinare le condizioni nelle quali il privato aumenti progressivamente i propri spazi, fino a condizionare ciò che resterà di pubblico. Obiettivo del governo è stato quello di colpire un modello economico e sociale proiettato verso la solidarietà, l’eguaglianza, la coesione sociale, un rapporto positivo tra le generazioni: cioè, di affermare una cultura secondo la quale c’è incompatibilità fra politiche di welfare e politiche di sviluppo producendo una conseguente precarizzazione sociale, una crescita dell’insicurezza, il rischio di una lacerazione profonda nelle relazioni e nel legame sociale.
Tutto ciò si è accompagnato ad una più marcata connotazione integralista di alcune delle scelte compiute. È il caso della svolta in senso punitivo sulle tossicodipendenze con l’annullamento, di fatto, del principio della riduzione del danno e la mortificazione dell’azione svolta fino ad ora nella prevenzione e nel recupero. O ancora il disegno di legge sulla psichiatria col quale si tornerebbe a produrre stigma, pregiudizio, separazione, paura.
Tra l’altro leggi come queste sulle tossicodipendenze o sulla psichiatria non farebbero altro che aggravare, più di quanto sia già oggi, la condizione delle carceri dal momento che la popolazione carceraria rappresenta sempre più quella parte di società collocata ai suoi margini: senza fissa dimora, tossicodipendenti, immigrati clandestini. È negato il diritto alla salute, aumentano i casi di suicidio, il sovraffollamento ha raggiunto livelli inaccettabili.
2. La CGIL si batte per una prospettiva radicalmente diversa: quella che fa della universalità ed esigibilità dei diritti sociali il suo connotato fondamentale. Vogliamo un moderno sistema di welfare che non si limiti a contenere o risarcire i danni e gli squilibri che l’attuale sviluppo produce, ma che sia capace di contrastare precarietà e insicurezza, di essere fattore attivo di uno sviluppo di qualità e socialmente sostenibile. Un sistema di welfare che sappia rispondere alle nuove domande e ai nuovi bisogni che si presentano nelle società moderne: i flussi migratori, la frammentazione delle reti familiari, la discontinuità dei cicli di vita, l’ingresso delle donne nel mercato del lavoro, il progressivo invecchiamento della popolazione, l’esigenza di una maggiore mobilità verticale che frantumi le caste sociali che strutturano parti importanti della nostra società.
2.1. I prossimi anni dovranno pertanto essere caratterizzati da un grande investimento sul primo e vero patrimonio del nostro paese: le persone.
Investimento che affermi il diritto al sapere, alla formazione permanente, il diritto al benessere, il diritto ad un sistema di tutele che sia in grado di accompagnare la persona nel ciclo di vita rendendola più forte.
2.2. Un welfare improntato ad un’idea di stato laico che sappia riconoscere e valorizzare le differenze, che sappia rispondere ai bisogni delle diverse famiglie, senza la pretesa di definire “il modello” di famiglia, di convivenza accettabile, di affetti ammissibili a tutela pubblica. Ciò rappresenta anche la condizione per costruire una società che dia nuovamente senso alle parole uguaglianza e libertà.
3. Se l’investimento nel welfare è indispensabile per realizzare un nuovo modello di sviluppo, allora il tema risorse pubbliche ad esso dedicate diventa di assoluta priorità. E’ urgente un reale incremento delle risorse ad esso destinate, recuperando in primo luogo il divario tuttora presente e in aumento tra la spesa sociale italiana rispetto a quella degli altri paesi europei. Ciò, naturalmente, non è compatibile con l’idea di ridurre il gettito fiscale e con l’idea del “travaso”, ridurre cioè la spesa di singoli capitoli, ad esempio quello pensionistico, a vantaggio di altri, di fronte ad una realtà che ha visto comprimere ogni capitolo di spesa, da quella previdenziale, a quella sanitaria, a quella per l’assistenza, a quella per la casa . Risorse necessarie anche per recuperare il continuo taglio agli stanziamenti per regioni ed enti locali che ha caratterizzato gli ultimi 4 anni, rendendo difficile non solo l’ampliamento ma anche il mantenimento quali-quantitativo dell’insieme dei servizi socio-sanitari.
3.1. Riaffermiamo la centralità del ruolo del sistema pubblico e del suo operare attraverso i criteri di efficacia, di efficienza e di economicità. Da questo punto di vista è decisiva la sua funzione di razionalizzazione dell’offerta di prestazioni, sulla base di una lettura della domanda che ne evidenzi l’appropriatezza e l’essenzialità.
La funzione del pubblico non sta solo nella programmazione e nella definizione delle regole e degli standard qualitativi, ma nella gestione stessa dei servizi, a partire dalla sanità e dall’istruzione. Qui, infatti, affidarsi alle sole regole del mercato significa creare disuguaglianze, iniquità, selezione degli aventi diritto sulla base del censo e della cultura.
Inoltre se si procede, come in questi ultimi anni è accaduto in alcune realtà, attraverso appalti, esternalizzazioni, cessioni di servizi a privati, project financing, sperimentazioni gestionali pubblico-privato funzionali alla logica di riservare al pubblico solo il cosiddetto core business, alla lunga si rende improbabile l’esercizio anche della funzione programmatoria, come l’esperienza concreta sta documentando.
Occorre, quindi, definire obiettivi e priorità che diano senso a un nuovo e moderno sistema di welfare.
4. Una delle priorità è consentire ai giovani l’accesso al sistema di protezione sociale da cui oggi molti di loro sono sostanzialmente esclusi. Il paradosso è che proprio di fronte ad una diffusa precarizzazione dei rapporti di lavoro e alla discontinuità nel reddito, che necessita di nuove e maggiori tutele, sono proprio i giovani e le giovani coppie che incontrano insopportabili difficoltà nell’accesso all’abitazione, al credito, ai servizi, alla possibilità di scegliere consapevolmente di fare i figli voluti.
Oltre ad una politica di sostegno al reddito, occorre che nel territorio siano strutturati interventi integrati, in grado di rispondere anche alle difficoltà temporanee, sia di tipo economico (vedi prestito d’onore) sia con i servizi tra i quali lo sviluppo di un mercato sociale dell’affitto capace di soddisfare una grande e crescente domanda inevasa.
Per un numero crescente di giovani – ma anche di anziani a basso reddito, immigrati, lavoratori in mobilità per ragioni di lavoro, famiglie monoreddito – l’incidenza dei costi dell’abitare sul reddito (affitto, mutui, tariffe) ha raggiunto livelli tali da condizionare pesantemente i consumi delle famiglie e divenire ragione di crisi per la crescita del Paese. Non è rinviabile, dunque, un piano d’investimenti pubblici e in partecipazione con soggetti privati, della cooperazione e del no profit, mirato prioritariamente ad allargare l’offerta abitativa in affitto a canone sociale agevolato.
4.1. È evidente che la mancanza di ammortizzatori sociali, di un sostegno alle situazioni di povertà e discontinuità nel reddito, di una politica per le famiglie, rischia di aggravare l’ansia anche verso un sistema previdenziale che non garantisce più le prestazioni del passato, perché le carenze di sostegni adeguati durante la vita attiva si ripercuotono inevitabilmente anche sulle prestazioni per la vecchiaia, con un impatto ancora più pesante.
Infatti un sistema legato alla rigida corrispondenza tra quanto versato in tutta la vita lavorativa e il rendimento pensionistico finale, se inserito in un contesto del mercato del lavoro più precario, senza tutele, e con redditi bassi per un lungo periodo produce un abbassamento del tasso di solidarietà interno che compromette anche l’equità tanto da produrre una quantità insopportabile di situazioni a rischio di vere e proprie povertà. A ciò sono particolarmente esposti i lavoratori e lavoratrici con contratto di lavoro atipico, a partire dai parasubordinati.
È altrettanto evidente che in una situazione siffatta rischia di rimanere compromessa anche l’idea della previdenza complementare come noi l’abbiamo voluta e come la vogliamo difendere, volontaria ed effettivamente integrativa di una previdenza pubblica che rimane il pilastro fondamentale, perché si riduce, anziché ampliarsi, l’area delle persone che possono aderirvi come scelta volontaria, impediti non da un fattore culturale, ma dal reddito, dalla precarietà.
4.2. La stessa riforma delle pensioni del 1995, che pure garantisce omogeneità e sostenibilità economica nel tempo, anticipando riforme a cui guardano anche altri paesi europei, lascia irrisolto questo problema, per l’abbassamento del tasso di solidarietà interno al sistema. Infatti, va reso più esplicito che accanto agli aspetti di sostenibilità finanziaria devono sempre stare, in modo indissolubile, quelli di sostenibilità sociale.
Oggi la priorità è contrastare la legge approvata nel 2004 dal governo attuale, che non risolve ma accentua tutti questi problemi e, al contrario occorre rafforzare e integrare gli strumenti della riforma del ’95 e intervenire sulla “adeguatezza” dei redditi pensionistici in due direzioni: in primo luogo verso i già pensionati (e verso coloro che lo saranno in futuro) che subiscono da oltre 10 anni una costante e progressiva erosione del loro potere d’acquisto adeguando l’automatica rivalutazione della intera pensione alla inflazione reale, anche rivedendo il paniere ISTAT, e realizzando quanto già contenuto e non ancora attuato nella “riforma Dini” circa la redistribuzione contrattata della ricchezza prodotta nel paese sui redditi pensionistici.
4.3. In secondo luogo bisogna agire sulle parti più deboli del sistema ossia, i lavoratori e le lavoratrici con carriere discontinue e a basso reddito ed i giovani che sono inseriti nel sistema di calcolo contributivo. Ciò significa garantire una pensione pubblica dignitosa , avviare una grande operazione di stabilizzazione dei rapporti di lavoro, di innalzamento dei redditi bassi e di ripristino della flessibilità in uscita compromessa dalla controriforma del governo.
Occorre prevedere la copertura figurativa piena per tutti i periodi coperti da ammortizzatori, per quelli di congedo parentale e per il lavoro di cura: ciò se veramente si vuole incentivare il lavoro femminile e nello stesso tempo arrivare ad una vera e sostanziale parità nelle responsabilità familiari. Inoltre, occorre realizzare la totalizzazione dei contributi, la non penalizzazione del part-time ai fini pensionistici, la riduzione ad un importo pari all’assegno sociale della soglia per poter avere la liquidazione della pensione prima dei 65 anni, l’estensione ai lavoratori parasubordinati dell’insieme dei diritti sociali a partire da una piena tutela in materia di malattia, maternità, infortuni, indennità di disoccupazione e sostegno al reddito, il sostegno ai bassi redditi sia fiscalizzando tutta o parte della contribuzione, sia rafforzando il loro rendimento ai fini pensionistici. Si tratta, inoltre, di impedire che il rapporto tra la pensione e il precedente reddito da lavoro si abbassi ulteriormente, anche eliminando situazioni di dumping tra i lavoratori in relazione alle diverse aliquote contributive, realizzando la parificazione dei diritti e una progressiva ma reale armonizzazione delle aliquote che innalzi anche quelle del lavoro autonomo.
Va confermata la scelta volontaria alla pensione integrativa mantenendo la distinzione tra il risparmio individuale verso le polizze assicurative e la previdenza complementare collettiva, che va agevolata nel prelievo fiscale sui rendimenti annui e non sulla rendita finale che, al pari di quella pubblica, deve essere assoggettata a imposizione progressiva. La contrattazione e la gestione dei fondi negoziali devono poi agevolare l’adesione dei lavoratori con rapporti di lavoro atipici e prevedere anche una mutualità interna che contribuisca a ridurre gli ostacoli che oggi rendono difficile l’esercizio di questa opportunità. E’ importante estendere i profili di investimento socialmente responsabili e quelli con rendimento garantito, soprattutto per le quote di TFR investito. Infine, ancora carente è la tutela prevista nel caso di trasformazione del montante contributivo in rendita anche per il permanere della distinzione, fatta dalle assicurazioni, tra uomini e donne per l’interpretazione data alle proiezioni sulle aspettative di vita. Si ritiene che una maggiore protezione sarebbe realizzabile se la gestione delle rendite fosse permessa anche agli enti previdenziali pubblici che potrebbero meglio garantire lo stesso adeguamento della rendita alla inflazione.
4.4. Rafforzare gli elementi solidaristici del sistema previdenziale significa anche ripensare la necessità di utilizzo di risorse generali da immettere nel sistema, per evitare che la solidarietà sia solo tra chi contribuisce. Nell’ambito della vertenza più generale per un fisco equo va equiparata la no tax area relativa ai pensionati a quella dei lavoratori attivi. Rafforzare la solidarietà significa rendere esigibili i diritti dei lavoratori immigrati e rimuovere le norme discriminatorie. Occorre realizzare le convenzioni con i paesi di origine per garantire la reciprocità nei diritti sociali e previdenziali e sancire il diritto dei lavoratori immigrati che lasciano l’Italia per sempre alla liquidazione dei contributi versati.
5. Occorrono politiche capaci di utilizzare sia sul piano sociale che su quello economico le risorse degli anziani.
Le politiche neoliberiste interpretano il concetto di invecchiamento attivo con un’unica soluzione: aumento obbligatorio dell’età pensionabile. Soluzione non solo sbagliata in quanto tale ma anche perché non in grado di affrontare il rischio di estraneazione dalla vita attiva, dalla partecipazione sociale e dalla vita politica di una quota crescente di popolazione.
Una seria politica per l’invecchiamento attivo richiede, in realtà, diverse misure.
In primo luogo è di fondamentale importanza predisporre una rete di servizi socio-sanitari capaci di garantire benessere e affrontare i bisogni derivanti dalle situazioni di maggiore fragilità, in particolare per le persone non autosufficienti o a rischio di non-autosufficienza. In secondo luogo una politica di invecchiamento attivo richiede l’incremento dei tassi di attività per tutti, che sappia contrastare anche la espulsione precoce dal mercato del lavoro che oggi colpisce fasce sempre più giovani di lavoratori a partire dagli over 45. Inoltre bisogna predisporre politiche che siano in grado di consentire al lavoratore, qualora lo decida liberamente, di continuare l’attività lavorativa dopo aver maturato i diritti pensionistici.Ciò significa agire sull’organizzazione del lavoro e la regolazione dei rapporti di lavoro; sulla possibilità di uscita morbida dal lavoro con part-time e pensione; sulla formazione come apprendimento lungo tutto l’arco della vita; sulla possibilità di prevedere forme di affiancamento, trasmissione di competenze, tutoraggio, attuati dagli anziani a favore dei giovani alle prime esperienze.
6. Occorre insistere per una società nella quale servizi e organizzazione dei tempi della città e orari di lavoro facilitino le relazioni tra soggetti e nelle famiglie.
Decisive per le donne, ad esempio, sono le politiche sociali di sostegno alla occupabilità, in grado di favorire la realizzazione degli obiettivi di Lisbona.
Perciò si devono investire risorse sui servizi destinati al supporto del lavoro di cura, che ricade ancora oggi prevalentemente sulle donne, affinché possano essere di incentivo anche alla condivisione delle responsabilità familiari. Ciò vuol dire, ad esempio, che la responsabilità sociale dello stato non è quella di sostenere la famiglia col bonus da spendere sul mercato.
Anche la politica fiscale deve essere di sostegno alle famiglie. Riteniamo che la logica del quoziente familiare non sia adeguata né sufficiente perché finisce per favorire i redditi più alti; occorre invece che attraverso la leva fiscale vengano rimodulati i sostegni economici in relazione alla composizione del nucleo familiare e alla condizione reddituale ma anche finanziati servizi capaci di ridare qualità al sistema di welfare a partire dalle priorità di maggiori risorse, piena integrazione socio-sanitaria, adeguate politiche formative e di sostegno all’infanzia e ai minori; non autosufficienza, lotta alla povertà.
6.1. E quando parliamo di servizi per la prima infanzia pensiamo a luoghi di socializzazione in cui si crea un contesto educativo in grado di sviluppare le potenzialità di crescita affettiva, cognitiva e relazionale, -e quindi superando il concetto di servizi a domanda individuale- rilanciando l’obiettivo stabilito dalla U.E. a Lisbona di raggiungere entro il 2010 il 33% di offerta formativa nella fascia 0-3 anni e la reale generalizzazione da subito delle scuole dell’infanzia, dando priorità alle strutture pubbliche. È un approccio opposto a come il governo ha impostato, ad esempio, la questione dei nidi aziendali delineando un modello nel quale l’aspetto essenziale è soltanto la custodia del bambino e non la sua crescita e sviluppo. Vanno poi rimosse immediatamente le liste di attesa per le iscrizioni alle scuole di infanzia statali. Ribadiamo, inoltre, il giudizio negativo sulla logica degli anticipi, affermata e sollecitata dai provvedimenti del governo, perché complica l’identità pedagogica e organizzativa della scuola dell’infanzia e apre la strada ad una forzatura dei tempi dell’apprendimento senza rispettare i tempi e i ritmi di crescita dei bambini.
7. Il carattere di universalità ed esigibilità dei diritti va riaffermato nello stesso sistema socio-sanitario. Molti studi pongono in evidenza la crescita del numero delle persone in stato di povertà e la crescita dell’area della “vulnerabilità sociale”, di persone e famiglie che possono trovarsi, improvvisamente (ad esempio a causa di un licenziamento, sfratto, malattia grave), in una condizione di disagio o deprivazione, frutto anche dell’accentuarsi delle disuguaglianze che caratterizzano la fase attuale dello sviluppo.
Per questo è particolarmente grave la scelta dell’attuale governo di cancellare l’esperienza del Reddito minimo di inserimento e di aver ritardato, in molte sue parti, l’applicazione della legge di riforma dei servizi sociali.
Riproponiamo l’introduzione una misura che abbia caratteristiche analoghe al Reddito minimo di inserimento, superando l’anomalia per cui l’Italia – insieme alla Grecia – è l’unico paese europeo privo di uno strumento di contrasto della povertà e dell’esclusione ed è fra quelli che registrano il tasso più alto di povertà minorile.
Inoltre, la crescita della società multietnica determina nuovi bisogni e necessita di nuove tutele anche sanitarie, in particolare verso gli immigrati che non sono ancora regolarizzati. È una condizione, questa, che somma al rischio per la loro salute, le occasioni di esclusione.
Contrastare la vulnerabilità sociale vuol dire dichiarare guerra all’analfabetismo perché l’esclusione è un fenomeno che ha alle spalle scarse o nulle competenze scolastiche.
8. Occorre dare piena attuazione alla legge di riforma del sistema integrato dei servizi, affinché la programmazione sanitaria e quella sociale siano strettamente correlate per dare risposte adeguate alle diverse forme di disagio sociale e alle vecchie e nuove patologie come, tra l’altro, già previsto dalla legge 229 di cui continuiamo a difendere i principi.
8.1. Il sistema territoriale è l’elemento su cui operare una vera e propria svolta. Infatti il punto critico del nostro servizio sanitario nazionale, sta proprio in una concezione ancora troppo ospedalocentrica, nella permanente carenza dei servizi dedicati alla prevenzione e in una ancora insufficiente rete di interventi territoriali e distrettuali. È qui che bisogna cambiare. Cresce, infatti, una domanda di servizi sanitari dedicati prevalentemente alle forme di cronicità e di assistenza socio-sanitaria. Una risposta a questo fenomeno attraverso una tradizionale politica di “posti letto” si rileva sempre più costosa e non soddisfa i reali bisogni dei soggetti interessati. Ed i costi non possono gravare sui cittadini con l’utilizzo dei vaucher e l’applicazione dei ticket di cui chiediamo l’abolizione.
E’ il territorio-distretto il luogo nel quale si intercettano i bisogni, si interpreta la domanda di assistenza, si portano i servizi vicino alle persone in forma partecipata,con un potenziamento dei servizi di prevenzione, cura, riabilitazione in grado di rispondere alle vecchie e nuove patologie, di potenziare le cure domiciliari e le strutture territoriali per le cure primarie. Occorre poi la definizione di percorsi terapeutici capaci di garantire la continuità assistenziale delle cure dalla fase dell’acuzie clinica a quella post-acuta, improntando la politica dei farmaci e della diagnostica al concetto di appropriatezza con l’elaborazione di linee guida e protocolli diagnostico-terapeutici condivisi.
8.2. E’ essenziale tornare ad investire nella prevenzione per creare ambienti di lavoro e di vita salubri, eliminare le condizioni di rischio a partire dai posti di lavoro, sostituire le sostanze tossiche o pericolose.
8.3. Assoluta priorità va poi data alle politiche di prevenzione e di sostegno alle situazioni di non autosufficienza. Si tratta infatti, di far fronte ad un fenomeno le cui caratteristiche e quantità rappresentano già oggi e sempre più in avvenire, una vera e propria emergenza per milioni di persone e di famiglie. A tal fine ribadiamo la necessità della costituzione di un fondo nazionale per la non autosufficienza che garantisca la fruibilità e la esigibilità dei servizi su tutto il territorio nazionale, naturalmente prevedendo che nelle Regioni si possano attuare forme e modi di implementazione del fondo stesso.
Tutto ciò consente di superare una debolezza tipica del nostro sistema di welfare caratterizzato prevalentemente dai trasferimenti monetari e non da una diffusa offerta di servizi.
8.4. Se è la dimensione locale quella che consente di progettare azioni integrate e personalizzazione degli interventi capaci di sostenere i percorsi di autonomia delle persone, è in questo contesto che si deve investire in nuove forme di sicurezza sociale, in formazione e sapere anche per contrastare i crescenti fenomeni di analfabetismo, in una politica delle abitazioni, superando le tradizionali politiche di settore. L’obiettivo non è solo di assistere ma di ricostruire legami sociali e attraverso essi un’idea di comunità. In tal modo, ad esempio, l’handicap non è circoscrivibile ad un problema privato di chi ne è portatore o portatrice, o della sua famiglia, ma può entrare in circolo come risorsa di cultura, di responsabilità, questione su cui cresce un apprendimento collettivo. È così che può svilupparsi la sua autonomia e indipendenza nel lavoro e nella società.
9. In questo modello di stato sociale che vogliamo realizzare allora non è secondario l’aspetto del lavoro di cura. Perché la qualità dei servizi sociali è data in primo luogo dal lavoro, dalla relazione che si instaura con gli utenti e dai tempi che questa relazione esige. Un sistema di welfare che assuma la qualità come asse centrale del suo operare, si deve porre il tema del coinvolgimento di tutti gli operatori, del riconoscimento delle professionalità, della loro partecipazione alla vita aziendale e alla definizione delle scelte strategiche. Invece da tutti i provvedimenti del governo, non ultimo la legge 30, riemerge con forza quella concezione culturale che vede il lavoro nel sociale come un’attività scarsamente professionale, non produttivo, eseguibile per lo più da donne in quanto “naturalmente portate” a prendersi cura, in una condizione che tende a realizzare non un’idea di servizio organizzato, con adeguati standard qualitativi e adeguati livelli retributivi, bensì il modello di famiglia allargata. Bisogna invertire questa tendenza consolidando un modello alternativo in grado di valorizzare l’investimento nel sociale nel quale finalmente il lavoro di assistenza e cura alla persona sia ricondotto a quella funzione che oggi non viene riconosciuta dall’attuale governo anche quando affronta il tema delle cosiddette “badanti” e lavoratori e lavoratrici immigrate. Una questione rilevante che non può essere affrontata se non attraverso la regolarizzazione del rapporto di lavoro e con programmi formativi. Inoltre decisivo è il rapporto con la rete dei servizi pubblici rivolti in particolare alla domiciliarità e alla non autosufficienza utilizzando anche forme di certificazione delle competenze presso gli enti locali.
Poniamo quindi l’esigenza di un grande investimento per la valorizzazione delle professionalità socio-sanitarie e del lavoro di cura come presupposto per una qualificazione dell’intero servizio. Investimento che richiede un riconoscimento in termini retributivi e di diritti. Da questo punto di vista diventa necessario ragionare di indicatori della ricchezza oltre i termini e le forme tradizionali: quantificare, ad esempio, quanto il lavoro di cura, retribuito e non retribuito, incide sul PIL comporterebbe una rivisitazione di tanti parametri non ultimi quelli stabiliti a Maastricht.
10. Proprio il valore che noi attribuiamo alla dimensione locale, non subìta ma assunta come decisiva per conoscere la realtà e la dimensione dei bisogni, conferma la nostra azione di contrasto verso la riforma costituzionale in via di approvazione. È, questo, un atto che produce una rottura dell’unità del paese e del carattere universalistico delle prestazioni sociali; si approfondiscono le disuguaglianze territoriali; si afferma un’idea della sussidiarietà tra i diversi livelli istituzionali in cui lo stato rinuncia a funzioni e competenze decisive nei campi fondamentali della sanità e dell’istruzione. Si afferma un principio di competizione tra le diverse realtà territoriali a scapito, naturalmente, di quelle meno forti economicamente e socialmente. Anziché una sinergia tra i diversi attori economici, pubblici, privati, no-profit, si afferma una subalternità e un arretramento del pubblico in un campo delicato come quello della produzione di servizi e prestazioni sociali. In questa ottica il pubblico è sussidiario al privato.
10.1. Per noi, al contrario, sono proprio universalismo ed equità che danno senso e valorizzano la dimensione locale. Per questo è importante che lo Stato definisca i diritti e la loro esigibilità, attraverso la definizione dei LEA e il corredo di risorse per renderli realizzabili su tutto il territorio, superando i gravi squilibri che penalizzano in particolare i cittadini del Mezzogiorno ; alle Regioni e agli Enti Locali spetta l’organizzazione della loro fruibilità. Il prelievo regionale e locale deve integrare tali risorse e coprire servizi aggiuntivi a quelli previsti dai livelli essenziali.
In questo modo si fa convivere l’interesse e la solidarietà nazionali, con la vitalità di sistemi territoriali che rendono il loro welfare fattore di sicurezza e di sviluppo.
10.2. Un ruolo efficace, autorevole, del pubblico consente di integrare e valorizzare le esperienze del privato, profit e no-profit, evitando, come invece accade oggi, che esse vengano utilizzate per comprimere i costi dei servizi e come strumento di dumping contrattuale ciò può essere superato anche attraverso la costruzione di contratti di settori che riguardino lavoratori pubblici e privati con l’obiettivo dell’omogeneizzazione dei trattamenti contrattuali normativi ed economici. Un nuovo e diverso rapporto tra pubblico e privato può configurarsi, invece, attraverso lo strumento dell’accreditamento.
Alcune regioni hanno operato affinché strutture private entrassero nel “mercato” del socio-sanitario indipendentemente da ogni accertamento sui requisiti di legge e con l’unico obiettivo di spostare risorse dal pubblico al privato. Un uso corretto e razionale dell’accreditamento consente di ribaltare questa logica. L’accreditamento infatti va subordinato alla programmazione regionale e al possesso di requisiti di qualità e appropriatezza delle prestazioni. È così che si evitano costi pesanti alla collettività e il privato si integra agli indirizzi definiti dalla programmazione regionale. Inoltre, le politiche di corresponsione di buoni e voucher alle famiglie vanno ripensate proprio per evitare che invece di essere elemento di “personalizzazione” nell’offerta di servizi diventino semplicemente un veicolo per il ridimensionamento dell’offerta pubblica di questi e veicolo strisciante di privatizzazione e mercificazioni degli stessi.
11. Nel territorio, inoltre, può e deve trovare espressione piena la partecipazione democratica dei cittadini e delle loro associazioni. Non solo per esercitare una puntuale verifica sull’attività svolta e qualità delle prestazioni erogate ma anche per affermare un principio: il destinatario di un servizio è portatore anche di idee, competenze, risorse che possono e devono entrare in una compiuta relazione con il servizio stesso. Da questo punto di vista la partecipazione è parte fondamentale del servizio stesso. Occorre applicare positivamente quanto previsto dall’articolo 118 della Costituzione che assegna allo Stato, alle Regioni e alle città metropolitane il compito di favorire l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per attività di interesse generale. E’ questo il terreno su cui si rafforza il ruolo del volontariato, dell’associazionismo e della cooperazione sociale in quanto soggetti in grado di intercettare e interpretare le esigenze della comunità locale e fornire proposte e progetti adeguati a soddisfarle. Il protagonismo e la partecipazione effettiva delle forze sociali e del terzo settore alla realizzazione di una efficiente rete di servizi richiede una amministrazione pubblica forte ma non autoreferenziale, che incoraggi, sostenga e regoli l’iniziativa di chi si impegna nella società civile, che indichi e faccia rispettare parametri di qualità dei servizi al fine di soddisfare i bisogni dei cittadini e i diritti di chi lavora, e di utilizzare al meglio le risorse di coloro che dedicano una parte del loro temo al lavoro volontario.
12. Tutto questo ha bisogno di dare forza e qualità alla contrattazione. Per rendere sempre più concreta ed efficace la battaglia del sindacato per la difesa e l’estensione dei diritti diventa fondamentale la contrattazione territoriale sulle politiche sociali. In primo luogo perché qui si contrattano temi e questioni sempre più centrali per la qualità della vita delle persone e delle famiglie. In secondo luogo la contrattazione deve essere sempre più confederale e capace di rendere piena la partecipazione dei soggetti interessati a partire dallo SPI e dalle categorie, in particolare quelle che rappresentano i lavoratori direttamente coinvolti. In tal modo la titolarità negoziale di ogni struttura acquista più forza e qualità in quanto realizza “confederalità” cioè la capacità di rappresentare interessi diversi e portarli a sintesi: lavoratori, operatori, utenti, giovani, donne, anziani, migranti. Interessi diversi che vanno rappresentati in un progetto capace di tutelare ed estendere i diritti civili e sociali, individuali e collettivi.
E’ in questo contesto che va sviluppata l’azione di tutela individuale indispensabile a garantire l’esigibilità dei diritti civili e sociali individuali e collettivi, attraverso un sistema di servizi integrato, fortemente connesso all’azione confederale e delle categorie.

8^ TESI
LE POLITICHE CONTRATTUALI

1. La nostra proposta sulle politiche contrattuali deve essere rigorosa e funzionale all’insieme della linea politica assunta su tutto ciò che riguarda la nostra rappresentanza e il nostro ruolo di sindacato generale.
Essa non può prescindere da luci ed ombre che hanno caratterizzato i risultati della contrattazione negli anni più recenti.
1.1 Vi è stata mediamente una dinamica delle retribuzioni nette inferiore a quella inflazionistica, per effetto di una iniqua politica fiscale e per la mancata restituzione del fiscal drag che ha prodotto una reale erosione delle retribuzioni, nonché per una esigua distribuzione della produttività. A ciò va aggiunto un sistema parametrale e di inquadramento fermo nel tempo; il ritorno ad un addensamento sostanziale nei livelli di minor professionalità, collegato al diffondersi di varie forme di lavoro precario e atipico; il sistematico ritardo nei rinnovi dei CCNL, per responsabilità delle controparti pubbliche e private che hanno di fatto prodotto un allungamento dei tempi di rinnovo; la mancata revisione del meccanismo di calcolo dell’inflazione riferita ai meccanismi ISTAT e quindi alla composizione e al peso delle voci del paniere.
1.2 Contro questi effetti negativi, che hanno pesato sulla tenuta dei salari, la CGIL ha condotto una convinta battaglia a sostegno dei redditi e per la difesa del CCNL, a partire dal superamento delle regole sull’inflazione programmata. L’articolazione dei risultati va inserita nel contesto e nelle responsabilità politiche sopra descritte.
2. La contrattazione di secondo livello nell’ultimo decennio è stata prevalentemente insufficiente, con risultati diversificati all’interno delle categorie e fra Nord, Centro e Sud e che ha risentito della incidenza della profonda crisi industriale in particolare degli ultimi 4 anni.
2.1 I dati disponibili indicano una copertura media nazionale pari ad un terzo dei lavoratori e delle lavoratrici e sull’insieme dei comparti. I risultati ottenuti evidenziano differenze qualitative e quantitative fra aziende, settori e territori, anche per le diverse modalità e struttura contrattuale con le quali si è esercitata la contrattazione decentrata.
2.2 Nel Pubblico Impiego, nei settori dell’istruzione, dell’università e della ricerca la generalizzazione della contrattazione decentrata è stata resa possibile dalla definizione per legge del sistema della rappresentanza sindacale e delle RSU.
Oggetto della contrattazione è stato l’intervento sull’insieme delle condizioni delle prestazioni del lavoro, sulle questioni retributive e professionali messe in discussione anche dal taglio dei trasferimenti finanziari al sistema delle autonomie locali e dall’attacco al sistema dell’istruzione e della ricerca pubblica.
2.3 Nello stesso settore dell’impiego pubblico si assiste ad un attacco al sistema contrattuale attraverso il tentativo di tornare indietro dalla contrattualizzazione del rapporto di lavoro, che rimane punto fermo per il sindacato, per un sistema fatto di interventi legislativi che snaturano il ruolo e la funzione della stessa contrattazione in nome di “un primato” dell’interesse della politica non solo sulle tematiche relative al rapporto di lavoro (come è successo per il Corpo Nazionale dei Vigili del Fuoco o come il Governo intende prefigurare per i docenti dopo la cancellazione della contrattazione e delle RSU), ma con la massiccia estensione dello spoil system, che stravolge i principi di imparzialità e di interesse generali sui quali si basa l’agire pubblico.
3. I limiti più evidenti di cui dobbiamo prendere atto riguardano il ruolo e lo sforzo esercitato su tutto ciò che attiene l’Organizzazione del Lavoro e i cambiamenti prodotti dai numerosi processi di ristrutturazione, trasformazione, ed esternalizzazione che hanno modificato e frantumato buona parte del sistema delle imprese nell’ultimo decennio. A ciò va aggiunto l’insufficiente coinvolgimento nella contrattazione delle nuove e diverse forme di lavoro.
3.1 In questo contesto si sono altresì accentuati i differenziali salariali tra donne e uomini. Infatti, sia la selezione degli obiettivi del salario derivante dalla contrattazione di secondo livello, che la caratteristica dei modelli organizzativi del lavoro hanno limitato la partecipazione delle donne alle dinamiche del lavoro nei singoli luoghi di lavoro.
3.2 Tali processi hanno contribuito ad indebolire il nostro ruolo contrattuale, ed a favorire in molte realtà fenomeni che devono essere rigorosamente contrastati, in particolare:
3.3 - l’introduzione di doppi regimi contrattuali che hanno contrapposto lavoratori in forza a lavoratori di futura assunzione;
3.4 - aumenti salariali legati a parametri, indici ed obiettivi non verificabili che hanno impedito alle RSU di esercitare un controllo reale sulla prestazione lavorativa;
3.5 - l’insufficiente rapporto fra contrattazione del salario e controllo degli orari, ambiente, organizzazione del lavoro;
3.6 - frequenti erogazioni unilaterali.
4. E’ ormai un dato incontestabile il fatto che in Italia si è verificato uno spostamento della ricchezza prodotta verso i profitti e le rendite e che le retribuzioni hanno complessivamente subito un arretramento tra i più significativi in Europa.
4.1 Tutto questo in una fase in cui, il processo di ristrutturazione delle imprese a livello globale ha indebolito spiazzandoli i sistemi di regolazione legislativa nazionale provocando una tendenza alla decontrattualizzazione dei rapporti tra capitale e lavoro.
Ciò che si intende imporre è l’assunzione di un modello di competitività basato sulla compressione dei costi e dei diritti quale valore assoluto nell’evoluzione aziendalistica delle relazioni industriali.
4.2 La legislazione, di matrice “liberista”, enfatizza il processo di frantumazione della forma impresa, nella moltiplicazione delle tipologie dei rapporti di lavoro e nel rapporto diretto fra azienda e singolo lavoratore. Nella tendenza alla individualizzazione del rapporto di lavoro, così come nella frammentazione delle figure giuridiche di impresa, sta la crisi della stessa “forma-contratto” quale compromesso fra interessi diversi ed asimmetrici, asimmetria che sta alla base dell’organizzazione collettiva degli interessi più deboli.
4.3 Vi è quindi la necessità di far fronte alla linea di decontrattazione e di individualizzazione, attraverso il superamento e la sostituzione di tale legislazione “liberista”.
4.4 Anche per queste ragioni il sindacato deve saper mettere in campo una proposta alta di politica contrattuale per ristabilire autorità negoziale, autorità salariale, autorità normativa, a tutti i livelli della contrattazione e per tutte le tipologie di lavoro, in linea con le nostre politiche sul mercato del lavoro.
5. Il nostro Congresso si caratterizza nella centralità del valore del lavoro.
La politica contrattuale, le sue funzioni, i suoi compiti e il ruolo del sindacato ne sono una parte determinante.
5.1 Il nostro punto di riferimento deve essere il lavoro e le opzioni prodotte in questi anni che hanno avuto la loro massima espressione all’assemblea di Chianciano nel Maggio del 2004 e il documento del Direttivo Nazionale del 30 settembre 2004.
5.2 Occorre rilanciare una campagna di rinnovata politica contrattuale in grado di riunificare il valore del lavoro che abbia carattere acquisitivo e non solo difensivo, sia per le retribuzioni che per i diritti rivendicando altresì investimenti per l’innovazione di prodotto e di processo quale fattore determinante per assicurare qualità e continuità produttiva e salvaguardia dell’occupazione.
6. La CGIL nel ribadire che il sistema di regole contrattuali deve essere unico per tutti i contratti pubblici e privati, ritiene prioritario definire ruolo, compiti e funzioni:
- del contratto Nazionale
- della contrattazione decentrata
- del collegamento con le politiche negoziali in Europa
- della contrattazione confederale territoriale.
Pertanto la Cgil conferma che:
6.1 Fermo restando la necessità di rivendicare e verificare una nuova e diversa politica redistributiva a sostegno del lavoro dipendente e l’intervento per la fiscalizzazione contributiva dei salari più bassi, il contratto collettivo nazionale di lavoro rimane lo strumento universale e indispensabile per concorrere alla difesa e all’incremento del potere d’acquisto delle retribuzioni e per aumentare i salari contrattuali, nonché per pari diritti su tutto il territorio nazionale, per tutte le lavoratrici e i lavoratori.
6.2 Occorrono regole, parametri e criteri certi di riferimento per tutti i contratti collettivi nazionali di lavoro, a partire dall’inflazione effettiva e prevedendo altresì l’utilizzo di quote di produttività, affinché le categorie, nella loro autonomia, definiscano le piattaforme per i rinnovi dei CCNL, al fine di stabilire le richieste salariali e dare risposte alle esigenze di modifica delle parti normative e alla revisione degli inquadramenti professionali.
6.3 Per incrementare il reale potere d’acquisto ed stendere i diritti, vanno respinte regole e modelli che portano ad un federalismo contrattuale finalizzato a determinare differenze per aree geografiche e territori, oltre a ridurre la possibilità di accrescere le condizioni di parità di trattamento e di tutela per tutti i lavoratori e le lavoratrici, indipendentemente dalle caratteristiche del rapporto di lavoro.
6.4 Il livello nazionale della contrattazione, non va depotenziato alla luce degli assetti istituzionali e della titolarità delle competenze introdotte già con la Riforma del Titolo V° della Costituzione ed attribuite alle Regioni ed alle Autonomie Locali soprattutto a seguito dell’inaccettabile ipotesi di stravolgimento della costituzione in particolare con la “devolution” in tema di sanità ed assistenza; istruzione; polizia locale.
6.5 Il contratto nazionale rimane garante delle modalità concrete con le quali la valorizzazione del lavoro contribuisce all’uniformità delle prestazioni su tutto il territorio nazionale. Anche queste motivazioni rafforzano la nostra contrarietà al cosiddetto “federalismo contrattuale”.
6.6 Al contrario occorre un progetto che indichi modalità e qualità di riaggregazione del ciclo produttivo per consentire parità di costi contrattuali e contributivi. Riduzione significativa delle tipologie e del numero dei contratti, definendo percorsi condivisi per regole che vincolano l’individuazione delle aree o delle filiere contrattuali di riferimento, al fine di consolidare la contrattazione sull’intera organizzazione del lavoro, evitando la pluralità contrattuale e rispondendo alle nostre proposte di politiche produttive e di sviluppo.
6.7 Il ricorso alle continue esternalizzazioni e frantumazioni, agli appalti e subappalti avvenuti prevalentemente per ridurre il costo del lavoro, e introdurre precarietà, ha contribuito ad attivare un insopportabile dumping contrattuale. Una nuova e più incisiva legislazione sugli appalti può contribuire alla difesa dei diritti, salute, sicurezza, legalità.
7. Per rafforzare l’autorità normativa occorre inoltre realizzare:
7.1 Un sistema informativo in un quadro di democrazia industriale in grado di rendere esigibile il diritto alla conoscenza preventiva al fine di consentire la contrattazione d’anticipo a monte dei processi di ristrutturazione e quindi delle strategie d’impresa.
Nella disponibilità di strumenti per la contrattazione di anticipo, si colloca il nostro ruolo per il governo dei processi, che non può declinarsi né alla presenza del sindacato nei consigli di amministrazione né tanto meno con forme di partecipazione azionaria dei lavoratori.
7.2 Vanno affermati ed individuati strumenti e sedi, a partire dagli osservatori, nei quali le parti sociali possono monitorare, verificare e controllare l’andamento della produttività e la sua distribuzione.
7.3 - Normative nel CCNL sulla politica degli orari, in grado di contenere tutti gli aspetti di deregolamentazione introdotti dalla legislazione italiana, e stabilire regole di sostegno alla contrattazione di secondo livello.
Il sistema degli orari, delle turnazioni e delle flessibilità deve favorire la possibilità di conciliare per uomini e donne il tempo di vita ed il tempo di lavoro, e ricostruire organicamente una strategia di riduzione del tempo di lavoro.
Sulla politica degli orari la Cgil è impegnata al controllo ed all’intervento rigoroso sulle direttive e sui dispositivi europei e ritiene indispensabile impedire che si sviluppi una pratica derogativa “in pejus” rispetto alla stessa normativa europea.
E’ inoltre importante riprendere il controllo degli orari di fatto e del ricorso agli straordinari nonché rilanciare la strategia dei contratti di solidarietà quale uno degli strumenti per contenere le riduzioni del personale, e la tempo stesso difendere l’integrità dell’impresa in una fase di crisi industriale e di aumento delle delocalizzazioni.
7.4 - Ridefinire un sistema classificatorio nazionale per l’individuazione delle professionalità nonché un sistema di regole e di rimandi alla contrattazione aziendale per il loro riconoscimento.
7.5 - Azioni positive per pari opportunità per le lavoratici al fine di impedire discriminazioni di genere.
7.6 - Istituzione di un osservatorio nazionale con articolazioni decentrate sulle discriminazioni razziali o etniche, per promuovere azioni finalizzate ad eliminare comportamenti discriminatori nei luoghi di lavoro.
7.7 - Formazione e riqualificazione prevedendo, nei rimandi a livello decentrato, normative (orari, luoghi, modalità) in grado di rendere esigibile questo diritto a tutti i lavoratori ed alle lavoratrici, e compatibili con i carichi familiari che incidono prevalentemente sulle donne.
7.8 - Un sistema di contrattazione e di controllo su tutto ciò che attiene ai piani della sicurezza e ad azioni preventive per la tutela della salute e per impedire infortuni, malattie professionali, morti sul lavoro
7.9 - Bilateralità: gli enti bilaterali non sono sede di contrattazione e pertanto non possono sostituirsi ad essa, ma devono al contrario applicare le intese avvenute tra le parti sociali nelle sedi proprie del negoziato.
Gli enti bilaterali non devono svolgere funzioni di certificazione a partire dai rapporti di lavoro, né tanto meno gestire il mercato del lavoro.
8. La contrattazione decentrata, va estesa e riqualificata a partire da quella aziendale o di gruppo, di posti di lavoro nel caso del pubblico impiego, del sistema dell’istruzione e della ricerca. Non va ridimensionata ma al contrario resta per noi la scelta centrale per consegnare ai delegati ed ai lavoratori ed alle lavoratrici un ruolo effettivo di intervento e di negoziato sull’organizzazione del lavoro, salute e sicurezza, condizioni di lavoro, orari, riconoscimento della professionalità e tutto ciò che il CCNL demanda ai luoghi di lavoro, nonché distribuire aumenti salariali variabili e con quote da consolidare attraverso l’individuazione di obiettivi raggiungibili, parametri ed indicatori da concordare nella contrattazione, collegati ai risultati del lavoro e della sua organizzazione, in grado di consentire la loro verificabilità e il loro controllo.
8.1 L’esigenza è quella di mettere in campo una contrattazione che superi in via definitiva la contraddizione che vuole gli stessi lavoratori attenti e responsabili, mentre nello stesso tempo li si priva sia di certezze attraverso le tante forme di lavoro precario, che di autonomia attraverso la perdita del governo del proprio tempo di lavoro e di vita, con particolare riferimento alle lavoratrici.
8.2 Questa riconquista della capacità di intervento autonomo dei lavoratori sulle loro condizioni di lavoro, sull’organizzazione della produzione o delle modalità di offerta dei servizi pubblici, è tanto più importante se consideriamo che in conseguenza di una ricerca esasperata da parte delle imprese e in buona parte della pubblica amministrazione, di una competitività fondata sui costi, si è determinato un intervento unilaterale, solo in parte contrastato dalla contrattazione, che ha fatto arretrare prassi condivise sulla gestione degli orari di lavoro, sui carichi di lavoro, sulla qualità del lavoro in gran parte espressa con l’uso di una diffusa precarietà.
8.3 Nella contrattazione di secondo livello vanno riaffermati i valori di solidarietà, equità, uguaglianza, di rispetto delle differenze (di genere, etniche, ecc.) come fondamento per una iniziativa di portata strategica e coerente con l’iniziativa della Cgil, che abbia l’obiettivo di realizzare percorsi di inclusione, nel ciclo produttivo e organizzativo dell’impresa di tutti quei lavoratori precari e ai margini del ciclo per effetto delle riorganizzazioni dell’impresa, dei limiti avuti nelle contrattazioni precedenti e per effetto dei danni provocati dalla nuova produzione legislativa.
8.4 Nel lavoro pubblico la contrattazione integrativa deve rappresentare lo strumento principale per valorizzare il lavoro, costruendo un rapporto fra la contrattazione ed un nuovo spazio pubblico sul versante della tutela dei diritti delle persone, dell’efficacia e della trasparenza dell’agire pubblico.
9. Territoriale, di sito, di distretto, di filiera.
9.1 Fermo restando la scelta prioritaria del livello aziendale, la Cgil, al fine di estendere la contrattazione decentrata, in particolare nelle piccole imprese, ritiene che i contratti nazionali di categoria potranno prevedere il ricorso anche a questo livello decentrato, il suo confine e le materie ad esso demandate. Non deve essere un livello aggiuntivo a quello aziendale, né tanto meno contrapposto. Saranno i singoli comparti e relativi CCNL a definire, sulla base della struttura del modello produttivo, le sue articolazioni e i cambiamenti verificatisi in questi anni sia nel pubblico che nel privato e nel terziario, ad individuare le modalità, le caratteristiche e gli strumenti dell’eventuale livello territoriale.
9.2 Alcune esperienze si sono consolidate, altre vanno ridefinite individuando ambiti di sperimentazione anche per far fronte ad una filiera produttiva lunga ed articolata in più tipologie contrattuali. La Cgil ritiene pertanto utile - al fine di respingere la logica del supermarket contrattuale che produce dumping a sfavore dei lavoratori - dare vita ad una stagione che nell’ambito della contrattazione decentrata sperimenti azioni contrattuali intercategoriali, fermo restando le rispettive titolarità contrattuali.
9.3 In questo contesto la contrattazione di sito, dovrà mettere in rete le varie strutture sindacali aziendali presenti nell’unità produttiva, per apportare politiche rivendicative in grado di armonizzare e migliorare le condizioni di lavoro.
9.4 L’obiettivo di consolidare ed estendere l’esercizio della contrattazione per i livelli decentrati (territoriali, sito, distretto, filiera) impone l’individuazione di forme organizzative in grado di assicurare un allargamento della rappresentanza e dei diritti sindacali.
10. la Cgil considera vincolante la validazione certificata dei lavoratori e delle lavoratrici su tutto ciò che attiene sia le piattaforme che gli accordi in cui sono coinvolti.
11. Europa
11.1 Fermo restando ciò che viene proposto nelle tesi sulle politiche europee, occorre prevedere un livello contrattuale per la dimensione sovranazionale dell’impresa, che affronti la nuova dimensione societaria in ambito europeo, che intervenga su tutto ciò che ha prodotto la forte delocalizzazione e il nuovo assetto delle multinazionali, che preveda strumenti e regole per le direttive sul lavoro e sul ruolo dei CAE, degli organismi previsti dalle direttive sulla Società Europea, che consegni al sindacato una funzione contrattuale e non solo informativa.
11.2 La CES deve svolgere un ruolo di soggetto negoziale, al fine di promuovere azioni utili alla realizzazione di una politica di coesione sociale a livello europeo.
11.3 Una delle questioni più importanti che va messa al centro del confronto negoziale sovranazionale, in particolare per le imprese multinazionali riguarda la responsabilità sociale dell’impresa nei confronti dei diritti dei lavoratori e delle lavoratrici, dell’ambiente e dell’economia, in tutti i paesi in cui opera.
12. Il ruolo confederale nella contrattazione territoriale e sociale
12.1 Dalle politiche di sviluppo, alle politiche contrattuali emerge con forza la necessità di aprire una nuova fase per la contrattazione confederale nel territorio, anche attraverso processi democratici di coinvolgimento dei lavoratori, delle lavoratrici, dei pensionati delle pensionate.
12.2 Tale scelta è ancora più urgente per il peso che le politiche sociali territoriali e di sostenibilità e sicurezza ambientale hanno assunto sia per quanto riguarda gli effetti della redistribuzione del reddito sia per quanto riguarda le più specifiche politiche dello sviluppo locale. Per tale obiettivo è necessario coinvolgere le associazioni che possono contribuire alla costruzione di uno sviluppo di qualità sia dal punto di vista sociale, occupazionale, ambientale.
12.3 Il fine è quello di progettare e definire politiche di sviluppo locale del territorio, affrontando i temi della reindustrializzazione, della finalizzazione specialistica di filiera, di nuovi insediamenti industriali, della riunificazione del lavoro, dello sviluppo sostenibile quindi legato ai problemi dell’ambiente e della tutela del territorio, della crescita professionale con la formazione d’anticipo e i fabbisogni formativi; ed affrontando le politiche sociali e dei servizi come fattore di sviluppo nel territorio.
12.4 La programmazione negoziata e la contrattazione sono necessarie affinché vi sia un uso delle risorse che premino il territorio ed evitino dispersioni a pioggia, responsabilizzando le istituzioni in una funzione di effettiva promozione dello sviluppo.
12.5 L’intreccio di queste politiche devono vedere la confederazione assumerle in accordo con le categorie compreso lo SPI, trovando risposte di rappresentanza e di reinsediamento confederale nel territorio.
12.6 L’insieme del ruolo della contrattazione confederale territoriale e ruolo della contrattazione nei posti di lavoro, deve consentire all’insieme del sindacato di elevare la sua capacità di rappresentanza e di riunificazione degli interessi di uomini e donne, siano essi lavoratori, cittadini, studenti, pensionati, immigrati ragazzi e ragazze che costituiscono il nuovo contesto del mondo del lavoro e della società in cui viviamo.
13. Le nostre proposte sulle politiche della contrattazione e il ruolo negoziale del sindacato dovranno continuare a misurarsi con Cisl e Uil al fine di costruire obiettivi comuni e progetti unitari in grado di sostenere e difendere le esigenze ed i bisogni delle lavoratrici, dei lavoratori, delle pensionate e dei pensionati del nostro paese.

9^ TESI
LA PARTECIPAZIONE QUALE ASSE STRATEGICO PER RIPROGETTARE IL PAESE E I VALORI DELLA CONFEDERALITA’, DELL’AUTONOMIA, DELL’UNITA’

1. La società italiana ha bisogno di più partecipazione. Occorre, perciò, invertire il trend di questi ultimi anni contrassegnato da una progressiva e costante riduzione degli spazi di partecipazione, conseguenza, anche, dell’avanzare di quell’idea di democrazia plebiscitaria che ha connotato la politica del centro-destra. Una prova decisiva di questa tendenza è rappresentata dall’allontanamento, sempre più marcato, dalla vita politica e sociale di soggetti che ne erano stati protagonisti, come le donne. Ma il problema c’è stato e c’è anche per il mondo del lavoro. Allargare, quindi, gli spazi di partecipazione per rendere più forte la democrazia.
1.1 Occorre riattualizzare tutti quei canali che hanno consentito anni addietro una grande e proficua stagione di partecipazione democratica, a livello istituzionale, politico e sociale. Bisogna intanto colmare il deficit di democrazia e rappresentanza determinato dall’assenza delle donne, ai vari livelli politici, sociali ed istituzionali del paese. E’ necessario invertire una tendenza, nient’affatto intrinseca alle riforme istituzionali ed elettorali decise per il sistema delle regioni e delle autonomie locali. L’elezione diretta dei Sindaci, dei Presidenti di regioni e province non determina, infatti, in sé una caduta di partecipazione. In tutti i casi occorre battersi contro ogni insorgere di problemi di questa natura – ridando in particolare ruolo e funzione alle Assemblee elettive - e sviluppare iniziative che consentano ad ogni cittadino ed a ogni cittadina di concorrere da protagonista ai processi decisionali. Allo stesso modo occorre riaprire canali di partecipazione effettiva dell’utenza nei grandi sistemi pubblici – sanità, scuola e politiche sociali, innanzitutto – attraverso le loro associazioni di rappresentanza. Così come il terzo settore – per il quale si conferma la necessità, prevista anche nella recente intesa Cgil-Cisl-Uil e Forum del terzo settore, di garantire ai lavoratori che vi operano diritti e piena applicazione dei contratti di lavoro - innanzitutto nella sua componente di volontariato, deve effettivamente rappresentare esso stesso uno strumento della partecipazione democratica, in particolare alla progettazione della politica sociale. Ma non vi può essere partecipazione diffusa se non si realizzano condizioni che ne favoriscano lo sviluppo anche nei partiti. C’è bisogno che i nuovi partiti, nati nell’ultimo quindicennio e che hanno cambiato radicalmente la fisionomia delle vecchie forme di rappresentanza, siano luoghi di rappresentanza dei cittadini e delle cittadine e di promozione di idee, culture e valori, a partire dalla riaffermazione di una nuova centralità del lavoro.
1.2 Più partecipazione deve significare anche più contrattazione e quindi più sindacato. C’è bisogno di consolidarla, estenderla e qualificarla. C’e bisogno, in sostanza, anche in questo caso di invertire una tendenza di questi ultimi anni, in particolare relativamente agli orientamenti del governo centrale e di quelli regionali e del sistema delle autonomie che lo hanno imitato. Occorre, perciò, più contrattazione territoriale e sociale in grado non solo di meglio tutelare e difendere le condizioni di vita e di reddito delle lavoratrici e dei lavoratori, delle pensionate e dei pensionati, ma anche di incidere sugli assetti economici, sociali, ambientali e di potere di un territorio. E’ in questo modo che si completa il già citato quadro di partecipazione e di protagonismo nell’assetto dei grandi sistemi pubblici. Allo stesso modo c’è bisogno anche di relazioni sindacali strutturate – entro le quali ricondurre anche la legge 146/90 e i suoi interventi correttivi allo stretto ambito dei servizi essenziali e superando la logica dell’iter regolamentazione - ed improntate ad una effettiva volontà di considerare il sindacato un elemento essenziale ed imprescindibile della dialettica impresa-lavoro.
1.3 Nei luoghi di lavoro la democrazia e la partecipazione rappresentano l’asse strategico per definire nuovi assetti di potere. Se l’imperativo oggi è la valorizzazione del lavoro; se rimane di prima grandezza l’obiettivo di accrescere il potere dei lavoratori nei luoghi della produzione e negli uffici; se libertà e uguaglianza passano anche dalla conquista del diritto alla formazione permanente e alla piena accessibilità dei lavoratori nei processi formativi acquisitivi di nuovi saperi; se la disarticolazione del mercato del lavoro ci consegna una battaglia per nuovi diritti e tutele, è vitale, innanzitutto, affermare il valore della democrazia e allargarne progressivamente gli spazi. Allo stesso modo occorre operare su tre fronti assolutamente distinti: estendere la contrattazione ben oltre i confini finora definiti; completare l’elezione dei Rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza e di quelli territoriali e generalizzare le Rappresentanze sindacali unitarie e renderne più forte e qualificato l’esercizio del potere contrattuale e la rappresentanza, anche attraverso l’acquisizione delle necessarie competenze sociali per intercettare la condizione di disagio sempre più diffusa fra i lavoratori; conquistare nuove forme di partecipazione che definiscano una effettiva democrazia industriale, in grado di affermare diritti certi ed esigibili, innanzitutto, di informazione sulle strategie di impresa.
1.4 Nel sindacato occorre definire per via endosindacale le forme della partecipazione democratica degli iscritti e dell’insieme delle lavoratrici e dei lavoratori, delle pensionate e dei pensionati alle scelte che compie. Questo accordo endosindacale è urgente poiché non è più rinviabile la definizione di un quadro di regole certe ed esigibili che consentano la periodicità triennale del voto per l’elezione delle Rsu e ai lavoratori di decidere sulla validazione certificata delle piattaforme e degli accordi – anche attraverso lo strumento referendario - definendo così una condizione di base uniforme per l’insieme delle categorie e per le Confederazioni. La Cgil conferma quindi il suo impegno a ricercare – nella commissione costituita proprio a questo scopo – l’accordo unitario e a che intervenga - proprio per le ragioni che attengono al rapporto tra democrazia sindacale e democrazia del paese e per l’esistenza di un pluralismo sindacale che travalica i confini di Cgil, Cisl e Uil - una specifica legislazione che può essere di recepimento dell’accordo stesso. E’ altresì necessario riflettere sulle forme di validazione democratica delle piattaforme rivendicative e delle intese in tema di contrattazione sociale sul territorio.
2. Più partecipazione e più politica per il sindacato significa necessariamente anche più confederalità. La profondità della crisi e le grandi trasformazioni degli assetti produttivi nel mercato del lavoro, in generale nell’economia e nella società, rimandano, infatti, a un nuovo grande problema di riunificazione del mondo del lavoro. Si riproducono, cioè, condizioni che la Cgil ha già affrontato nel passato, ponendosi, anche allora, esattamente lo stesso obiettivo – l’unificazione del mondo del lavoro - che ci prefiggiamo oggi. Rappresentare e difendere gli interessi delle lavoratrici e dei lavoratori, delle pensionate e dei pensionati, nelle condizioni attuali, significa perciò innanzitutto darsi strategie, obiettivi e pratiche rivendicative che ricompongano un quadro di unità di ciò che il neo-liberismo intende frantumare. E ciò è possibile solo rendendo ancor più forte l’idea di confederalità che rappresenta la caratteristica principale della storia e della cultura del sindacalismo italiano.
2.1 Un’idea alta di confederalità si invera dentro una progettualità che ne definisca con precisione l’identità e la proposta politica. La scelta di caratterizzarci come sindacato di programma definito al XII Congresso mantiene inalterata la sua attualità; anzi, dalla crisi del paese ne trae ancor più forza. E, allo stesso modo, la centralità dei diritti decisa dall’ultimo Congresso, rappresenta l’orizzonte valoriale entro il quale praticare oggi politiche per l’unificazione del mondo del lavoro.
2.2 Tale progettualità rappresenta, altresì, condizione per l’autonomia del sindacato. Le ragioni dell’autonomia affondano certamente nella storia della Cgil e non solo; così come la sua difesa, nelle varie fasi storiche, ha poggiato su diverse motivazioni; è stata garantita dall’impegno personale delle compagne e dei compagni che ne hanno portato la responsabilità, ma oggi, accanto a tutto ciò, prevale certamente l’aspetto della progettualità intesa come idea generale di società e proposta politica concreta per realizzarla. In questo senso va assunta come vincolo essenziale. E questo, soprattutto, in presenza dell’evolversi del sistema politico italiano. Il formarsi di schieramenti politico-programmatici fra loro alternativi, rende, infatti, ancor più indispensabile la definizione di un progetto sindacale col quale interloquire - pena l’essere esposti, in particolare agli occhi di chi rappresentiamo, a rischi oggettivi di subalternità – per verificarne la vicinanza o la distanza dai programmi degli schieramenti. Nessuna indifferenza, di conseguenza, ma autonomia piena. Naturalmente la definizione di un tale progetto non riguarda solo la Cgil. Anzi, in questo senso, la ricerca unitaria di convergenze su obiettivi programmatici rappresenta un punto essenziale per difendere con più efficacia l’identità del sindacalismo italiano di soggetto sociale, di natura confederale, pienamente autonomo.
2.3 La stessa unità sindacale non può prescindere dalla costruzione di un progetto comune. Lo stesso insopprimibile pluralismo esistente fra le Confederazioni – e che poggia su ragioni eminentemente sindacali, relative, tra l’altro, a come storicamente ciascuna ha inteso l’esercizio della funzione sindacale – se non si misura con questa ricerca comune, anziché rappresentare – come effettivamente rappresenta - una ricchezza, rischia di costituire un ostacolo insormontabile. Per questo avanziamo a Cisl e Uil la proposta di lavorare assieme alla definizione di una Carta programmatica dei valori del sindacato confederale. Valori che, nel caso dell’assoluto rispetto del pluralismo e della gelosa difesa dell’autonomia, sono comuni da tempo, anche se declinati in modo diverso all’interno di ogni Organizzazione. La Carta programmatica pare a noi un modo serio – che non rimuove problemi, difficoltà, rotture di questi anni, per la cui soluzione o ricomposizione non vi è alternativa se non nella ricerca convinta di una necessaria, limpida e democratica pratica di mediazione - per non rassegnarsi a un’idea di divisione.

10^ TESI
UNA CGIL DEMOCRATICA E RAPPRESENTATIVA

1. La Cgil in questi anni è cresciuta. E’ cresciuta numericamente; si è rafforzato il suo legame con le lavoratrici e i lavoratori e le pensionate e i pensionati; si è esteso il suo peso politico. Milioni di persone guardano ad essa con fiducia. Il XV Congresso, forte di questi risultati, può con serenità e coraggio avviare una riflessione seria su alcuni problemi e limiti che sono di fronte a noi – a partire dallo sviluppo del proselitismo fra le lavoratrici e i lavoratori e le pensionate e i pensionati - e una prima ricerca di soluzioni che i futuri organismi dirigenti dovranno portare a compimento. L’Assemblea nazionale di organizzazione, da tenersi entro il prossimo biennio, rappresenterà la sede per affrontare compiutamente l’insieme delle problematiche di politica organizzativa.
1.1 La riflessione congressuale deve innanzitutto misurarsi col permanere di difficoltà a che l’Organizzazione possa compiutamente definirsi di donne e di uomini. Grandi passi avanti sono stati compiuti, prima con la politica delle quote e poi con la definizione della norma antidiscriminatoria. Ciò ha certamente consentito l’ingresso delle donne negli organismi dirigenti ai vari livelli, ma non la loro adeguata presenza negli esecutivi e, ancor meno, l’assunzione di responsabilità generali.
Sono questi un limite e una contraddizione, assolutamente da superare, su quel cammino che valorizza la differenza come l’architrave della nostra rappresentanza e democrazia.
1.2 La disarticolazione del mondo del lavoro, i giganteschi processi di precarizzazione, la frammentazione dell’assetto produttivo in piccole e piccolissime aziende, l’enorme numero di disoccupati e di espulsi dal processo produttivo, la presenza massiccia di migranti, pongono alla Cgil il tema della rappresentanza di queste lavoratrici e lavoratori. La nostra struttura organizzativa è, infatti, ancora sostanzialmente quella costruita negli anni del fordismo e del taylorismo, scarsamente perciò incline a ridefinirsi in forme e modalità in grado di intercettare il nuovo che emerge dalla reale composizione del mondo del lavoro e degli assetti produttivi. In questo senso, pur confermando l’articolazione secondo le matrici storiche – orizzontale e verticale – nelle quali è strutturata la Confederazione, occorre, innanzitutto, rideclinarle verso una più forte matrice a rete e realizzare un riposizionamento strategico e funzionale in grado di corrispondere ai processi di sviluppo ulteriore della rappresentatività della Cgil. Questa forma organizzativa avrà bisogno di essere precisata e sperimentata, definendone innanzitutto i confini e le relazioni che i singoli nodi della stessa debbono essere in grado di generare, con l’obiettivo di rendere maggiormente flessibili ed adattabili le maglie di un modello organizzativo, seppur all’interno della riaffermazione della sua organica unitarietà. Aggregazioni di strutture preesistenti e accorpamenti tra categorie - che comunque vanno decisi, in ragione dello sviluppo delle filiere produttive, tecnologiche, dell’affinità merceologica, dell’indispensabile riduzione del numero dei contratti – rappresenteranno un’ulteriore elemento di adeguamento ed innovazione del modello organizzativo.
1.3 Ma accanto a ciò occorre anche affermare davvero una nuova centralità del territorio. Tutti i grandi processi di trasformazione in atto ci indicano proprio a quel livello il massimo delle trasformazioni economiche, sociali, produttive e il conseguente nuovo bisogno di sindacato. Più sindacato e più contrattazione, perciò. Nel primo caso inteso come un più radicato insediamento sociale; nel secondo come capacità di incidere negli assetti economici, infrastrutturali, produttivi, del mercato del lavoro, nonché in quelli riferiti alle politiche sociali. Ciò comporta, di conseguenza, più confederalità, innanzitutto intesa come un quadro definito e condiviso, ai vari livelli, di strategie e di politiche entro il quale ogni struttura eserciti le proprie prerogative. Ma significa anche poter contare su una Cgil fortemente decentrata e reinsediata nel territorio, con le sue categorie e i suoi servizi, capace di intercettare e rappresentare nella loro complessità i bisogni là dove essi prendono forma e visibilità. Serve, dunque, una organizzazione che si decentri e si doti di strutture, di risorse e capacità fortemente e capillarmente insediate nel territorio.
1.4 Ma più confederalità anche come capacità di ricercare, in una nuova logica di flessibilità organizzativa, le forme e i modi di una più efficace rappresentanza del mondo del lavoro. E’ il caso di milioni di lavoratrici e di lavoratori che sono oggi in Italia migranti. Anche il versante della loro rappresentanza nella Cgil deve accompagnare – ancor meglio precedere – la definizione di politiche di accoglienza e di cittadinanza. Grandi passi avanti sono stati compiuti e più forte è oggi il nostro insediamento tra di loro. La battaglia per la regolarizzazione e gli stessi servizi che abbiamo attivato hanno facilitato questo processo. Rimane, però, il problema di una assoluta marginalità della presenza di compagne e compagni migranti in ruoli di direzione della Confederazione. Questo produce uno scarto evidentissimo di rappresentanza che, alla lunga, può vanificare il lavoro fin qui svolto, proprio perché esiste un rapporto diretto fra rappresentanza reale e qualità e forza delle politiche di una Organizzazione. La stessa qualità della nostra contrattazione sulla molteplicità delle problematiche dei migranti, può rischiare perciò di rinsecchirsi. Rendere credibile questo proponimento significa assumere in modo vincolante un processo in grado, in tempi certi, di qualificare proporzionalmente la presenza degli immigrati negli organismi dirigenti.
1.5 Anche la partecipazione delle giovani generazioni alla vita e alla direzione della Cgil è assolutamente inadeguata. Questa parte del mondo del lavoro è quella che più subisce gli effetti negativi delle trasformazioni perpetrate dalle politiche neo-liberiste. E proprio le giovani e i giovani hanno, perciò, maggior bisogno di rappresentanza. Peraltro, sono portatrici di valori e di convincimenti politico-sociali nuovi e a volte diversi da quelli storicamente affermati in Cgil. E nessuna operazione “illuministica” compiuta dalle generazioni precedenti può sostituire una loro effettiva rappresentanza. Occorre, pertanto, ricercare soluzioni che evitino il riprodursi per la seconda volta di un salto generazionale che produrrebbe ancor più rilevanti conseguenze negative.
1.6 Pur se sancito in modo vincolante dallo Statuto confederale, il riequilibrio della rappresentanza di genere ha avuto un andamento incerto e non lineare nella composizione dei gruppi dirigenti delle diverse strutture orizzontali e verticali della Cgil. Si sono determinate preoccupanti battute d’arresto che vanno definitivamente corrette in occasione del congresso. L’Italia è ancora oggi tra le ultime nazioni nella graduatoria stilata dalle Nazioni Unite sulla parità tra i sessi: siamo indietro quanto a presenza delle donne nei luoghi della rappresentanza istituzionale e politica. Le condizioni materiali di vita delle donne stanno regredendo, importanti conquiste sono state messe in discussione da una produzione legislativa che non rispetta le donne, il loro ruolo nella società, le loro aspirazioni. La Cgil deve portare avanti con convinzione una politica per promuovere la presenza delle donne in tutti i luoghi decisionali. E deve farlo a partire dalla composizione dei suoi gruppi dirigenti a tutti i livelli.
1.7 La democrazia nella Cgil si fonda su molteplici pluralismi – a partire dal valore della differenza di genere, da quelli programmatici a quelli di struttura legati alla rappresentanza di interessi - e su un sistema di regole che ne garantiscono la piena legittimità e agibilità. Con la riforma dello Statuto operata dal XIII Congresso e la successiva definizione di regole per la nostra vita interna, la Cgil ha completato la transizione aperta dal superamento delle componenti di partito, realizzando una nuova e diversa fase di democrazia interna.
1.8 Si tratta ora di ragionare su uno sviluppo di questa fase in grado di ulteriormente rafforzare la nostra democrazia interna e di meglio rispondere innanzitutto ai problemi di rappresentanza, di partecipazione e di unità della Confederazione. Tre appaiono le problematiche - fra loro anche sufficientemente intrecciate – da analizzare e sulle quali aprire una proficua discussione nel Congresso: le modalità di selezione dei gruppi dirigenti; la funzione di garante del pluralismo affidata alla figura del Segretario generale; la distribuzione solidale delle risorse. Per quanto concerne la modalità di selezione dei gruppi dirigenti occorre innanzitutto trovare soluzioni certe ed esigibili – a partire dall’obbligatoria applicazione della norma antidiscriminatoria, anche nella composizione delle segreterie - in grado di rispondere ai problemi di rappresentatività qui sollevati. La norma antidiscriminatoria va quindi applicata e costituisce criterio di valida costituzione degli organismi esecutivi. Si tratta, poi anche, di rendere davvero centrale il ruolo degli organismi dirigenti nella selezione dei gruppi dirigenti. L’esperienza di questi anni ci consegna, infatti, uno squilibrio fra lo strumento della consultazione individuale e la sovranità dei Comitati direttivi. Essi sono stati spesso relegati sostanzialmente a luoghi di ratifica formale, col voto segreto, di decisioni che non li hanno visti davvero protagonisti. In sostanza, devono costituire luoghi di discussione collegiale ed esplicita sulle candidature, sulle ragioni per le quali venivano avanzate, sulla loro adeguatezza e rappresentatività, anche relativamente ai nostri pluralismi. E questa rappresenta un limite politico che, alla lunga, può condizionare la stessa costruzione e salvaguardia della nostra unità. Per quanto riguarda la figura del Segretario generale essa ha svolto una funzione primaria nella garanzia dell’unità e del pluralismo delle strutture. Questo però, combinato ai problemi riscontrati nelle modalità di selezione dei gruppi dirigenti, ha sovresposto la figura del Segretario generale nell’esercizio del diritto di proposta per la composizione della segreteria. Si corre il serio rischio che venga ridimensionata oggettivamente la piena funzione di rappresentanza degli esecutivi, col rischio di relegarli a pure funzioni di staff. Infine, occorre affrontare il tema dello squilibrio nell’utilizzo delle risorse. Questo, oltre a determinare una consistente diversità nell’esercizio effettivo delle funzioni sindacali - con evidenti problemi di insufficienza di alcune strutture rispetto alle necessità che sarebbero loro proprie – rischia di alterare anche i rapporti di autonomia ed eguaglianza tra le strutture e di influire oggettivamente anche sulla democrazia dell’Organizzazione.