Le tesi del XV congresso Cgil.
Le
tesi presentate da Epifani. Luglio 2005.
preambolo
Riprogettare il paese.
Lavoro,
saperi, diritti, libertà
1.
All’atto del XIV congresso la situazione del paese, della sua economia
e quella del lavoro e dell’occupazione presentavano un quadro denso
di difficoltà e problemi, ma anche di opportunità da cogliere.
E’ vero: un liberismo globale senza regole lasciava per intero intravedere
i suoi rischi per quanto riguardava gli effetti della globalizzazione, la
protezione dei diritti dei lavoratori, la possibilità di ricerca di
accordi e regole fra nord e sud del mondo, in un quadro di un commercio più
equo, ordinato e solidale.
L’Europa, uscita dal periodo che aveva portato alla moneta unica, si
esprimeva ancora con una impostazione alta di politica economica e sociale,
quella definita dagli obiettivi dell’agenda di Lisbona, tra problemi
e speranza si accingeva a misurarsi alla definizione di quello che sarebbe
poi diventato il Trattato costituzionale.
L’Italia nell’anno di maggiore sviluppo di commercio internazionale
(il 2000) cresceva meno degli altri paesi, continuava a perdere quote del
commercio mondiale, ma comunque registrava una crescita del Pil del 3%. Al
quale seguiva un anno in cui la crescita si attestava all’1,7%.
La coalizione di centrodestra aveva vinto le elezioni nel 2001, sostenuta
da un patto esplicito con la Confindustria, simboleggiato dal convegno di
Parma, e stava attivando i primi provvedimenti di politica economica e sociale:
quelli tesi a ridurre ogni vincolo per l’impresa; quelli che portavano
un attacco esplicito ai diritti dei lavoratori, con l’intervento sull’articolo
18; l’attacco alla scuola; e l’avvio di provvedimenti, quelli
dei cento giorni e la prima finanziaria, tanto inefficaci quanto dissipatori
di risorse e pieni di iniquità.
A distanza di quattro anni, la situazione del paese si presenta oggi con il
volto di una crisi profonda: dissesto produttivo ed industriale; recessione;
carenza di infrastrutture materiali e immateriali; assenza di politiche e
di strategie verso il Mezzogiorno; arretramento nella qualità della
scuola, della ricerca e dell’università; una politica sociale
che, senza affrontare i problemi dell’efficienza e della qualità
dell’offerta pubblica, attraverso una sistematica politica di riduzione
delle risorse, ha teso a colpirne il carattere universalistico e ha finito
per privilegiare un’offerta privata di bassa qualità e di alti
costi, senza attenzione verso le crescenti aree della povertà, del
disagio, della emarginazione.
E’ aumentata la precarietà, sono nate nuove forme di lavoro che
non offrono ai giovani alcuna garanzia per il loro futuro né sulla
qualità dell’occupazione né sui livelli retributivi.
L’Italia è oggi insieme un paese più disgregato, più
diviso, più insicuro dal punto di vista economico, di quello sociale,
del segno e del profilo della qualità della vita democratica e dell’etica
pubblica. Un paese dove sono aumentate le disuguaglianze e l’impoverimento
di ampi strati sociali fra cui i giovani, le donne e gli anziani. Un paese
dove la criminalità organizzata ha rialzato la testa e le illegalità
crescono.
Oramai come è evidente a tutti, anche a coloro che hanno tentato fino
all’ultimo di nascondere la verità dei processi e della situazione,
e di raffigurare un paese ideale non corrispondente al vero, l’Italia
si presenta come il grande malato dell’Europa, per le proprie condizioni
materiali e per quelle – in un rapporto di causa – effetto –
in cui versano giovani, lavoratori e pensionati.
Il XV congresso della Cgil vuole misurasi, innanzitutto, con la gravità
e la profondità della crisi del paese, nell’obiettivo e nella
necessità di definire una proposta e un progetto per la sua ricostruzione,
per la sua rinascita civile e morale, partendo, come giusto e doveroso per
una grande forza di rappresentanza del lavoro, dalla centralità del
valore del lavoro.
E’ importante richiamarsi alla centralità del valore del lavoro
non solo come portato della nostra rappresentanza, ma indicandolo come valore
di riferimento per l’intera organizzazione sociale, intendendo il lavoro
in tutte le sue forme, in alternativa alla centralità del mercato,
ridando forza – in questo modo – al concetto di “Repubblica
fondata sul lavoro” come tratto distintivo della nostra comunità
nazionale. Il lavoro e la conoscenza devono diventare il bene comune che orienta
una nuova e diversa fase dello sviluppo economico e produttivo.
La
globalizzazione e il ruolo dell’Europa
2. Una proposta di questa importanza non avrebbe fiato se non dovesse
prevalere a livello europeo e globale un’idea di sviluppo che assuma
come profilo la qualità e come limiti invalicabili i diritti umani,
del lavoro e la sostenibilità ambientale.
Al contrario l’enormità delle differenze tra Nord e Sud del mondo
si avvia alla ingovernabilità politica, mentre la sostenibilità
ambientale è già al limite e di per sé richiederebbe
di rivisitare il senso di uno sviluppo che espone l’umanità a
crescenti rischi e problemi.
Anche nei paesi economicamente avanzati crescono precarietà sociale
e insicurezza come risultato dell’impoverimento del lavoro dipendente.
Siamo convinti che le nuove interdipendenze e differenze rischiano di trasformarsi
in conflitti esasperati, tra paesi, continenti, lavoratrici e lavoratori,
se non in vera propria acqua di coltura di terrorismo e guerra, se non vengono
ricomposte in primo luogo sulla base del riconoscimento reciproco, principio
di laicità democratica.
In secondo luogo se non si svela il fallimento, testimoniato da tutti gli
indicatori di povertà e malessere nel mondo, della cultura politica
liberista, veicolata attraverso le scelte concrete di Banca Mondiale, FMI,
WTO e le multinazionali, che trova ancoraggio fondamentale nella soggezione
del lavoro e delle forme della sua rappresentanza, attraverso la negazione
della soggettività dell’uno e delle altre.
La strada da percorrere non può essere soltanto quella, pur importante
se correttamente intesa, delle clausole sociali e ambientali nel commercio
internazionale. Occorre che la rappresentanza sociale contribuisca a progettare
e costruire un diverso modello di sviluppo e di globalizzazione, agendo per
le vie che le sono proprie, la contrattazione collettiva nazionale e transnazionale
nelle imprese nazionali e transnazionali, recuperando attraverso questa via
soggettività, protagonismo e ruolo in processi che sembrano negarli.
Dalla capacità di sostenere questa sfida passa la possibilità
di arginare un senso comune pervasivo che, di fronte alle tante insicurezze
determinate dalla globalizzazione senza regole, sceglie la rassicurante e
peraltro illusoria certezza delle identità giocate contro altre identità,
delle chiusure, dei nuovi nazionalismi e integralismi sostenuti dai conflitti
tra le culture, degli antichi e nuovi protezionismi.
3.
D’altra parte l’esperienza dei paesi scandinavi dimostra che equità,
giustizia sociale, protezione sociale, rispetto dell’ambiente possano
essere volano di sviluppo e al contempo suoi limiti positivi scientemente
praticati; le politiche pubbliche gli strumenti necessari per realizzarli:
quella cultura politica, che è alla base di ciò che si intende
per “modello sociale europeo”, oggi segna il passo anche in Europa
sotto i colpi della congiuntura economica.
Al contrario l’Europa può fare molto su tutti i terreni decisivi
per il futuro della Comunità Internazionale, se sarà in grado
di andare avanti nella costruzione della propria dimensione politica e istituzionale,
valorizzando e non cancellando, come pure sta avvenendo diffusamente a livello
comunitario e nei singoli paesi, le caratteristiche del proprio modello sociale.
Il giudizio che abbiamo dato dall’inizio sul Trattato Costituzionale
firmato il 29 ottobre del 2004 a Roma, ha utilizzato una chiave di lettura
positiva, ma non semplicistica e che ne coglieva anche i limiti. Abbiamo valorizzato
l’aspetto più positivo, l’inclusione della Carta di Nizza
che definisce il profilo della cittadinanza europea come unione indivisibile
di diritti civili e sociali. Non abbiamo però mai taciuto le contraddizioni
ed i limiti del Trattato: l’assenza del ripudio della guerra; della
cittadinanza di residenza per gli immigrati per favorire quei decisivi processi
di convivenza e integrazione la cui centralità riemerge tragicamente
e quotidianamente; quella terza parte che rischia di negare le affermazioni
della Carta di Nizza. D’altra parte non tacere le contraddizioni aveva
e ha il senso di tenere aperta una prospettiva di miglioramento, delineando
i binari del percorso futuro, costruendo alleanze nella società per
recuperare deficit democratico, calo di consenso tra i cittadini e partecipazione
democratica.
Il voto negativo che ha accompagnato significativi referendum di recepimento
del Trattato stesso rivela molti problemi e ne nasconde di significativi.
Rivela il peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro in molti paesi
europei veicolato da scelte sbagliate di governi e imprese, scelte addossate
a Bruxelles e lontane dalla strategia di Lisbona, inaccettabili arretramenti
come la Direttiva Bolkestein, e nasconde al contempo tentazioni nazionaliste
di uscita dalla congiuntura internazionale. Ma l’interrogativo aperto
oggi di fronte alla politica progressista e al sindacato dei singoli paesi
europei e al sindacato europeo stesso, è come nell’erosione degli
stati nazionali, ambiti nei quali erano state scritte e agite le norme costituzionali
sociali del lavoro, sia possibile ricostruire a livello sovranazionale quella
stessa qualità democratica come vera risposta, importante anche se
parziale, all’allargamento come dumping sociale.
Perché in un mondo definitivamente interdipendente i diritti si difendono
soltanto se si estendono.
Abbiamo bisogno di un passo avanti per uscire dalla contraddizione in cui
ci troviamo: una Europa il cui spazio di mercato è sempre più
grande, la moneta sempre più sovrana, e la dimensione politica arranca,
insieme alla cultura politica e alla vocazione europea. Il futuro del modello
sociale europeo è legato alla dimensione politica dell’Europa:
non c’è modello sociale europeo se non c’è l’Europa,
non c’è l’Europa se non c’è una Costituzione
che la definisca politicamente. Abbiamo la consapevolezza che il sindacato
europeo debba giocare un ruolo forte nel riproporre l’Europa sociale
come prospettiva decisiva, la prospettiva cioè di un soggetto politico,
distinto da altri in virtù del proprio modello sociale e per questo
capace di favorire una globalizzazione equa, sviluppo sostenibile e pace nel
mondo. Una Europa in grado, anche per questo, di contrastare la visione di
una logica e di un potere unilaterale nel governo mondiale.
4.
La Cgil ha avuto e ha un ruolo molto importante nel movimento della pace,
che ha attraversato in questi anni l’Europa e il mondo.
Abbiamo sempre legato il nostro impegno al nesso tra affermazione della pace,
ripudio della guerra, tanto più nel principio della guerra preventiva
- affermata come teoria geopolitica unilaterale dell’amministrazione
repubblicana degli Stati Uniti - e possibilità di difesa, promozione,
estensione dei diritti del lavoro e dell’ambiente, tra pace dunque e
possibilità di sviluppo sostenibile in Italia, in Europa, nel mondo.
Per questo abbiamo definito la pace come strategia razionale di sopravvivenza
di un mondo globale interdipendente e su questo abbiamo costruito gli assi
della nostra politica internazionale e fondato giudizi, iniziative, mobilitazioni,
attraverso una crescita costante di cultura e sensibilità, spese nel
riaffermare in maniera nettissima il valore dell’articolo 11 della nostra
Costituzione.
Abbiamo avuto e abbiamo chiaro che la dimensione internazionale è oggi
il banco di prova della rappresentanza sociale e politica, e che difesa e
promozione di ciò che s’intende per modello sociale europeo,
alternativo al “modello liberista”, è la condizione necessaria
per proporre equità, solidarietà, diritti umani e del lavoro
come perno dell’organizzazione sociale a livello globale, e che ciò
ha a che fare con la riforma delle istituzioni internazionali, non solo quelle
politiche ma anche e soprattutto quelle economiche in modo che queste ultime
non contraddicano i buoni propositi delle prime.
E ancora che la cancellazione del lavoro, del suo valore della gerarchia dei
valori sociali, nel Nord ricco e nel Sud povero del mondo, come dimostrano
i dati OIL nell’indagine sul reddito da lavoro in ogni parte del mondo,
e quelli ancora più recenti sulle nuove schiavitù è il
punto fondamentale su cui si fonda la globalizzazione senza regole.
Abbiamo chiaro che il ripudio della violenza e del terrorismo, nel nome dell’integrità
e della dignità di ogni vita umana, è impegno fondamentale del
sindacato. Il terrorismo, che non ha mai giustificazione alcuna, riesce peraltro
facilmente ad attecchire tra miseria, povertà, guerra, in aumento e
non in riduzione oggi nel mondo. Ci è altrettanto chiaro che la convivenza
e il dialogo tra culture è la vera risposta all’insicurezza e
allo scontro di civiltà.
L’ultimo terribile attentato terroristico di Londra, dopo quelli dell’11
settembre e di Madrid, e non soltanto nel cuore di ciò che si intende
per occidente, dà ancora una volta il segno della gravità e
forza di questo fenomeno. Bandire ogni forma di violenza, affermare un’altra
e contrapposta idea dei rapporti umani, politici e civili è per la
Cgil impegno solenne e indiscutibile.
Un
paese sempre più in crisi
5. Non tutte le cause ed i problemi che affliggono il sistema produttivo
italiano, i ritardi nelle politiche di riforma, la situazione dei conti pubblici,
la qualità del nostro sistema di welfare e il suo carattere davvero
inclusivo sono ovviamente riconducibili alle politiche del governo di centrodestra
e a questa legislatura. Ma, se si guarda con attenzione alla situazione del
paese di quattro anni fa e alla condizione odierna e si compie una verifica
attenta delle scelte e delle politiche compiute dal governo, emergono in maniera
assolutamente esplicita e incontrovertibile le grandi responsabilità
ed i grandi errori che sono stati compiuti. Fino ad identificare la gravità
di questa crisi con il fallimento delle politiche del governo di Silvio Berlusconi.
Ad un paese che nel 2001 mostrava già segnali di rallentamento della
produzione e della crescita e che vedeva diminuite le proprie quote nel commercio
mondiale, non aveva alcun senso prospettare la possibilità - a breve
- di un nuovo miracolo economico e una fase di un turbo – sviluppo,
come, nell’ordine, il presidente del Consiglio, il Ministro dell’Economia,
il Presidente di Confindustria e il governatore della Banca d’Italia
irresponsabilmente fecero fra il 2001 e il 2002.
Un’economia, che già segnalava l’affanno degli investimenti
produttivi e della bassa crescita della produttività – a differenza
di quello che avveniva in Francia e Germania -, andava fin da allora sostenuta
con politiche di incentivazione e una cultura attenta al profilo della crisi
industriale e all’intervento sui fattori della produzione e la bassa
qualità dell’offerta di beni e servizi.
Il governo, invece, a partire dall’eliminazione dell’imposta di
successione sui grandi patrimoni, finiva per sostenere una politica ed una
cultura di segno opposto, tesa a difendere le posizioni della rendita ed i
vantaggi patrimoniali acquisiti.
Nel Mezzogiorno del paese e in tutte le aree con problemi di sviluppo che,
dopo anni di risveglio significativo, cominciavano a mostrare segni di rallentamento,
il governo operava la più irresponsabile scelta che si poteva compiere:
azzerare tutte le politiche e gli strumenti che avevano funzionato; si preparava
a cambiare quattro volte in quattro anni normative e procedure per il sostegno
agli investimenti.
L’ingresso della moneta unica, l’euro, determinava, negli stessi
mesi, una visibile speculazione sul fronte del rialzo dei prezzi, attaccando
e indebolendo ulteriormente la capacità di spesa dei redditi da lavoro
e da pensione. Il governo di centrodestra non interveniva come sarebbe stato
necessario, ma sceglieva esplicitamente di lasciare correre i fenomeni speculativi,
contando su un tasso di inflazione più alto per riequilibrare i saldi
dei conti pubblici e stimolare per questa via illusoria lo sviluppo. In realtà
in questo modo il governo finiva però – invece – per concentrare
ricchezze e profitti su una parte sola del paese, favorendo il capitale finanziario
e la rendita speculativa.
Di fronte ad una condizione del lavoro, che il rallentamento dell’economia
e il quadro della globalizzazione senza regole avrebbe portato verso una crescente
instabilità dell’occupazione e della precarietà del lavoro,
il governo sceglieva di operare con l’intervento sull’articolo
18 e poi con la legge 30 un’azione di destabilizzazione del mercato
del lavoro con l’obiettivo di rendere più deboli le tutele e
la funzione della contrattazione collettiva. E con la legge Bossi Fini faceva
proprie tutte le paure e le spinte irrazionali nei confronti del fenomeno
dell’immigrazione, arrivando a inaccettabili politiche di “accoglienza”
e spesso a forme e atti privi di qualsiasi rispetto verso il valore della
vita umana e della sua dignità; e riproponendo, nei fatti, una concezione
di un diritto duale che disconosce ai migranti fondamentali diritti di cittadinanza.
Insieme, con le leggi del Ministro Moratti, il governo consolidava l’idea
di una scuola che separa le persone ed i loro percorsi sulla base delle condizioni
del nucleo familiare e cancellava le più significative conquiste degli
ultimi decenni; tempo pieno, innalzamento obbligo scolastico, primato della
scuola pubblica.
Non a caso queste scelte si sarebbero poi definite nel tentativo di negare
–nei fatti - il riconoscimento del ruolo e della funzione del sindacato
e del ruolo delle rappresentanze sociali. Prima cercando di dividere le organizzazioni
sindacali, poi tentando di sminuirne forza e autorevolezza negoziale.
Questo disegno veniva intrecciandosi strettamente con l’abbandono di
una cultura delle regole, con il rifiuto di rispettare il ruolo delle istituzioni
indipendenti e della funzione delle autonomie locali, con una politica legislativa
in cui i conflitti di interesse e gli interessi di parte finivano per diventarne
il segno distintivo.
Insieme, la maggioranza dava vita ad un progetto di controriforma costituzionale
che invece di portare a conclusione in maniera condivisa il quadro della infinta
transizione istituzionale dell’Italia, interveniva in maniera esplicita
sull’alterazione dei delicati meccanismi fra gli equilibri degli organi
costituzionali del paese, e su una scelta di devoluzione che finiva per ingigantire
i problemi, pure presenti nell’ attuazione della riforma del Titolo
V della Costituzione.
Infine, in un quadro europeo ed internazionale segnato dall’incapacità
di costruire un profilo di governance e di riforma multilaterale delle istituzioni,
il governo di centrodestra finiva per isolarsi in Europa, perdere credibilità
verso gli osservatori ed i mercati internazionali; e con la decisione di portare
le proprie truppe nel territorio iracheno, seguito all’ambiguità
tenuta di fronte all’intervento armato, rompeva con una decennale tradizione
di equilibrio e di attenzione vero il mondo islamico, allontanandosi dalle
scelte compiute – negli stessi mesi – dai governi francese e tedesco,
tradizionali punti di riferimento della comune solidarietà europea.
La cultura diffusa della rottura della solidarietà e della coesione
sociale, l’ampliamento della illegalità e della prevaricazione
– anche con l’allentamento della prevenzione e dei controlli pubblici
- ha indebolito il tessuto sociale, accentuando la solitudine e l’abbandono
dei soggetti più deboli, colpendo tra tutti il diritto reale al lavoro
delle persone con disabilità. Il clima generale di difficoltà,
incertezza, sfiducia nel futuro condiziona pesantemente la vita e le scelte
personali e collettive, quelle dei consumi e quelle degli investimenti.
Con particolare determinazione, questo governo ha proceduto con politiche
e azioni particolarmente penalizzanti per le donne: la precarizzazione del
lavoro dei giovani e in modo particolare delle giovani, l’alta concentrazione
di lavoro femminile in settori fortemente esposti alla concorrenza internazionale
e/o caratterizzati da prestazioni dequalificate e a basso reddito, la progressiva
riduzione della qualità e della quantità dello stato sociale,
fino al suo progressivo, e programmato, smantellamento, hanno ricreato un
clima di irrigidimento dei ruoli, nuove forme di ghettizzazione delle donne,
attraverso una visione familistica dell’organizzazione sociale, che
la storia e le battaglie politiche, sociali, culturali avevano messo profondamente
in discussione.
6.
A tali esplicite responsabilità ed errori, concorreva in maniera
diretta la direzione della Confindustria, che finiva incautamente per sostenere
quelle scelte di politica economica, che avrebbero poi portato al tracollo
produttivo degli ultimi anni, e al sostanziale arresto dello sviluppo nel
Mezzogiorno.
E’ evidente oggi la grande responsabilità che il sistema delle
imprese ebbe in quel frangente. Disse SI all’intervento sull’articolo
18, SI agli interventi che rafforzavano rendite e patrimoni, SI a quei cambiamenti
che avrebbero penalizzato il Mezzogiorno, SI a provvedimenti su previdenza,
salute, sicurezza e ambiente, SI al disegno di isolare e di umiliare le posizioni
della Cgil. Correttamente, d’altra parte, occorre dire che di questo
non porta la
responsabilità solo il vertice della Confindustria di allora, ma più
in generale il mondo dell’impresa, chiusa nella preoccupazione che tendeva
a scaricare sui diritti e sui costi i problemi che si vedevano arrivare. Finiva
così per prevalere l’esistenza, quindi, di una cultura che era
portata a scambiare le cause con gli effetti, senza interrogarsi fino in fondo
sulle responsabilità che le imprese italiane avevano avuto nel gettare
al vento le opportunità successive alla grande svalutazione della lira
del 1992.
La nuova direzione della Confindustria ha rappresentato per le imprese il
tentativo di uscire da questo bilancio fallimentare e dal clima di scontro
sociale che aveva alimentato, contro la Cgil, e che aveva determinato la firma
del contratto separato, contro la Fiom.
Tale tentativo che ha consentito un dialogo reciprocamente fondato sul rispetto,
il raggiungimento di accordi importanti con Cgil, Cisl e Uil in materia di
politiche di sviluppo, di formazione e ricerca, sul Mezzogiorno, ed una grande
capacità di accordi territoriali che hanno riguardato tutto il paese,
ha dovuto tuttavia fare i conti con le difficoltà di un mondo imprenditoriale,
colpito dalla profondità e dalla durata della crisi, non sostenuto
da politiche pubbliche realmente efficaci. Tutto questo da un lato ha paralizzato
la possibilità di fare avanzare i contenuti degli accordi sottoscritti,
anche di fronte ad una scelta del governo che non li ha saputi né voluti
recepire, e dall’altro ha determinato un irrigidimento dei comportamenti
del sistema delle imprese ai tavoli dei confronti contrattuali aperti, frutto
insieme di una scelta che sembra ostinarsi a muovere su una linea sbagliata
e arretrata, con il rischio di ripetere gli errori del passato.
D’altra parte, le ultime vicende del capitalismo italiano, i tentativi
di scalata al sistema bancario, per il controllo dei gruppi editoriali, sono
espressione di un profondo rivolgimento degli assetti e degli equilibri di
potere.
Sembrano premiati da queste scelte settori e aziende che si sono affermati
a partire dall’uso della rendita fondiaria e immobiliare, a scapito
dei settori industriali e manifatturieri esposti alla concorrenza internazionale.
Questa è la conferma di una doppia patologia: il nostro capitale di
rischio, quando può, tende ad orientarsi verso monopoli protetti, con
profitti garantiti. In altri casi usa la leva dell’indebitamento per
favorire scalate e posizioni di comando, finendo per accapigliarsi per aree
di business economico sempre più asfittiche e sempre più ristrette,
ma contemporaneamente ad alto tasso di redditività.
In questo contesto, una politica di investimenti tesa all’innovazione
dei prodotti e dei processi, alla ricerca e sviluppo, alla scelta dei nuovi
mercati, alla crescita dimensionale delle imprese incontra la sua prima resistenza
proprio in una parte importante della cultura dell’imprenditoria e della
finanza.
Non vanno comunque sottaciuti gli sforzi e le politiche di segno contrario
che in un’altra parte dell’impresa italiana cercano di affermarsi.
A questa parte del mondo imprenditoriale, che chiede rispetto delle regole
e della trasparenza del mercato, che pone per la prima volta in maniera inedita
e interessante il passaggio da una cultura legata alla rendita ad una legata
agli investimenti e alle attività produttive, la Cgil guarda con interesse,
nella convinzione che - al di là della differenza negli interessi rappresentati
- con queste imprese è possibile un confronto su comuni obiettivi di
cambiamento e di diversa politica economica.
La sfida che la Cgil lancia alla Confindustria attiene alla individuazione
di un modello di sviluppo fondato sulla qualità dei fattori e diversamente
orientato, attraverso cui ricostruire, in un percorso corretto, le condizioni
della produttività e della competitività e della responsabilità
sociale delle imprese.
Valorizzazione della risorsa lavoro, investimenti su e nei saperi, sostegno
all’offerta anche attraverso politiche pubbliche mirate e selettive,
sono gli assi di una strategia fortemente alternativa alla scelta di una competitività
fondata sulla riduzione dei costi, su un’offerta marginale e dequalificata,
sulla riduzione dei diritti e la precarizzazione del lavoro.
Il
ruolo della Cgil
7. Di fronte al precipitare della crisi ed ai tentativi messi in
campo per ridurre il peso ed il ruolo dei diritti dei lavoratori, per minare
la coesione sociale e operare vere e proprie controriforme, il XV congresso
riconosce la straordinaria capacità che hanno avuto la Cgil, i suoi
iscritti, i suoi militanti, i suoi quadri, nel sostenere un profilo di analisi,
di critiche, di proposte, di mobilitazione e di lotta, in grado di corrispondere
alla dinamica vera dei processi reali, consentendo così di tenere aperta
la strada del cambiamento e dell’alternativa alle politiche fallimentari
del governo di centrodestra.
Prima di chiunque altro, la Cgil ha colto per tempo la dimensione interna
dei processi di globalizzazione mondiale e dei rischi che avrebbe portato.
E prima di altri, con lo sciopero del febbraio del 2003, indicò con
nettezza al paese quello che appariva allora il rischio del declino industriale,
indicando nel contempo proposte, impostazioni di politica economica e nodi
da risolvere per evitarne le conseguenze.
In questi anni la Cgil è stata uno dei soggetti determinanti per la
difesa dei diritti del lavoro e della cittadinanza, per contrastare la precarietà,
per impedire l’attuazione di riforme sbagliate nel campo della previdenza,
della prevenzione, delle politiche di accoglienza, della formazione, della
scuola e dell’università. Qui ha saputo costruire il più
duraturo e importante schieramento sociale che ha attraversato tutto il paese,
che ha visto giovani, insegnati, studenti e ricercatori mobilitarsi unitariamente
nel nome della difesa dell’istruzione pubblica e della qualità
dell’offerta formativa, contro le leggi Moratti.
Il 23 marzo ha segnato per il paese la più alta e straordinaria manifestazione
della soggettività politica del lavoro e della sua centralità
sociale. Per la Cgil è fondamentale tenere alte anche per il futuro
le due grandi questioni di quella giornata. La difesa dei diritti e il legame
fra questi e la libertà. E’ stata proprio la convinzione della
centralità dei diritti come fondamento della libertà di tutti
a rappresentare il valore simbolico e civile di un messaggio e di un impegno
che ha saputo legare generazioni diverse, condizioni sociali e di reddito
spesso distanti e unificare persone e interessi nel nome di un valore condiviso.
Lo stesso impegno, la Cgil, lo ha speso in difesa del rapporto fra la libertà
informazione ed i più profondi valori della democrazia, opponendosi
alle leggi su misura e difendendo il pluralismo dell’informazione, la
libertà dell’informazione e il ruolo del servizio pubblico. La
stessa cosa è avvenuta sui temi della giustizia e della legalità.
In queste scelte ed in queste iniziative, le donne e gli uomini della Cgil
hanno incontrato tanti altre donne e tanti altri uomini. Quelli presenti nei
movimenti, nei social forum – tra cui quello europeo di Firenze - i
giovani, tra cui tanti cattolici, impegnati nel volontariato e nell’azione
sociale e hanno lavorato per la costruzione di uno spazio sociale aperto,
senza barriere ideologiche, muri religiosi o ostacoli al dialogo interculturale,
i quali spesso sono stati frapposti da altri. Lo abbiamo fatto convinti della
rilevanza politica della partecipazione civile, per realizzare quella qualità
della democrazia cui aspiriamo; con la stessa convinzione che sta alla base
della scelta di promuovere e sostenere l’Auser.
Dopo le dure divisioni precedenti e seguenti al patto per l’Italia e
all’accordo separato nei meccanici, la Cgil – giustamente- ha
ricercato nei limiti del possibile e del giusto, la ripresa di una ricerca
e di una iniziativa unitaria con Cisl e Uil, nella coscienza che l’unità
del sindacalismo confederale nelle condizioni di crisi e disgregazione del
paese può – se legata a contenuti condivisi e iniziative efficaci
di azione- rappresentare un punto di riferimento più largo e più
forte alle domande di cambiamento e di rappresentanza.
La Cgil ha fatto proprie scelte e mobilitazioni importanti per la democrazia
di tutti: quali la difesa della laicità dello Stato, la partecipazione
democratica alle scelte collettive e, insieme con Cisl e Uil, si è
battuta contro la revisione costituzionale, fino ad annunciare con chiarezza
il suo NO all’eventuale referendum confermativo.
Si deve alla Cgil anche la ripresa dell’iniziativa e dell’attenzione
attorno ai temi della legalità e della sicurezza. La decisione unitaria
di celebrare il 1 maggio del 2005 nel quartiere di Scampia ha voluto rappresentare
il simbolo di una scelta che vede impegnate tutte le nostre strutture, in
tutto il paese, a sostegno delle denunce di ogni illegalità, contro
ogni abbassamento nella tensione della lotta verso la criminalità organizzata
e il brodo di cultura di cui si nutre, verso ogni compiacenza e collusione.
Il XV congresso della Cgil esprime tutto il proprio apprezzamento per il coraggio
che molti delegati ed iscritti della Cgil dimostrano quotidianamente nel denunciare
fenomeni illegali, nel contrastarli, assumendosi spesso rischi in prima persona.
Infine, sia pure fra le difficoltà per il rallentamento dell’economia,
le scelte del governo e le posizioni del sistema delle imprese, la Cgil si
è battuta per la difesa e la qualificazione delle politiche contrattuali,
a partire
dall’affermazione forte del valore del contratto collettivo nazionale
di lavoro e dalla sovranità contrattuale del sindacato, sia nei settori
privati che in quelli pubblici. Anche in questo campo, quando si leggeranno
meglio i raffronti e si potrà tirare un bilancio verificato dell’azione
contrattuale, si potrà apprezzare per intero il valore di questo impegno.
Di fronte ai nuovi processi produttivi, tecnologici e di mercato, ai mutamenti
nelle condizioni di lavoro, alle modifiche normative intervenute, l’impegno
verso una più forte contrattualizzazione del rapporto di lavoro, una
più rigorosa scelta di unificazione e ricomposizione di cicli produttivi
e tutele, l’estensione della contrattazione sociale su base territoriale
rappresentano per la Cgil obiettivi complementari per dare forza e prospettiva
al disegno di una rinnovata stagione di politica rivendicativa e contrattuale;
e postulano la necessità di una riflessione – già avviata
da diverse strutture regionali e territoriali – sulla riforma dei profili
organizzativi.
Una
proposta e un progetto alto
8. Proprio la coerenza e l’autorevolezza del proprio ruolo
e la capacità avuta nell’individuare, prima di altri, il progressivo
decadimento del paese, mettono oggi la Cgil nella condizione di chiedere un
forte, deciso e radicale cambiamento.
Per questo la Cgil si rivolge da un lato alle forze politiche e dall’altro
alle altre confederazioni sindacali, alle autonomie locali, al sistema delle
imprese, a tutti i soggetti della rappresentanza sociale perché condividano
questa esigenza e favoriscano una politica di cambiamento.
L’Italia è davvero giunta ad un bivio: se non si cambiano le
scelte, i valori e le priorità, il paese finirà davvero per
allontanarsi dall’Europa e precipitare in una crisi senza soluzione.
Il XV congresso della Cgil indica il bisogno di un progetto alto, fatto di
valori, scelte, contenuti, obiettivi e strumenti, determinazioni e passione
civile per la ricostruzione e la rinascita dell’Italia.
Questo vuol dire, innanzitutto, determinare le condizioni per riscrivere il
patto della cittadinanza, le basi sociali dei diritti e dei doveri, il profilo
di una nuova etica e responsabilità pubblica, una pratica di democrazia
partecipata, il ripristino di una cultura delle regole e del rispetto delle
prerogative istituzionali di ognuno.
Un progetto di cambiamento come questo richiede – per l’appunto
– non operazioni di cosmesi o di aggiustamento delle scelte compiute
dal governo di centrodestra, ma il bisogno di un cambiamento profondo, fondato
su alcuni assi fondamentali:
• la centralità del lavoro e la sua qualità;
• l’obiettivo di una via alta allo sviluppo, fondata sulla conoscenza,
l’innovazione, la formazione, la sostenibilità, spostando gli
investimenti dalla rendita alla innovazione e ricerca di prodotto;
• una programmazione democratica e partecipata dello sviluppo, nel quadro
di un rafforzamento del welfare, inteso esso stesso come fattore di sviluppo
e di redisrtibuzione, e di una politica fiscale diversamente orientata ;
• il rilancio della centralità del Mezzogiorno, da cui ripartire
per un nuovo sviluppo produttivo, occupazionale e sociale;
• un ruolo di nuovo forte dei soggetti della rappresentanza sociale,
e tra questi del sindacato e della Cgil, che sapranno essere, nella propria
autonomia, all’altezza dei problemi posti da queste politiche di trasformazione.
9.
Il primo obiettivo di una politica di cambiamento deve essere la
lotta alla precarietà del lavoro che, per le sue dimensioni, le sue
conseguenze sociali, è oggi la piaga più insostenibile della
condizione di molte lavoratrici e molti lavoratori e finisce per permeare
di sé la dimensione sociale della precarietà, a partire dalla
condizione dei giovani, e di una intera generazione.
La Cgil ritiene fondamentale accompagnare uno straordinario e graduale processo
di riconversione economica e produttiva con una politica di solida e stabile
occupazione. Un lavoro dotato di diritti e tutele, anche dentro la copertura
del contratto nazionale, è fattore di competitività nel modello
economico, produttivo e sociale di un’Italia e un’Europa che connotano
– anche in questo – il profilo della propria identità.
Solo questa prospettiva può ridurre ed eliminare le forme di precarietà
per i giovani, per gli anziani, per i tanti lavoratori migranti, costretti
a vivere spesso in condizioni di forzata illegalità. E per impedire
che sulla condizione femminile si scarichino insieme gli effetti della crisi
industriale, le scelte sbagliate nel campo del welfare e la totale assenza
di ogni politica tesa a conciliare tempi di vita e tempi di lavoro.
Le caratteristiche stesse della crisi e delle trasformazioni espongono la
condizione delle donne oggi e per il futuro a due rischi che vanno invece
prevenuti: una crescente collocazione verso le fasce di lavoro domestico e
di cura, un’accentuata debolezza nei settori a più estesa concorrenza
internazionale.
La stessa ampiezza progressiva della crisi industriale e produttiva, i fenomeni
di delocalizzazione, i trasferimenti di produzione nei paesi di più
basso costo e minori diritti, rende necessaria una politica di sistema che
ne anticipi e ne corregga le tendenze. Occorre rivendicare la piena applicazione
dell’articolo 41 della Costituzione che lega la responsabilità
d’impresa a quella sociale, intervenire sui problemi aperti a livello
internazionale, definendo un compiuto quadro di riforma degli ammortizzatori
sociali, di estensione dei diritti del lavoro, di scelte fiscali in grado
di premiare le corrette scelte aziendali e di colpire quelle sbagliate.
Fa parte integrante di questa battaglia contro la precarietà l’intervento
per prevenire infortuni e incidenti nel lavoro, che espongono oggi la condizione
dei lavoratori nel nostro paese ad una insopportabile esposizione ai fattori
di rischio e di nocività. E l’impegno per ridefinire totalmente
nuove e alternative
proposte per le politiche di accoglienza e di inserimento per i lavoratori
migranti.
10. La crisi industriale presente, il bisogno di cambiare
qualità delle specializzazioni produttive, l’esigenza di favorire
politiche di sostegno alla ricerca, all’innovazione, alla crescita dimensionale
delle imprese, raccordandosi con le scelte di politica industriale e di sviluppo
dei più grandi paesi dell’Unione Europea, pone l’esigenza
di un vero e proprio progetto per la ricostruzione delle basi produttive,
delle infrastrutture materiali e immateriali e dei servizi del paese.
L’obiettivo di rafforzare una logica di sistema del paese, di fronte
alle debolezze del sistema industriale, riposa su un ruolo dell’attore
pubblico e dell’efficienza di mercato che sappia orientarsi verso la
qualità dell’offerta e con contenuti tecnologici sempre più
alti, che solo una programmazione democratica della crescita e dello sviluppo
sono in condizione oggi di determinare. Senza questa politica è anche
illusorio pensare di ridurre la distanza che separa le aree a reddito più
elevato da quelle con reddito più basso. E le stesse potenzialità
di sviluppo del Mezzogiorno verrebbero estremamente compromesse.
Questo obiettivo primario va sostenuto da un’esplicita volontà
politica, da un quadro di strumenti adeguati e da un metodo fortemente partecipato.
Un progetto dal profilo così alto richiede innanzitutto una disponibilità
di risorse finanziarie da indirizzare verso investimenti e fattori di crescita,
a partire da quelli immateriali; e un intervento per ridurre i costi delle
diseconomie.
Per questo il XV congresso della Cgil indica al paese la necessità
di un nuovo patto fiscale, teso a consolidare il patto di cittadinanza e quello
di uguaglianza fra cittadino e cittadino e fra cittadino e istituzioni, fondato
su scelte che esplicitamente assumano la crescita dei redditi da lavoro e
da pensione, le politiche di sostegno agli investimenti e ai trasferimenti
selettivi verso le imprese, come propri riferimenti essenziali. Sempre più
attuale, in questo quadro, si dimostra la proposta della Cgil di un intervento
di fiscalizzazione contributiva sui salari più bassi, di restituzione
del drenaggio fiscale, di riequilibrio della tassazione fra rendite, patrimoni
e redditi da lavoro. Il paese ha bisogno di una nuova politica redistributiva
fra tutti i redditi, che costituisca indubbio sostegno alle politiche contrattuali.
La natura di questo patto postula insieme due condizioni. Che non vi siano
logiche dei due tempi, tra risanamento e redistribuzione, e che l’equità
da ritrovare sia frutto di una scelta che corregge una politica che ha colpito
i redditi da lavoro e da pensione più di ogni altra forma di tassazione.
Troppo in questi anni su questo terreno non ha funzionato. Finanza creativa,
condoni a ripetizione, cartolarizzazioni, dismissioni del patrimonio pubblico,
assenza di una politica di contenimento di prezzi e tariffe, abbandono di
una corretta attenzione alle dinamiche dei redditi, attacco alla progressività
del prelievo fiscale, scarsissima attenzione verso la lotta alle elusioni
e alle evasioni fiscali, al lavoro nero e a quello sommerso – altro
fallimento del governo -, vantaggi per rendite e patrimoni: questo è
l’insieme che ha favorito l’arricchimento di una parte del paese
a scapito della maggioranza dei cittadini ed ha penalizzato – innanzitutto
– il lavoro e lo sviluppo.
Per questo, la lotta contro il lavoro nero è obiettivo fondamentale.
Troppe donne e uomini, troppi immigrati, troppe imprese si situano fuori dalla
legalità, dai sistemi di protezione sociali. L’intervento sull’economia
irregolare è di straordinaria importanza, non solo per evidenti ragioni
etiche e di solidarietà, ma anche per impedire forme di concorrenza
sleale, per restituire alla collettività ingenti quantità di
ricchezza attualmente evasa, per rompere quelle stesse convenienze fra soggetti
deboli che minano la solidarietà generale (indicativa la condizione
delle assistenti famigliari). E’ il presupposto per ogni possibile patto
fiscale tra le ragioni del lavoro, dell’impresa e della cittadinanza.
Il livello di questa ingiustizia sociale è insieme causa ed effetto
delle politiche di divisione e contrapposizione sociale.
Oggi direttamente o indirettamente, l’intervento del pubblico è
richiesto da tutte le parti. Da chi chiede dazi doganali, da chi chiede riduzione
della pressione fiscale, da chi punta all’appoggio delle istituzioni
pubbliche per il sostegno alle proprie scalate e al consolidamento delle proprie
posizioni, dalle scelte che hanno portato a concentrare in forme improprie
partecipazioni pubbliche e disponibilità finanziarie in società
e contenitori dalla dubbia trasparenza, efficacia e funzionalità.
Il problema quindi che si pone non è quello di dire sì o no
all’intervento pubblico.
Ma domandarsi quale intervento pubblico si renda oggi necessario, per difendere
innanzitutto produzioni, presenze strategiche del paese, beni di rilevanza
sociale, e come la responsabilità pubblica possa consentire ai mercati
di essere realmente più efficienti, trasparenti e regolati, nell’interesse
dei cittadini, dei consumatori e dei lavoratori. Il passaggio dai monopoli
della gestione pubblica a quella privata ha creato vantaggi solo per pochissimi,
senza premiare investimenti, qualità e interessi dei cittadini.
La stessa responsabilità pubblica appare decisiva nel determinare un
indispensabile salto in avanti sui terreni dell’innovazione di prodotto
e della ricerca, nell’offerta formativa, nelle politiche infrastrutturali
materiali e immateriali, nella gestione del territorio, nel promuovere politiche
di attrazione degli investimenti e politiche di vantaggio per le aree a ritardato
sviluppo, verso le quali non può essere interrotta la politica di bilancio
e di investimenti dei fondi europei.
Le stesse scelte di ricerca e di innovazione nel campo dello sviluppo sostenibile
e delle politiche ambientali, dal ciclo dei rifiuti ai vantaggi che si possono
trarre nel campo delle fonti energetiche alternative, dall’applicazione
del protocollo di Kyoto, richiedono un deciso orientamento della domanda pubblica.
In questo quadro, l’innovazione e la riforma del welfare, la sua crescente
responsabilità nell’inclusione sociale, come fattore di redistribuzione
contro povertà e disuguaglianze, rappresentano per la Cgil un obiettivo
decisivo. Senza un welfare universale e di qualità non vi è
né vi potrà essere, a maggior ragione per il futuro, un fondamento
di uguaglianza e di cittadinanza, a partire dai diritti costituzionalmente
garantiti e dalla difesa dei beni comuni.
Insieme, il welfare nelle sue funzioni fondamentali di sicurezza, prevenzione,
salute, assistenza, formazione, previdenza è leva di crescita di investimenti,
di occupazione e di occasioni di lavoro. Può stimolare con una domanda
selezionata innovazione e ricerca; genera servizi sempre più estesi
e personalizzati; crea condizioni per attrarre investimenti, deve accompagnare
processi di riconversione e tempi e aspettative che vengono meno nella vita
delle persone. L’economia dei beni sociali apre prospettive destinate
a crescere.
Per la Cgil è prioritario che le funzioni e i compiti del welfare sappiano
intercettare tutti i bisogni, a partire dal modo di contrastare le aree di
povertà che in questi anni si sono allargate.
E che si affrontino, finalmente, le due condizioni sociali che sono oggi quelle
più esposte: la condizione degli anziani non autosufficienti, i problemi
legati alla prima infanzia. Anche se è evidente infatti che il primo
non riassume tutto il quadro dei problemi della condizione degli anziani,
in una società che allunga le attese di vita e fa diventare strutturale
il fenomeno dell’invecchiamento delle persone e perciò richiede
nuove politiche di relazione con la formazione e di invecchiamento attivo;
e il secondo non risolve tutte le politiche del riequilibrio demografico:
essi sono due temi che comunque assumono per la Cgil il valore di un obiettivo
prioritario da proporre, affrontare e risolvere. E’necessario quindi
assumere l’impegno per un rinnovato welfare che diventi parte costituente
di un nuovo modello di sviluppo, che faccia interagire sviluppo produttivo,
occupazione e servizi sociali rispondendo alla domanda di benessere sociale.
Una
Cgil autonoma e democratica
11. In questa prospettiva, un ruolo fondamentale spetta al lavoro,
alle indicazioni e alla determinazioni del movimento sindacale e, per quello
che ci riguarda, alla Cgil.
L’incapacità dell’azione di questo governo, che si conferma
anche in questi mesi, i ritardi con cui l’opposizione si misura con
un programma credibile di governo del cambiamento, l’incertezza e le
divisioni presenti nel mondo imprenditoriale, la forza inarrestabile degli
effetti di una globalizzazione senza regole, le difficoltà che incontra
l’Unione Europea a progredire verso un profilo più compiutamente
democratico delle sue istituzioni e verso la costruzione di una autonoma politica
economica, industriale e infrastrutturale europea, tutto questo mette sulle
spalle del movimento sindacale e della Cgil una responsabilità francamente
inedita e decisiva.
Battere una cultura della rassegnazione, della corporativizzazione e della
disgregazione sociale, anche sul terreno della lotta contro le illegalità,
indicare una convincente e plausibile prospettiva positiva sono obiettivi
che solo con un’azione decisa del sindacato, e della Cgil, possono essere
conseguiti.
La Cgil è punto di riferimento per la ricostruzione di un’etica
nei comportamenti collettivi, fondata sulla cultura della partecipazione,
dell’esigibilità dei diritti come condizione ineludibile della
democrazia e della libertà: questa cultura può rianimare un
clima di fiducia a speranza, del quale soprattutto le giovani generazioni
hanno bisogno per compiere processi di emancipazione e di crescita. Le giovani
ed i giovani, le donne, la parte della società emarginata da questi
anni di governo Berlusconi devono poter guardare con serenità al futuro,
anche in virtù dell’impegno che con loro la Cgil assume.
Il XV congresso è consapevole del ruolo insostituibile che la Cgil
– grazie anche al radicamento nel territorio operato da Camere del Lavoro,
leghe dei pensionati e dalla rete dei servizi - può giocare nel delineare
questa prospettiva. Naturalmente bisogna insieme operare perché si
concluda in maniera condivisa la stagione infinita della transizione costituzionale;
perché si affermi realmente, sul terreno politico, un compiuto bipolarismo
programmatico nel paese, e perché vengano riformati e resi agibili
percorsi e sedi di partecipazione e di confronto sulle scelte del paese per
i soggetti della rappresentanza sociale, e segnatamente per il sindacato.
Ma quello che per noi è evidente è che solo una Cgil, capace
di rinnovarsi, fortemente radicata nel lavoro e nelle sue trasformazioni,
in grado di presidiare il territorio e orientarne lo sviluppo, capace di stare
in campo con un profilo autonomo e un alto disegno programmatico, può
davvero proporsi l’obiettivo ambizioso di misurarsi per intero con la
grande sfida culturale, istituzionale, politica e sociale che è aperta
nel paese: costruire nei fatti, declinandola per intero, la centralità
del valore del lavoro e dei diritti.
Tutto questo richiede una Cgil forte dei suoi pluralismi interni e forte nel
rapporto democratico con tutti i lavoratori. Per questo, la democrazia della
Cgil vive dei suoi molteplici pluralismi – a partire dal valore della
differenza, dai pluralismi programmatici, da quelli di struttura a quelli
legati alla rappresentanza di interessi – e in un sistema di regole
che ne garantisce la piena legittimità e agibilità. Il XV congresso
si propone perciò di costituire un reale, esteso e democratico processo
di dibattito e partecipazione. E’ diritto di tutte le iscritte e gli
iscritti determinare con il voto sui documenti congressuali le scelte strategiche
che definiranno il profilo e l’azione della Cgil nei prossimi quattro
anni, nella valorizzazione di tutte le esperienze che l’organizzazione
esprime.
Per la Cgil l’espressione democratica dei lavoratori resta una pratica
e un obiettivo irrinunciabile. Chiedere che sia il voto democratico a validare
piattaforme e accordi, costruire anche per via legislativa una cornice di
regole
in grado di misurare la rappresentatività delle forze sociali e dare
– dopo una sperimentazione endosindacale – certezza ai percorsi
democratici non è né una fuga in avanti, né un atto che
comprime le regole e la funzione dei principi associativi di ogni organizzazione.
D’altra parte, le pratiche esperite in questi anni, il risultato delle
elezioni delle RSU, il misurarsi con l’opinione dei lavoratori anche
di fronte a compromessi contrattuali difficili non solo non si è dimostrato
un esercizio rituale, ma ha finito esplicitamente per rafforzare rappresentatività
e credibilità del sindacalismo confederale. Esprimendo in questo, la
risposta più compiuta, più forte ai tentativi di delegittimazione
messi in campo dal governo di centrodestra e al tentativo di tenere ai margini
della vita sociale del paese il ruolo del sindacato.
Il principio della libertà di associazione, garantito dalla Costituzione
e da ogni principio di democrazia, e il diritto dei lavoratori di decidere
su quello che li riguarda non possono essere usati uno contro l’altro.
Se lo si fa, si impoverisce il senso della confederalità ed il valore
generale della funzione del sindacato, oltreché separare la giusta
domanda di più unità e più democrazia.
12.
Su questo terreno così come su altri contenuti, la Cgil non
è riuscita compiutamente a trovare una piena condivisione unitaria
da parte della Cisl e della Uil. Questo, però, non deve significare
per la Cgil abbandonare il perseguimento di questi obiettivi.
Il XV congresso riconferma che il pluralismo, interno alle diverse culture
e sensibilità del sindacalismo confederale, rappresenta un valore da
cui partire per ricercare sintesi e approdi unitari e ridurre l’area
dei dissensi esistenti.
Anche nei momenti più difficili di questi anni, la ricerca di una convergenza
unitaria non è mai venuta meno per la Cgil; e ne attestano la conferma
le scelte contenute nei documenti del congresso di Rimini, allor quando nel
pieno della divisione sindacale, la Cgil continuava giustamente ad indicare
l’obiettivo e l’esigenza di un percorso di unità. Scelta
che la Cgil considera dall’atto della sua nascita strategica.
I congressi di Cisl e Uil, il congresso della Cgil, hanno ognuno di fronte
a sé questo tema. Per quello che ci riguarda, riteniamo in questa prospettiva
e con questa impostazione di proporre a Cisl e Uil di lavorare assieme alla
carta programmatica dei valori del sindacato confederale. Una carta non in
grado, ovviamente, di risolvere problemi e temi dei contrasti, ma capace di
riaffermare la qualità dei valori comuni, che valga per l’oggi
e per il domani, e rappresenti il segno distintivo, oltre le differenze e
al di là dei pluralismi, del ruolo e della funzione del sindacalismo
confederale.
Questa scelta, se condivisa, darebbe più forza e rappresenterebbe anche
una proiezione più efficace al lavoro che attende il sindacato italiano
verso la Confederazione Europea dei Sindacati e la Cisl internazionale, alle
prese con processi di trasformazione, riardi e inerzie non più giustificabili.
13.
Nell’anno di svolgimento del XV congresso della Cgil cadrà il
centesimo anniversario della nascita della Confederazione generale del lavoro.
La Cgil, celebrerà – come è giusto – e nel modo
più alto possibile questa storia, il grande processo di avanzamento
democratico delle conquiste del mondo del lavoro; in questo ricordando l’impegno
e il sacrificio di tante generazioni di lavoratrici e lavoratori.
La Cgil non intende celebrare questa storia per sé, ma proprio per
segnare il rapporto che lega indissolubilmente la storia del lavoro alla storia
della democrazia e della libertà nel nostro paese. Una storia, dunque,
comune, che ha fatto del movimento sindacale italiano – pur nelle alterne
vicende di questo secolo – una grande istituzione sociale, una grande
forza di rappresentanza ed un insostituibile soggetto in difesa della democrazia
e della libertà.
Un processo che a partire dal formarsi delle prime leghe, dai primi sindacati
di mestiere, fino alla nascita delle federazioni nazionali di categoria e
delle Camere del Lavoro; dall’indizione del primo sciopero generale
nel 1904, fino alla capacità di opporsi alla violenza del fascismo
e alla cancellazione della democrazia e della libertà per tutti, ha
poi dato vita al grande contributo dei lavoratori alla Resistenza, agli scioperi
del 1943-1945, fino a segnare di sé contenuti e valori della Carta
Costituzionale. Una storia che in questo dopoguerra ha continuato ad essere
decisiva per crescita civile e sociale del paese, innanzitutto per la difesa
della democrazia e della libertà e per battere ogni forma di terrorismo.
Per questo, il centenario si rivolge innanzitutto ai giovani e alle nuove
generazioni, a quanti si interrogano su quale modello di società costruire,
ai tanti fili invisibili che legano le memorie e le conquiste che passano
da generazioni ad altre generazioni.
Questo è il cuore della proposta politica del XV congresso della Cgil:
il progetto di un nuovo avvio per il paese ha senso e vive solo se rivolto
esplicitamente alle generazioni che rappresentano il presente, ma soprattutto
il futuro, del mondo del lavoro e del paese. Alle ansie, alle incertezze,
alle preoccupazioni esistenti la Cgil intende offrire una proposta ed un messaggio
fatti di valori condivisi, di partecipazione e passione democratica e di fiducia
nel cambiamento, possibile e necessario del Paese.
1^
TESI
LA SFIDA DEL LAVORO E LA GLOBALIZZAZIONE:OBIETTIVI E PROPOSTE
1.
Gli obiettivi generali
1.1 L’interrogativo principale per il sindacato oggi, nell’epoca
della globalizzazione che ha eroso poteri e confini degli stati, è
come ricostruire una rete di diritti sociali e del lavoro sul piano sopranazionale.
La competizione globale neoliberista infatti fa leva esattamente su dumping
sociale e mercificazione del lavoro. Riportare a livello sopranazionale, ed
in modo esigibile, diritti che sono stati storicamente inscritti dentro i
confini dei singoli paesi, è dunque un obiettivo fondamentale che dà
qualità e senso a ciò che si intende per qualificare ed estendere
la democrazia.
1.2 Ciò non potrà che avvenire a più livelli e percorrendo
più strade: la definizione della dimensione sovranazionale dei contratti
e della rappresentanza; la negoziazione/confronto con le imprese, con i governi,
con le istituzioni multilaterali; la cooperazione sindacale allo sviluppo;
la definizione, nei processi di integrazione regionale (Mercosul, Europa),
di una dimensione normativa a tutela dei diritti sociali indisponibili e a
sostegno della contrattazione collettiva.
1.3 Per questa ragione il metro di misura utilizzato dalla CGIL per il giudizio
sul Trattato Costituzionale europeo è stato la presenza in esso della
Carta di Nizza, della definizione cioè della cittadinanza europea come
unione indivisibile di diritti sociali, civili e politici: premessa fondamentale
per far sì che valore del lavoro, diritti sociali, contrattazione collettiva
siano posti a fondamento del patto costituzionale europeo.
1.4 Ripudio della guerra, della violenza e del terrorismo e promozione ed
estensione dei diritti del lavoro e dell’ambiente sono indissolubilmente
legati. Infatti per noi la pace è l’unica strategia razionale
di sopravvivenza in un mondo globale e interdipendente segnato da eventi traumatici
che nominati tutti insieme compongono il quadro degli interrogativi aperti
per la comunità internazionale e la sensazione di rischio per le persone.
Dai più eclatanti, il terrorismo, New York, Madrid, Londra, Casablanca,
Istanbul, la guerra in Iraq, da cui vanno ritirate le truppe, l’Afghanistan,
il conflitto Israelo-palestinese, le tensioni interetniche nei Balcani, la
Cecenia; ai più invisibili, le tante facce delle disparità tra
Nord ricco e Sud povero del mondo, l’aggravamento delle disuguaglianze
di genere in tutte le società, la privatizzazione strisciante o diretta
ovunque di salute e istruzione; dai conflitti poco conosciuti per l’accesso
all’acqua in molte parti del sud del mondo, a quelli più noti
per il controllo delle risorse energetiche, fino alla tragedia dell’Aids
del continente dimenticato, l’Africa, che riguarda soprattutto milioni
di donne e di bambini.
1.5 Moltissimi di quegli eventi hanno come epicentro il Mediterraneo, che
può essere al contrario mare di pace e prosperità e ponte tra
culture, oggi banco di prova della capacità dell’Europa di progettare
il proprio futuro nella globalizzazione. Ma solo se l’Europa stessa
saprà realizzare gli obiettivi di cooperazione e integrazione definiti
10 anni fa a Barcellona, poi smarriti e confinati alla sola creazione di un’area
di libero scambio, con gli effetti sociali testimoniati dagli indicatori delle
agenzie ONU in quasi tutti i paesi della riva Sud.
2. La riforma del governo globale
2.1 I diritti non hanno territorialità se non esiste un tessuto democratico
nel quale innestarli: ci riguarda dunque direttamente la riforma in senso
democratico dell’ONU la cui fragilità democratica è emersa
con evidenza insieme ai suoi limiti, contraddizioni e storture, e nonostante
ciò unica alternativa alle tentazioni egemoniche e unilaterali della
amministrazione Bush così come espresse nella teoria della guerra preventiva,una
teoria appunto geo-politica,formulata in aperta contrapposizione alla Carta
dell’ONU e per questo mai legittimata dalle Nazioni Unite.
2.2 L’elemento più negativo della politica estera degli Stati
Uniti, ispirata dai neo-conservatori, sta appunto nella riproposizione della
propria sovranità come luogo assoluto ed indipendente di tutte le scelte
politiche che investono altri soggetti; scelte che, in virtù della
forza militare ed economica di quel paese, diventano nuovo criterio ordinatore
con cui il resto della comunità internazionale deve misurarsi, anche
quando hanno il volto della violazione dei diritti umani, della riabilitazione
dell’uso della tortura.
La condizione di premessa oggi per una nuova democrazia mondiale sta nella
definizione della sua necessità come scelta tra quelle possibili ed
in campo, alternativa dunque all’unilateralismo americano, ma che non
può fare a meno anche degli Stati Uniti.
Decisivo in questo senso è il successo del processo di integrazione
dell’Europa, sulla base del suo modello sociale, così come di
quello del Mercosul.
2.3 Proposte importanti di riforma dell’ONU sono già state avanzate
da parte di molti paesi(molti di quelli che hanno determinato il fallimento
dei negoziati OMC di Cancun, il Brasile tra tutti): l’elezione di una
Assemblea parlamentare da affiancare all’ONU, l’allargamento del
Consiglio di sicurezza, il superamento del potere di veto che lo caratterizza,
un rapporto nuovo con la società civile e gli stessi movimenti globali.
2.4 La nostra opinione è che quella riforma sarebbe incompiuta e inefficace
rispetto all’obiettivo di una possibile “democrazia globale”
se non si affiancasse al Consiglio di Sicurezza e con analoghi poteri il Consiglio
di sicurezza economico, sociale e dell’ambiente. Il punto fondamentale
infatti in generale è costruire consenso (e poi tradurre in pratica)
ad una nuova gerarchia tra le istituzioni politiche (l’ONU e le sue
agenzie) e le istituzioni finanziarie, anche esse da riformare. (FMI, Banca
Mondiale e successivamente OMC).
2.5 L’asimmetria tra il livello politico e quello finanziario ha infatti
determinato nel tempo uno scarto sempre più evidente tra impegni importanti
(come quelli per il contrasto al lavoro minorile) e le politiche concrete
e contrarie richieste ai paesi in via di sviluppo per la concessione di prestiti
(privatizzazione di salute e istruzione, acqua e risorse naturali, insieme
all’imposizione di modelli produttivi come le monocolture e l’uso
di OGM).
2.6 Quell’asimmetria ha dunque consentito che la globalizzazione economica
e finanziaria avvenisse,direttamente attraverso le ricette delle istituzioni
finanziarie e indirettamente attraverso le multinazionali, senza nessun riferimento-collegamento
alla difesa e promozione di beni comuni e collettivi, secondo una logica esclusiva
di mercato senza limiti.
3. Diritti del lavoro, clausole sociali e ambientali
3.1 Abbiamo la consapevolezza che la richiesta di estendere i diritti sociali,
del lavoro e dell’ambiente, possa essere percepita nei paesi in via
di sviluppo come misura agita più per proteggere le condizioni di vita
e di lavoro dei paesi ricchi che come scelta generale di profilo dello sviluppo
sostenibile.
3.2 Avere tale consapevolezza non ci deve disimpegnare, anzi al contrario,
ci obbliga ad assumere responsabilità diretta rispetto a quell’obiettivo
attraverso la contrattazione nazionale, sopranazionale e nelle multinazionali,
che è il nuovo grande banco di prova del sindacato.
3.3 E soprattutto occorre mettere insieme politiche contrattuali e politiche
efficaci per lo sviluppo di quei paesi, in modo che la concreta realtà
non neghi affermazioni teoriche. Naturalmente cominciando dalla totale cancellazione
del debito, e dall’attivazione di risorse per il loro sostegno (Tobin
Tax, 0,7% Pil), dirottando verso questa direzione gli enormi stanziamenti
destinati alle spese militari. L’Italia, che è agli ultimi posti
per la percentuale di PIL finalizzato alla cooperazione internazionale, al
contrario è ai primi posti per le spese militari.
3.4 Così come rimaniamo convinti della necessità di rivendicare
l’applicazione delle clausole sociali e ambientali OIL nelle relazioni
commerciali, che devono essere attuate attraverso strumenti di orientamento
e di sostegno del comportamento delle imprese, di cooperazione con i paesi
in via di sviluppo, in modo che i fondi per la cooperazione allo sviluppo
siano anche indirizzati alla promozione di diritti sociali ed economici. A
questo fine è naturalmente decisivo un ruolo, di promozione e controllo,
più forte dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL).
3.5 D’altra parte i negoziati OMC non possono avvenire “senza
esclusione”: i servizi di interesse pubblici e i beni comuni fondamentali
(acqua, salute, educazione) devono essere preservati dalla disciplina OMC.
Così come all’agricoltura deve essere riconosciuta la funzione
strategica e prioritaria di garantire in primo luogo la sicurezza e la sovranità
alimentare, affrontando per questa via la necessaria profonda riforma dei
sussidi e delle politiche agricole di sostegno.
3.6 La nuova competizione internazionale dei paesi emergenti non si batte
con nuovi dazi e vecchi protezionismi. La fine dell’accordo Multifibre
ha sicuramente svelato la necessità del cambiamento del modello di
specializzazione italiano ed evidenziato le debolezze del nostro sistema industriale,
debolezze che non possono però essere scaricate sulla condizioni di
vita e di lavoro delle persone oggi occupate in quei settori. Ciò presuppone
che vengano predisposte adeguate risorse per gli ammortizzatori sociali necessari
negli stessi settori, misure di politica industriale orientate da efficaci
politiche pubbliche, scelte non più rimandabili nel settore tessile
(etichettatura d’origine, tracciabilità dei prodotti, tempi più
lenti di applicazione della fine delle “clausole di salvaguardia”,
misure contro la contraffazione).
4. Il modello sociale europeo come modello di sviluppo
4.1 Per modello sociale europeo si intende un modello di sviluppo sostenibile
che tiene insieme crescita economica, coesione sociale e qualità ambientale,
attraverso politiche pubbliche adeguatamente finanziate da un fisco equo e
progressivo, contraddistinto storicamente da una presenza forte e organizzata
del sindacato come soggetto della contrattazione collettiva e per questo della
dialettica democratica.
4.2 Quel modello lo si intende distinto dal modello anglosassone, fondato
su un presunto circuito virtuoso, meno tasse, meno stato, meno diritti, più
crescita. Ora va detto che il modello sociale europeo per esistere non semplicemente
come descrizione storicamente determinata dell’evoluzione dello “stato
sociale” nei singoli paesi europei, ma come modello di sviluppo sostenibile
dell’oggi, distinto da quello anglosassone, e per questo alternativa
concretamente possibile per lo sviluppo globale, quel modello ha bisogno che
esista l’Europa politica, che siano rilanciate le istituzioni europee
e rafforzata la Corte di Giustizia per il suo contributo alla costruzione
della giurisprudenza europea del lavoro. L’Europa politica a sua volta
per esistere ha bisogno di una Costituzione, come esito finale di un processo
politico coerente, oggi al contrario contraddetto dall’indebolimento
percepibile della cultura politica che ha sostenuto negli anni il progetto
europeo e dalla distanza tra quel modello e le politiche reali praticate in
molti paesi europei e contenute in importanti direttive della Commissione.
5. Il Trattato Costituzionale Europeo
5.1 Abbiamo dato a suo tempo una chiave di lettura positiva del Trattato Costituzionale
a occhi aperti, avendone presenti limiti, contraddizioni e deficit democratico
e proponendo di recuperare ciò che a noi parevano e paiono le negatività
più vistose (assenza del ripudio della guerra, della cittadinanza di
residenza per i migranti, incoerenza totale della 3° parte con la 1°
e la 2°) attraverso la procedura, presente nel Trattato, della raccolta
di 1 milione di firme. Si trattava di una proposta pensata per cambiare gli
aspetti per noi più contraddittori del Trattato, per recuperare il
deficit democratico e nel contempo per rendere evidente come il Trattato stesso
fosse la tappa di un percorso costituente aperto e in progress.
5.2 Quella proposta mantiene il proprio significato nel definire contenuti,
alleanze e percorsi democratici per l’Europa sociale a cui non intendiamo
rinunciare. In Italia è già avviata la raccolta di firme per
la definizione della cittadinanza di residenza. Siamo infatti ben consapevoli
che oggi esistono due rischi concreti che si alimentano reciprocamente: lo
scarto sempre più grande tra la realtà europea e la retorica
europea produce disaffezione e sfiducia come dimostra l’esito del referendum
sul Trattato Costituzionale in Francia ed in Olanda; quella sfiducia viene
utilizzata per allontanare sempre di più la prospettiva sociale dell’Europa
e avvicinare sempre di più quella dell’Europa come grande area
di libero scambio, di merci e non di persone, come dimostra l’esito
della discussione sul bilancio europeo.
5.3 L’esito del referendum peraltro consegna anche al sindacato una
domanda di rappresentanza che il sindacato deve saper raccogliere assumendosi
il difficile compito di essere protagonista nel rilancio dell’Europa
sociale e dunque dell’Europa politica, dicendo a quale Europa sociale
pensiamo e quale Europa politica vogliamo.
2^
TESI
IL SINDACATO EUROPEO E MONDIALE
1.
Globalizzazione e rappresentanza
1.1 Le recenti bocciature del Trattato Costituzionale svelano e non determinano
la crisi dell’ispirazione europea. Si è detto, ed è sicuramente
vero, dello scollamento che quel voto ha registrato tra élite politica
e popolo. Va aggiunto che quella élite, ha da un lato propugnato il
si al Trattato, dall’altro ha veicolato il contrario, additando l’Europa
matrigna come responsabile delle politiche sociali ed economiche negative
e liberiste che lei stessa produceva per contrastare la congiuntura economica
sfavorevole che ha attraversato e attraversa tutta l’area euro. Cioè
si è indebolita nel tempo una cultura politica che scommetteva sull’Europa
come progetto di sviluppo economico e sociale alternativo e distinto. Quella
crisi si è manifestata prima di oggi ed è sicuramente stata
rivelata dalla guerra in Iraq. Appare con tutta evidenza la necessità
di ridefinire il profilo di una proposta di tutte le forze progressiste politiche
sociali e prima ancora quello di una cultura politica alternativa alla filosofia
che sta dietro a ciò che si intende per modello anglosassone di sviluppo,
ma altrettanto globale.
1.2 Per farlo non solo è necessario che la rappresentanza politica
investa in quella direzione, emancipandosi dalla logica inefficace e pericolosa
dei compartimenti stagni, le politiche nazionali da un lato, quelle europee
e internazionali dall’altro, ma è altrettanto urgente e necessario
che la rappresentanza sociale scelga la dimensione sopranazionale come banco
di prova della sua efficacia, qui e ora.
2. La Cisl Internazionale
2.1 La CGIL ha espresso un giudizio positivo sulla nascita della nuova centrale
sindacale internazionale, non semplicemente somma di Cisl Internazionale e
CMT, ma nuova formazione comprensiva anche di quei sindacati oggi non affiliati
all’una o all’altra centrale. L’abbiamo fatto proponendo
al contempo ciò che a noi sembra decisivo per definire soggettività
sindacale e profilo democratico della nuova centrale.
2.2 In particolare, poiché occorre un modello di funzionamento democratico,
pluralista e inclusivo, sono necessarie regole e procedure democratiche nella
costruzione delle decisioni, rispetto del pluralismo e della pari dignità
di ogni organizzazione. Il riconoscimento di tutte le identità presenti,
anche di quelle religiose, può e deve trovare soluzione all’’interno
della nuova organizzazione stessa e non al suo esterno o con strutture separate.
In ogni caso il rispetto di quelle identità non può far tornare
indietro il sindacato internazionale su scelte che ne definiscono il profilo:
tale è la tutela dei diritti riproduttivi delle donne in ogni parte
del mondo.
2.3 Per la CGIL rifondare una nuova confederazione sindacale mondiale significa
costruire un’organizzazione più rappresentativa; più vicina
alle lavoratrici e ai lavoratori; più sindacale perché la sua
priorità è sostenere la sindacalizzazione e aiutare e promuovere
la contrattazione collettiva, creando così rapporti di forza da spendere
anche nelle istituzioni sopranazionali; più pluralista, più
inclusiva e più unitaria, perché costruisce il consenso nelle
decisioni riconoscendo le diversità, sia di genere sia di interessi
sia di ispirazione ideale o culturale, presenti al suo interno e lavorando
per una sintesi solidale e multietnica.
2.4 D’altra parte il crescente ruolo delle imprese multinazionali nella
nuova divisione internazionale del lavoro si intreccia con politiche governative
di deregulation e antisindacali per attrarre investimenti, che sono spesso
imposte dalle istituzioni finanziarie globali; pertanto una separazione tra
azione settoriale e azione confederale risulta sempre meno comprensibile ed
efficace e d’altra parte nella grande maggioranza dei sindacati dei
diversi paesi la relazione tra queste due dimensioni organizzative e rivendicative
è più stretta che su scala internazionale.
3. La CES
3.1 Per più ragioni e con evidenza è sempre più pressante
la necessità che il sindacato europeo giochi in prima persona un ruolo
per riconquistare la prospettiva dell’Europa sociale. E’ quindi
indispensabile una riflessione su come la CES debba attrezzarsi per svolgere
tale ruolo, in una situazione in cui la somma di alcune direttive (quella
sui servizi nel mercato interno e quella sugli orari di lavoro) e delle scelte
di molti governi e molte imprese si traduce nel peggioramento delle tutele
e dei diritti delle lavoratrici e dei lavoratori così come degli anziani.
3.2 La CES infatti esprime oggi, un’iniziativa sindacale inferiore a
ciò che sarebbe necessario e alle sue stesse potenzialità. Dopo
essersi trasformata, da “sindacato” che agiva come strumento generico
di confronto di esperienze nazionali in sindacato capace di sviluppare momenti
negoziali, è ora necessario costruire una vera autonomia strategica
e negoziale, uscendo definitivamente dalla concezione del ruolo del sindacato
europeo come funzione sussidiaria rispetto all’iniziativa legislativa
comunitaria.
3.3 Per farlo occorre rafforzare anche la sua democrazia interna coinvolgendo
nelle decisioni con pari dignità tutti i sindacati nazionali .
3.4 E’ inoltre altrettanto insufficiente il coinvolgimento delle federazioni
europee di categorie nel processo decisionale ed in quello della implementazione
delle decisioni, soprattutto se si tiene conto che in Europa esistono modelli
sindacali diversi, alcuni dei quali attribuiscono prevalentemente alle categorie
potere contrattuale. C’è bisogno perciò di integrazione
tra strutture “confederali” e di “categoria” per poter
sviluppare un sindacato europeo pienamente rappresentativo.
3.5 Oltre al rafforzamento del dialogo sociale, è necessario rafforzare
la capacità del sindacato europeo di negoziare accordi collettivi a
livello confederale e settoriale, accordi che abbiano carattere vincolante,
con un vero potere negoziale e con un bilancio dei risultati.
3.6 Partendo da un bilancio realistico dell’attuale debolezza dei CAE
e del rischio del loro svuotamento, insito nelle ipotesi di direttiva allo
studio, occorre al contrario rafforzare il ruolo dei CAE stessi come organismi
sindacali transnazionali di base, che per svolgere efficacemente tale ruolo
devono essere autenticamente rappresentativi.
3.7 Bisogna perseguire una maggiore sintonia tra i temi europei e quelli nazionali
e, partendo da questo, sviluppare un potere di direzione, rafforzando il coordinamento
della contrattazione collettiva come strumento primario per contrastare efficacemente
le strategie politiche già in atto in numerosi paesi europei che rischiano
di produrre un regresso delle condizioni contrattuali e lavorative e contro
le strategie sindacali aziendali che puntano sul dumping sociale e sulle delocalizzazioni.
3.8 Bisogna inoltre, per rafforzare la rappresentanza della CES in una Europa
che invecchia, che la Ferpa ne faccia parte con piena titolarità.
3.9 Considerando che l’obiettivo è quello di creare uno spazio
contrattuale europeo, per rafforzare l’identità sindacale europea
e per sostenere lo sviluppo della contrattazione collettiva a tutti i livelli,
è opportuno per le Confederazioni nazionali e le Federazioni di categoria
proseguire una riflessione sul trasferimento di competenze e poteri dal livello
nazionale a quello europeo, ed è quindi importante che la CES promuova
questa analisi e spinga a maturazione queste scelte.
3^
TESI
DIFENDERE LA COSTITUZIONE. COMPLETARE LA TRANSIZIONE POLITICO- ISTITUZIONALE.
1.
La Costituzione nata dalla Resistenza, i suoi principi fondanti, i suoi valori,
la stessa centralità che assegna al lavoro, rappresentano un patrimonio
che la Cgil difende e difenderà dagli attacchi che già le sono
stati portati – attraverso le modifiche in corso di votazione in Parlamento
– e che, per la loro vastità, intaccano e si riflettono anche
sulla prima parte, quella relativa ai valori fondanti.
1.1 Gli stessi tentativi revisionistici della Resistenza e della guerra di
Liberazione – rispetto ai quali, allo stesso modo, la Confederazione
si è opposta e si opporrà con assoluta determinazione –
del loro significato e del loro valore, che hanno consentito proprio la definizione
della Carta Costituzionale, rappresentano un elemento essenziale di questa
operazione politica.
1.2 La Cgil sarà in campo nel referendum confermativo delle modifiche
costituzionali con l’obiettivo di abrogarle. Esse, infatti, sono lesive
dell’idea di democrazia e di coesione sociale che perseguiamo, in particolare
relativamente al ruolo del cosiddetto premier, al suo rapporto col Parlamento,
all’alterazione degli equilibri di potere, al ridimensionamento che
investe la figura e il ruolo del Presidente della Repubblica; all’effettiva
universalità di diritti fondamentali e alla stessa unità nazionale.
C’è quindi una nostra opposizione di principio perché
vediamo seriamente minacciate le regole fondanti e l’equilibrato contrappeso
dei poteri istituzionali che hanno garantito la nostra democrazia e la ricostruzione
del paese e, contemporaneamente, una necessità di difendere concretamente
gli interessi delle lavoratrici e dei lavoratori, delle pensionate e dei pensionati
che rappresentiamo.
1.3 La difesa della Costituzione deriva dalla sua straordinaria attualità
e lungimiranza, ma anche dal carattere altamente rappresentativo della sua
originale scrittura che testimonia, appunto, di quanto sia importante che
la Carta fondamentale abbia il consenso più largo possibile, rappresentativo
della pluralità delle culture e delle opinioni politiche. Per questo,
la Cgil ritiene che anche le modifiche che si ritengano utili apportare –
fermo restando l’assoluta impossibilità di intervenire sulle
parti che ne segnano l’identità valoriale – non possano
essere approvate dalla sola maggioranza parlamentare.
1.4 In questo senso i problemi che permangono - relativamente alla riforma
del titolo V operata nella passata legislatura e che non potessero essere
risolti con legislazione ordinaria - dovranno essere affrontati rigorosamente
in questa prospettiva. Si tratta di problemi a suo tempo irrisolti e da noi
puntualmente segnalati; attengono al corposo contenzioso aperto presso la
Corte Costituzionale relativo al conflitto di attribuzioni; ci vengono consegnati
dall’esperienza concreta di questi anni. Vanno affrontati, però,
con una linea dettata dal rifiuto di ogni logica devoluzionista e dalla riconferma
dell’importanza dell’idea federalista dello Stato, coniugata in
modo indissolubile con i principi della coesione sociale e della solidarietà.
1.5 Anche i problemi legati alle modalità dell’utilizzo dello
strumento referendario in materie non costituzionali, richiederanno soluzioni
largamente condivise. Il tema della difesa dello strumento referendario -
alla luce delle ripetute occasioni nelle quali è stato vanificato dal
mancato raggiungimento del quorum - è assolutamente di prima grandezza.
E questo non solo in quanto rappresenta di per sé sempre uno strumento
di partecipazione diretta delle cittadine e dei cittadini, ma perché
diventa ancor più essenziale e insostituibile in un assetto politico-istituzionale
di tipo bipolare. Occorrerà, pertanto, ridefinire un nuovo equilibrio
fra il numero di firme necessario per attivarlo e la percentuale di quorum
richiesta.
2. Il processo politico-istituzionale, aperto dal bipolarismo, deve completarsi
portando a compimento la lunga transizione politico-istituzionale avviatasi
con la cosiddetta fine della prima repubblica. Ciò deve avvenire nel
pieno rispetto dei principi e dei valori sanciti dalla nostra Costituzione.
E’ in questo quadro e nella consapevolezza di vivere in una società
sempre più complessa e in un’economia globalizzata - nelle quali
i temi della democrazia e della partecipazione rischiano di perdere centralità
- che vanno collocati ed esaltati ruoli e funzioni della rappresentanza politica
e sociale e le garanzie delle rispettive autonomie. Si tratta di rendere ancor
più netto nel sistema bipolare il ruolo degli schieramenti politici,
quali aggregazioni portatrici di strategie programmatiche alternative; delle
forze politiche, quali soggetti insostituibili della determinazione democratica
della politica che assegna loro la Costituzione; delle forze sociali, quali
espressione alta della rappresentanza degli interessi e portatrici di autonomi
valori.
2.1 Si tratta di rendere possibile e praticabile un’idea alta del ruolo
e delle funzioni dei soggetti della rappresentanza, nel pieno rispetto delle
diverse prerogative e reciproche autonomie. C’è bisogno, in sostanza,
di più politica sia nella sfera della rappresentanza partitica, sia
in quella sociale, senza alcun timore di sovrapposizioni, sconfinamenti, cadute
di autonomia. E quando ci riferiamo alla sfera sociale, parliamo certamente
del sindacato, ma anche di quell’importante mondo dell’associazionismo,
del volontariato, dei movimenti che tanta parte rappresentano del tessuto
della società. Occorre uno sforzo di tutti e un’assunzione di
responsabilità di ognuno, poiché quella ricostruzione del paese,
al centro della proposta politico-programmatica della Cgil, si renda compiutamente
possibile. Più politica, perché solo così si suscita
e si rende concretamente praticabile la partecipazione; più politica,
come unica democratica risposta al governo dei giganteschi processi di trasformazione
che già sono in atto e che si presenteranno, con ancor più forza,
nel prossimo futuro; più politica come strategia di reazione ai fenomeni
di concentrazione dei poteri nell’economia e nella società e
che rischiano di limitare la democrazia nel mondo contemporaneo.
2.2 Più politica, affinché il tema lavoro e la sua centralità
torni ad essere elemento fondante di un modello di società. In questi
anni abbiamo assistito ad un processo politico e culturale teso a mettere
in discussione il valore lavoro. Esso ha coinciso con i processi di globalizzazione
dell’economia contrassegnati da un’idea di fondo neo-liberista
che assegna a un mercato senza regole un primato assoluto e dà una
interpretazione sbagliata e strumentale della considerazione che i giovani
avrebbero del valore lavoro. Ha coinciso anche con il venir meno del vecchio
assetto politico e con la fine dei partiti di massa, così come li abbiamo
conosciuti per quasi mezzo secolo. Centralità del lavoro, quindi, anche
nella sfera della rappresentanza politica.
2.3 Occorre battere ogni idea di democrazia plebiscitaria nella quale tutto
si riduce a un esclusivo rapporto fra eletto ed elettore che esclude ogni
forma organizzata di partecipazione. E’ questo il rischio al quale il
centro-destra ha sottoposto il paese attraverso una logica maggioritaria esclusiva,
tesa a ridurre il ruolo e la sovranità del Parlamento – attraverso
il continuo ricorso al voto di fiducia e, soprattutto, allo strumento della
legge delega –; ad annullare il ruolo delle regioni e delle autonomie
locali – in una logica neo-centralista che ha determinato serissimi
problemi nei rapporti interistituzionali -; a marginalizzare i corpi intermedi
della società - in particolare il sindacato, la sua funzione di rappresentanza.
Questa politica avrebbe addirittura sanzione costituzionale con la riforma
in votazione al Parlamento.
2.4 I compiti e le funzioni del sindacato debbono svolgersi e svilupparsi
nella pienezza della propria autonomia e in un quadro di relazioni sindacali,
certo ed esigibile, con il complesso delle controparti, chiaramente definito
e regolato. E a questo è finalizzato, da sempre, l’obiettivo
della Cgil di una Legge sulla rappresentanza e rappresentatività. Per
quanto attiene al rapporto con le controparti pubbliche ai vari livelli occorre,
in particolare, definire le modalità che consentano alle parti sociali
la partecipazione ai processi decisionali. E’ il caso di scelte già
compiute in occasione di definizione di taluni statuti regionali nei quali
si sono, appunto, previste esplicitamente forme e modalità di partecipazione
del sindacato. E’ il caso di una possibile rivisitazione dei ruoli del
Cnel e dei Crel che possono essere utilmente destinati ad aiutare il normale
processo di relazioni tra le parti. Sedi, quindi, istruttorie e di studio
a supporto della contrattazione e del confronto programmatico.
4^
TESI
L’ITALIA E LA SUA CRISI. IL PROGETTO DELLA CGIL
1.La
trasformazione e la ricostruzione del paese implica la definizione e l’assunzione
di alcune idee forza, di valori, di principi e di nuovi paradigmi sui quali
costruire una ipotesi politica all’altezza della sfida che il cambiamento
impone. La costruzione della società della conoscenza e la valorizzazione
del lavoro come fattore di innovazione e sviluppo, l’estensione dei
diritti come fattore di uguaglianza e libertà, la sostenibilità
sociale e ambientale dello sviluppo costituiscono i capisaldi per la definizione
di un progetto alto, per il quale non è possibile ripercorrere le strade
del passato.
Questi stessi principi definiscono l’identità del modello sociale
europeo, che sempre più deve essere fondato sul Welfare come fattore
di equità sociale e sulla qualificazione e avanzamento delle specializzazioni
produttive, come fattore di competitività.
Il processo di integrazione europea va proseguito in stretto ancoraggio agli
obiettivi di Lisbona, pensando, nel quadro dell’allargamento, all’articolazione
di più velocità con forte coordinamento sul piano delle politiche
economiche e fiscali.
Si propone con forza l’urgenza di costruire politiche sociali per l’Europa,
finora residuali rispetto alle politiche di sviluppo economico.
Occorre ovviare all’insufficiente disponibilità finanziaria della
UE attraverso strumenti, attualmente assenti, di politica economica per la
formazione e la redistribuzione del reddito, la modulazione della domanda
aggregata ed il sostegno al sistema produttivo. Ciò significa dotare
la UE di una propria politica fiscale e di un bilancio adeguati, di una politica
delle entrate e della spesa, per la riqualificazione della matrice produttiva.
Ciò può essere realizzato attraverso la definizione di un DPEF
e di un bilancio europeo assai più consistente, tale da consentire
la gestione di adeguate politiche anticongiunturali e di sviluppo che non
è più possibile perseguire in modo efficace solo a livello nazionale.
Tale processo dovrà essere accompagnato da una riforma del sistema
che regola i rapporti tra i governi degli Stati membri, la Commissione Europea
e il Parlamento Europeo e le rappresentanze sociali tale da rendere possibile
la partecipazione e l’acquisizione del consenso sulle scelte che si
compiono da parte dei cittadini, al fine di favorire la crescita ed il consolidamento
di una appartenenza e di una identità europea ancora non presente in
gran parte della cittadinanza Europea.
L’economia italiana è caratterizzata dalla crescita più
bassa nella UE, da un andamento negativo dei saldi della bilancia commerciale,
delle esportazioni extra UE a differenza degli altri paesi europei, dal crescente
disavanzo della bilancia tecnologica, dal peggioramento delle condizioni materiali
di lavoratori e pensionati e dall’acuirsi delle disuguaglianze sociali.
Mentre gli altri paesi europei si sono integrati verso l’alto, rafforzando
le componenti a maggiore valore aggiunto legate ai beni intermedi e di investimento,
l’Italia si caratterizza sempre più per la finanziarizzazione
e immobiliarizzazione degli investimenti e resta ancorata ad una specializzazione
produttiva legata ai beni di consumo, in declino nel commercio internazionale,
caratterizzati da una elevata elasticità di prezzo e da una crescente
concorrenza dei paesi asiatici.
Occorre individuare quali possano essere le misure e gli interventi possibili
per affrancarsi dalla bassa specializzazione delle imprese che sostanzialmente
importano tutte le tecnologie e i beni di investimento e intermedi. In tale
situazione l’indistinto sostegno agli investimenti delle imprese non
fa che confermare le attuali specializzazioni produttive. A ciò si
aggiunga una difficoltà a tradurre i risultati della ricerca nella
creazione di nuove filiere produttive nei settori in cui siamo assenti.
Per essere nei settori innovativi occorrono consistenti investimenti a redditività
differita, per superare le barriere di ingresso e dunque politiche pubbliche
mirate e il sostengo selettivo del sistema finanziario.
L’Europa deve sostenere e impostare piani per la ricerca e le infrastrutture
materiali e immateriali da finanziare con euro bond: il nostro Paese deve
essere dentro questi progetti, individuando le eccellenze e le priorità.
In questo quadro, investire sul welfare è una delle chiavi decisive
per realizzare lo sviluppo.
2.E’ necessario ridefinire un nuovo modello di sviluppo, attraverso
una nuova politica economica e dei redditi che abbia come obiettivi centrali
condivisi:
- l’equità nella redistribuzione della ricchezza che in questi
anni si è tanto concentrata da rendere prioritaria l’esigenza
di politiche pubbliche restitutive a sostegno dei redditi da lavoro dipendente
e da pensioni;
- l’avanzamento e la qualificazione delle specializzazioni produttive
e della crescita della produttività per consentire il passaggio all’economia
della conoscenza, in un contesto di coesione sociale;
- la valorizzazione del lavoro come fattore di innovazione, come aspetto decisivo
della libertà e dell’autorealizzazione delle persone, dell’eliminazione
delle aree di esclusione sociale, soprattutto delle giovani generazioni;
- i benefici derivanti dall’innalzamento dei livelli complessivi di
istruzione del nostro paese e l’affermarsi di un vero e proprio sistema
di istruzione e formazione per l’intero arco della vita.
Questo il significato oggi di politiche industriali: a partire da un straordinario
investimento in formazione e ricerca, l’emergenza della trasformazione
del sistema assume valore prioritario, in una tensione sinergica del pubblico,
dell’impresa e del lavoro, dove al pubblico spetta il compito della
programmazione democratica e partecipata.
Occorre dunque finalizzare a questo obiettivo:
2.1. La ricostruzione di un ciclo di ricerca di base nei settori strategici
che consenta la formazione del serbatoio di conoscenza fondamentale, propedeutico
alla leadership tecnologica.
2.2. L’individuazione di grandi progetti nazionali (dentro un quadro
europeo seda alla quale compete la macroprogrammazione), limitati nel numero
ma di grande valore strategico sul piano del contenuto tecnologico e sul piano
delle interconnessioni e implementazione che devono essere in grado di generare
(P.A. ricerca pubblica ricerca privata ecc.). Un’intelligente sinergia
tra ruolo del pubblico e delle imprese, sulla base di progetti di grande innovazione
e qualità, cofinanziati da risorse pubbliche e private è rappresentata
dalla recente approvazione francese del piano nazionale per la competitività.
2.3. Il rafforzamento degli attori economici attraverso interventi che sostengano
la crescita dimensionale delle imprese, che premino i progetti che fanno sinergia
e unità tra imprese, centri di ricerca, Università, territorio
e che privilegino quelle imprese impegnate in processi di ricapitalizzazione.
Si pone anche con grande attualità il problema politico del ruolo dell’impresa
cooperativa. A tale proposito è necessario un rinnovato e più
moderno rapporto tra la funzione economica dell’impresa cooperativa,
il funzionamento dei rapporti con i soci e il sistema di relazioni sindacali
e di regole dei rapporti di lavoro.
2.4. La messa in operatività dei distretti industriali sul versante
dell’innovazione.
2.5. Il rinnovamento delle relazioni industriali e lo sviluppo del modello
contrattuale e salariale.
2.6. La centralità del tema della democrazia economica e dunque delle
regole, dei percorsi e degli strumenti di un sistema partecipato, nel quale
l’espressione di un’etica nei comportamenti dell’impresa
si materializzi attraverso la responsabilità sociale e quindi nella
disponibilità alla condivisione delle scelte, nel pieno rispetto dell’autonomia
e delle prerogative delle parti. Coerente con questo obiettivo è una
definizione della governance sul piano delle regole, della trasparenza e del
conflitto di interessi.
2.7. L’avvio di un radicale cambiamento nel mondo dei servizi all’impresa,
all’interno di una rinnovata politica industriale. La necessità
di qualificare l’intera struttura economica e produttiva rende indispensabile
un adeguato sistema di servizi di qualità tecnologicamente avanzati,
con operatori professionalizzati, cancellando la logica del contenimento dei
costi fondata sul basso costo del lavoro e sulla riduzione dei diritti realizzata
con gli appalti al massimo ribasso.
2.8. Le scelte sulle infrastrutture materiali e immateriali, a partire dal
Mezzogiorno, sul sistema scolastico e formativo, sul Welfare.
3.La finanza pubblica va rimessa sotto controllo ricreando le condizioni di
una cultura diffusa di trasparenza e governo dei conti pubblici: risanamento
e sviluppo si alimentano reciprocamente e contemporaneamente. Nell’emergenza
di questa crisi sono improponibili politiche dei due tempi, da qualunque versante
esse decidano di partire: non si possono frenare gli investimenti per ragioni
di bilancio, mentre una spesa pubblica di qualità e selezionata deve
essere strumento attivo per lo sviluppo.
Tale alimento reciproco non può che realizzarsi attraverso una nuova
distribuzione dei prelievi che renda disponibili risorse da finalizzare alla
crescita, all’aumento del benessere dei cittadini e un guadagno di efficienza
ed efficacia della spesa.
Il prelievo fiscale costituisce uno strumento redistributivo del reddito capace
di ridurre disuguaglianze e sperequazioni. Negli anni ‘90 si sono diffuse
in Occidente, a partire dagli Stati Uniti la riduzione del prelievo fiscale
e il taglio del bilancio pubblico, rendendo così inevitabile una corrispettiva
riduzione e privatizzazione dei servizi sociali.
La pressione fiscale non può essere ridotta ma dovrà cambiare
l’incidenza delle diverse imposte, realizzando interventi che spostino
il carico fiscale e contributivo dal lavoro e dagli investimenti verso le
rendite. La CGIL rivendica come elemento fondamentale di giustizia ed equità
sociale l’aumento della tassazione delle rendite finanziarie e immobiliari,
la tassazione delle grandi ricchezze e il ripristino della precedente imposta
di successione. La tassazione delle rendite in Italia è infatti significatamente
più contenuta di quella Europea tanto che un allineamento parziale
al 23% darebbe entrate addizionali pari a quasi 4.5 miliardi di euro.
L’equità di un sistema fiscale è data dalla misura della
sua progressività, prevista dalla Costituzione e oggi limitata ai redditi
da lavoro e pensione: tale carattere va ripristinato rivedendo l’imposizione
sulle persone e ristabilendo quella finalità redistributiva che un
sistema fiscale deve avere sia direttamente sia come alimentatore di risorse
per un welfare inclusivo in grado di garantire, in chiave universalistica,
soddisfacenti standard qualitativi ai servizi sociali. Il soggetto pubblico
deve essere messo in condizione di svolgere in pieno il proprio ruolo all’interno
della nuova politica dei redditi.
In questo quadro si pone il cosiddetto “federalismo”. La sua missione
non può che essere quella di strumento per l’unità sociale
e civile del paese, attraverso il pieno finanziamento delle funzioni trasferite
al sistema delle Regioni e delle Autonomie Locali e attraverso il fondo perequativo,
finalizzato a garantire sostegno alle realtà più svantaggiate.
Le funzioni statali, a partire dai livelli essenziali “uniformi e universalistici”
delle prestazioni , devono avere garanzie di finanziamento su tutto il territorio
nazionale.
L’inflazione incide pesantemente sui redditi da lavoro e pensione aumentando
le disuguaglianze, erodendo il potere di acquisto e incidendo pesantemente
sulla determinazione dell’imponibile (drenaggio fiscale). Per attutirne
l’impatto, è necessario evitare il fenomeno dello slittamento
degli scaglioni di imposta, facendo pagare le tasse su base reale anziché
nominale. Occorre infine rivedere l’intero sistema delle deduzioni per
risolvere il problema degli incapienti.
La ripresa di una lotta credibile contro l’evasione e l’elusione
fiscale è determinante: la CGIL giudicherà la politica fiscale
di un governo sulla base di quali e quanti interventi esso ponga in essere
per affrontare seriamente questo endemico problema, devastante per le condizioni
materiali dei lavoratori, diffusore di una perversa cultura dell’illegalità,
distorcente regole e relazioni nella concorrenza.
4.Le politiche pubbliche devono mantenere un peso decisivo nella regolamentazione
del mercato e un fondamentale potere decisionale in campo economico, attraverso
la politica di bilancio, la definizione di standard normativi, il controllo
dei monopoli naturali, finalizzato a garantire l’universalità
dei servizi e dei diritti.
Per affrontare compiutamente il tema dello sviluppo bisogna affrontare il
tema della penetrazione delle criminalità organizzata nell’economia
in una parte consistente del Paese. Occorrono misure particolari, per affermare
la legalità del funzionamento delle Amministrazioni Pubbliche e delle
imprese, secondo le proposte emerse in molte iniziative di categoria e di
territorio e per ultimo nella Conferenza di Palermo.
L’agenda delle riforme necessarie presuppone la ridefinizione dell’intervento
pubblico in economia anche al fine di rendere il mercato più regolato
e trasparente.
L’intervento pubblico va riorientato sia per mettere a punto nuove politiche
industriali capaci di innovare, rafforzare e spostare in avanti, verso filiere
tecnologiche più avanzate il nostro apparato produttivo di beni e sevizi,
sia per garantire un mercato concorrenziale: vanno costruite le condizioni
per un dinamismo economico di supporto alle imprese attraverso modelli di
ricerca sviluppo, formazione, innovazione e trasferimento tecnologico.
Le regole che presiedono direttamente o indirettamente al corretto e trasparente
funzionamento del mercato e delle singole imprese (diritto societario, diritto
fallimentare, legge sulla tutela del risparmio, indipendenza delle Autorità
di controllo), costituiscono un aspetto decisivo per l’ammodernamento
del sistema economico italiano, oggi il più arretrato fra tutti i paesi
sviluppati dell’occidente.
Capitoli centrali di questo ammodernamento sono gli indirizzi generali sulle
politiche tariffarie di servizi strategici come le comunicazioni e l’energia
e l’uso delle leva fiscale come strumento di contenimento del loro prezzo
finale. E’ ormai improcrastinabile la liberalizzazione degli ordini
professionali, indispensabile al fine di rompere gli steccati che cristallizzano
la società italiana, di ridurre il peso dei poteri delle lobbies che
innalzano i costi riducendo l’efficienza del sistema, di creare le condizioni
per pari opportunità di accesso dei giovani a attività di elevato
contenuto professionale.
5. Le privatizzazioni dei servizi a rilevanza industriale (energia, trasporti,
telecomunicazioni, ecc.), così come realizzate negli anni scorsi, non
hanno favorito la nascita di nuovi soggetti economici, né di investitori
istituzionali e in alcuni casi hanno concentrato posizioni di rendita e di
potere in poche mani. Esse hanno acuito il conflitto di interessi largamente
presente nella nostra economia, hanno sottratto risorse al core business delle
imprese acquirenti a favore di rendite nei mercati protetti, hanno addossato
alle società acquisite un pesante indebitamento, con forti penalizzazioni
sugli investimenti di queste in innovazione e ricerca. Esse dunque hanno rappresentato
un’occasione mancata per migliorare i servizi ai cittadini e alle imprese
e per l’attuazione di una politica industriale centrata sull’innovazione
della struttura economica italiana, che risulta così più arretrata
e meno attrezzata alle sfide della competizione.
Le distorsioni che si sono prodotte vanno ripensate criticamente e superate
in avanti compiendo scelte che non antepongano l’esigenza di cassa ai
processi di privatizzazione, decidendo strategicamente in quali settori sia
giusto mantenere, nel quadro di un sistema liberalizzato, la presenza di proprietà
pubblica, ristabilendo l’ordine temporale di liberalizzazione e privatizzazione.
In ogni caso, nei settori a rete, va garantita la terzietà delle imprese
proprietarie delle reti e un rafforzamento dei poteri dei regolatori pubblici.
Per quanto riguarda le imprese pubbliche locali, fornitrici di servizi strategici
per le imprese e per i cittadini, possono e devono essere attori economici
di nuove politiche industriali se si impegnano in processi di fusione che
ne garantiscano la crescita dimensionale, la qualità delle prestazioni
e la capacità competitiva, che consentano importanti investimenti tecnologici
in grado di modernizzare e qualificare l’infrastrutturazione, soprattutto
nel Mezzogiorno, superando così le logiche di finanziarizzazione che
pure si sono determinate a scapito della qualità, per rendere praticabili
gli obiettivi di riduzione nel consumo di acqua ed energia, produzione dei
rifiuti e salvaguardia dell’ambiente.
Un’attenzione specifica merita il tema dell’acqua, che è
un fondamentale bene comune.
Esternalità positiva è rappresentata dai servizi finanziari
che dovrebbero facilitare lo sfruttamento delle opportunità di crescita
e l’accesso alle innovazioni, favorire l’apertura degli assetti
proprietari anche in funzione della crescita dimensionale delle imprese.
Il sistema bancario, tuttavia, manifesta evidenti debolezze soprattutto sui
terreni, fondamentali a questi fini, della gestione finanziaria e della riorganizzazione
societaria. Il suo vero fallimento è stato quello di non aver saputo
intervenire nella ricostruzione degli assetti proprietari in un contesto –
quello del nostro paese – in cui a una elevatissima flessibilità
del lavoro corrisponde una assoluta rigidità del capitale. Le banche
italiane, malgrado i progressi realizzati in questi anni, sono ancora largamente
inadeguate. Il ruolo svolto nelle crisi industriali le ha portate a diventare,
attraverso la conversione dei crediti in compartecipazione, azioniste di larga
parte del sistema produttivo italiano. Risulta centrale disporre di alcuni
grandi istituti di dimensione europea capaci di promuovere e accompagnare
l’internazionalizzazione del sistema produttivo italiano, di svolgere
un ruolo indispensabile a sostegno della sua riorganizzazione e della creazione
di nuove filiere tecnologiche che richiedono l’impiego di ingenti risorse
a redditività differita e dunque l’apporto di rilevanti investimenti
a lungo termine. La politica portata avanti dalla Banca d’Italia non
ha aiutato tale processo e non ha innovato le banche italiane rispetto ai
loro competitori continentali, anche se è dimostrato che le stesse,
quando ne hanno la forza, possono diventare protagoniste di grandi alleanze
internazionali.
6. La valorizzazione e la finalizzazione dell’intervento pubblico al
rilancio anche qualitativo del sistema Italia deve coinvolgere le Pubbliche
Amministrazioni, nelle loro componenti:
- l’intervento pubblico sul sistema dei beni comuni e del welfare (istruzione,
scuola, salute, acqua), riaffermando una unitarietà della potestà
pubblica che inquadri in un “agire comune” il sistema dei poteri
in campo sociale collocato oggi ai diversi livelli istituzionali;
- l’intervento pubblico per l’innovazione e la ricerca che caratterizzi
la qualità del sistema produttivo, definendo le necessarie nuove regole
e identificando strutture che semplifichino il rapporto tra pubblica amministrazione
e imprese, senza destrutturate il sistema di regole che attualmente è
alla base di uno sviluppo centrato su qualità e sostenibilità.
Anche per il lavoro pubblico, così come per quello privato, vanno rimosse
le politiche che ne hanno ampliato la precarietà. E ciò richiede
lotte che pongano la questione al primo posto delle piattaforme.
Infatti, la qualificazione dell’intervento pubblico dipende fortemente
da una rinnovata centralità del lavoro pubblico che ha quattro grandi
opportunità: garantisce i diritti fondamentali delle persone, produce
sviluppo, favorisce l’insediamento produttivo, è frontiera e
presidio della legalità.
Il Governo Berlusconi, asservendo totalmente la struttura amministrativa e
burocratica alla politica, ha cancellato il principio di terzietà e
imparzialità della P.A. e, di fatto, ha contraddetto la scelta, che
ribadiamo fortemente, di separare l’amministrazione, cioè la
gestione, dalla politica.
7. Cruciale per uno sviluppo diverso è un sistema formativo di qualità,
basato sul diritto allo studio universalmente garantito, che offra a tutti
pari opportunità nell’accesso a una buona scuola pubblica, che
assuma il successo scolastico e formativo come una priorità che si
estenda all’età adulta, in un’ottica di formazione per
tutto l’arco della vita. La politica del centrodestra, imponendo un
modello rigidamente duale basato su meno istruzione pubblica e sulla discriminazione
economica, sociale e culturale di appartenenza, ha leso diritti, costituzionalmente
garantiti, di inclusione sociale e di cittadinanza, la cui priorità
va assicurata, cancellando e sostituendo i provvedimenti adottati su scuola,
università e ricerca, anche con l’intento di realizzare gli obiettivi
di Lisbona, nei confronti dei quali l’Italia accusa un gravissimo ritardo.
In questo quadro, l’obbligo scolastico a 16 anni, come primo provvedimento
della nuova legislatura, per poi portarlo entro la fine della stessa a 18
anni, con le conseguenti modifiche nella legislazione sul mercato del lavoro,
è un obiettivo fondamentale per elevare il livello culturale del nostro
paese e per evitare il rapido scivolamento nelle posizioni marginali dello
sviluppo e per scommettere nei percorsi successivi su una professionalità
più alta e versatile.
L’autonomia di scuole, Università e enti di ricerca, sancita
dalla Costituzione, rappresenta una scelta di grande valore e uno strumento
indispensabile per innalzare i livelli di conoscenza e per impedire un incremento
della frantumazione sociale.
La società della conoscenza deve fondare la sistematica capacità
di innovazione del sistema produttivo su un’ampia diffusione del sapere
critico. Solo persone capaci di continuare autonomamente ad apprendere non
si sentono minacciate dall’innovazione e possono comprenderla e promuoverla.
Del resto, in un ambiente soggetto a cambiamenti continui, le nozioni possedute
sono soggette a rapida obsolescenza. Per questo occorre triplicare, in un
lasso di tempo certo, il numero dei laureati, con particolare riguardo alle
materie scientifiche e tecniche (con ciò superando il gap che ci separa
dagli altri Paesi europei).
Occorre inoltre che il sistema formativo abbia come obiettivo primario una
formazione che consenta l’aggiornamento ricorrente delle proprie conoscenze,
così come occorre sviluppare un sistema di educazione e formazione
permanente in tutto l’arco della vita. In questo quadro il sindacato
deve porsi i seguenti obiettivi: sviluppare la formazione continua, anche
attraverso l’utilizzo qualificato dei Fondi interprofessionali, rafforzare
i diritti di accesso individuale alla formazione, saldare l’attivazione
dei percorsi formativi con lo sviluppo degli inquadramenti.
8. In Italia si fa sempre meno ricerca. La contrazione della spesa sia da
parte del Governo, che si è scaricata con effetti pesanti sull’attività
delle Università e degli Enti di Ricerca, stringendo il personale in
una morsa crescente di precarietà, sia da parte delle imprese private
è la causa principale della scarsa o nulla capacità di innovare
che caratterizza negativamente il nostro sistema economico, della conseguente
perdita di competitività e della caduta delle nostre esportazioni.
Occorre, dunque, riportare in tempi certi il rapporto tra spesa per la ricerca
e PIL alla media europea, incrementando gli investimenti nella ricerca universitaria
e degli Enti pubblici di ricerca, fondamentale per quanto riguarda in particolare
la ricerca di base, incentivando la ricerca attiva delle imprese, anche favorendo
aggregazioni di imprese minori che abbiano questo obiettivo.
L’innovazione è la risultante di una crescita del livello di
conoscenza della popolazione adulta, di un consistente progresso nella ricerca
di base, di un processo di cooperazione tra soggetti pubblici e privati. Occorre
acquisire al sistema nuove conoscenze e incorporare innovazione nei cicli
produttivi, innalzando così la qualità delle produzioni.
Si tratta di una vera e propria produzione di beni immateriali collettivamente
fruibili e disponibili per la competizione economica, che preveda il rafforzamento
delle scelte di politica scientifica e di politica industriale per l’innovazione.
E’ questo un problema che deve essere affrontato con un incremento della
spesa pubblica per la ricerca e attraverso adeguati incentivi alla ricerca
privata.
Le risorse pubbliche per la ricerca vanno prioritariamente finalizzate a valorizzare
la presenza italiana (centri pubblici, residua grande impresa, consorzi di
piccole imprese) nei grandi progetti di ricerca europei, a organizzare grandi
progetti nazionali di ricerca di base e applicata, a rafforzare, con forti
incentivi, la ricerca universitaria e degli Enti di Ricerca anche in sinergia
con le imprese, a sostenere i centri di ricerca ancora attivi nei grandi gruppi.
Anche a livello territoriale va sostenuta la collaborazione tra università,
istituti di ricerca, sistemi di imprese e servizi finanziari specializzati
(venture capital), incentivando le imprese a coordinarsi e cooperare per meglio
accedere alle risorse della e per la ricerca, raccordandole con le politiche
e le risorse per la formazione continua.
9. Per una nuova politica di sviluppo sostenibile è fondamentale la
localizzazione sul territorio che si proponga di favorire il mutamento della
specializzazione produttiva, l’innovazione tecnologica, la diffusione
dell’informazione, specie per i distretti e le medie imprese, la promozione
di centri di formazione e di conoscenza, lo sviluppo di strumenti assicurativi
di copertura del rischio, la crescita dimensionale delle imprese, il rigore
nel rispetto della legalità, la messa in sicurezza del territorio,
il rispetto dell’ambiente, la valorizzazione del lavoro.
Occorre passare dalla gestione della crisi all’anticipo della domanda
riconfigurando il tessuto produttivo e riannodando politiche pubbliche capaci
di coniugare lavoro, diritti, stato sociale e prevedendo a tal fine strumenti
operativi che facciano sistema tra i soggetti in campo.
Pertanto non servono politiche di finanziamenti individuali a pioggia ma vanno
perseguiti, attraverso il coordinamento tra i diversi livelli istituzionali
(regioni, stato centrale, UE), politiche di sostegno finanziario e organizzativo
a programmi di sviluppo locale integrato. Ogni incentivo individuale e collettivo
dovrà essere finalizzato alla formazione di reti cooperative che innalzino
complessivamente la competitività di un determinato territorio e abbiano
come obiettivo esplicito la qualità e la sicurezza del lavoro.
In questo quadro il sistema della autonomie – enti locali, scuola, università,
ricerca – può svolgere un ruolo fondamentale nella costruzione
dei sistemi territoriali di innovazione e offerta formativa.
Si tratta, in altri termini, di definire un modello di “ricerca e sviluppo”
meditante un intervento dello Stato che sappia collegare ai grandi progetti
europei i punti di eccellenza che tuttora permangono nel nostro paese e che
sappia rendere fruttuoso il legame tra le università, le istituzioni
scolastiche, i centri di ricerca, i centri di formazione professionale, le
agenzie formative, le istituzioni locali e i sistemi territoriali di piccola-media
impresa (nell’industria e nei servizi).
10. La sfida dell’innovazione è sfida per la valorizzazione del
lavoro e di chi lo svolge: al lavoro povero corrisponde un’impresa povera
(e viceversa), con un rapporto inversamente proporzionale tra dimensione e
utilizzo delle nuove tecnologie. L’assenza di crescita della produttività
totale dei fattori è dipesa dalla assenza di innovazione e la bassa
crescita della produttività del fattore lavoro è dipesa dalla
maggiore intensità delle prestazioni e dalla forte crescita di forme
di lavoro atipiche e precarie. Limiti dimensionali delle imprese, specializzazione
nelle attività tradizionali, bassa crescita nei mercati internazionali,
delocalizzazioni delle imprese di settori manifatturieri maturi motivate dalla
sola contrazione dei costi di produzione, debolezza della concorrenza, insufficienza
del sistema dei servizi, finanziari e non: sono questi i punti di attacco
per una politica industriale che ponga l’obiettivo di portare il paese
fuori dal tunnel della recessione, dalla crisi di interi settoriali (auto
e indotto, chimica di base, tessile abbigliamento calzaturiero, ecc.).
Anche per l’agroindustria, che assume un ruolo centrale data la consistenza
dei sostegni pubblici in Europa e in Italia, bisogna puntare sull’ammodernamento,
l’innovazione e la ricerca, abbandonando gradualmente obsolete politiche
protezionistiche che affondano le radici nella storia economica italiana,
in particolare nel Mezzogiorno.
A livello europeo, specie dopo l’allargamento, è ormai sul tavolo
la questione delle percentuale del bilancio UE destinata all’agroindustria.
Si pone, in questo quadro, la centralità del settore attraverso l’adozione
di nuovi criteri di sostegno, la qualità delle produzioni, la sicurezza
alimentare per i consumi di massa, l’abbattimento del costo della Politica
Agricola Comune che si trasferisce sul prezzo dei beni di prima necessità
e, quindi, sul potere d’acquisto dei salari e delle pensioni, la riconversione
a favore delle politiche di sviluppo rurale. Il sistema della impresa agricola
va normalizzato; vanno ricondotte a legalità la prestazione lavorativa
e l’impresa, anche condizionandone i sostegni economici al rispetto
di leggi e contratti.
Infine il turismo rappresenta una leva importante. Il settore va riorientato
in direzione di un cambiamento, già espresso dalla domanda soprattutto
straniera, attraverso il coordinamento della politica turistica che superi
la parcellizzazione della promozione e punti su progetti integrati, come i
sistemi turistici locali. A tale scopo occorre puntare alla destagionalizzazione
dell’offerta, al rafforzamento delle reti turistiche meridionali, al
recupero e valorizzazione dei beni culturali, storici, ambientali, all’innalzamento
degli standard qualitativi dell’offerta complessiva, al potenziamento
delle strutture di supporto, a partire dai sistemi di trasporto, alla qualificazione
professionale dei lavoratori.
11. Il rinnovamento del paese passa è anche attraverso il riequilibrio
territoriale. Il Meridione ha bisogno di più politiche pubbliche e
di migliore qualità, attraverso l’attivazione di flussi significativi
di risorse concentrati sull’innovazione, sulla diffusione e la qualità
dei saperi, sulla costruzione del capitale sociale, su interventi infrastrutturali
sostenibili. sul rilancio dell’azione di contrasto alla virulenta ripresa
dell’iniziativa criminale delle organizzazioni mafiose. Va assunta la
centralità dell’idea di sostenibilità economica, sociale
ed ambientale dello sviluppo del mezzogiorno. E’ indispensabile ed urgente
che lo Stato e le autonomie locali compiano scelte nette a tutela della legalità,
anche attraverso il rilancio dell’azione di contrasto all’iniziativa
criminale delle organizzazioni mafiose.
Per superare il degrado sociale particolarmente acuto nelle grandi aree urbane,
è necessario costruire politiche rivendicative che anticipino ed accompagnino
le grandi trasformazioni sociali e culturali e diano risposte alla crescente
domanda di diritti.
La sfida/opportunità del rapporto tra l’allargamento dell’Unione
Europea e la proiezione verso il Mediterraneo rappresenta un obiettivo importante
anche per la Cgil.
La dimensione mediterranea, infatti, assume importanza strategica nella prospettiva
dell’area di libero scambio che, a partire dal 2010, produrrà
modificazioni profonde in tutta la regione.
Per questo alle questioni dello sviluppo del Mezzogiorno è organicamente
collegato il progetto di un Mediterraneo grande mare di pace , che promuova
il dialogo tra popoli e culture diversi in una logica di cooperazione e solidarietà.
12. La nostra proposta è quella di una politica industriale e dei servizi
finalizzata alla costruzione di condizioni generali e specifiche favorevoli
allo sviluppo. Si tratta, in primo luogo, di mettere a fattor comune la migliori
energie e potenzialità disponibili nelle condizioni date, oggi troppo
disperse per poter dar vita a progetti di crescita, in cui la produzione industriale
mantenga un ruolo centrale. E’ una politica che penalizza la rendita,
ovunque si annidi e valorizza gli investimenti produttivi a lungo termine.
A tali obiettivi è ancorata l’esigenza di una nuova politica
di contrattazione confederale territoriale che, accanto alle materie del welfare,
preveda anche quelle che attengono l’innovazione. Si tratta di attivare
un modello di partecipazione nel territorio che arricchisca gli spazi di democrazia
e valorizzi il ruolo del lavoro nel cambiamento.
13. Per sostenere lo sviluppo delle aziende più esposte alla competizione
internazionale un ruolo fondamentale rivestono le infrastrutture materiali
(porti, aeroporti, strade, ferrovie, reti, energia, acquedotti, telecomunicazioni).
La competitività trarrebbe vantaggio dall’attuazione di un piano
per l’intero paese, che colmi il profondo divario al sud, (a partire
dalle urgenze del settore idraulico, dell’energia, dello smaltimento
dei rifiuti) e superi le strozzature al nord. Il Sud, nel quadro di una riduzione
generalizzata delle risorse destinate alle infrastrutture operata dalle Leggi
Finanziarie del Governo Berlusconi, è risultato essere particolarmente
penalizzato dalla riduzione degli investimenti, mantenendo invariato il differenziale
infrastrutturale. La Legge obiettivo che avrebbe dovuto accelerare i progetti,
si è rivelata, nei fatti, un autentico fallimento. Non ha consentito
l’apertura di nuovi cantieri e, di fatto, ha bloccato quelli in essere,
senza avere favorito, per altro, il necessario processo di qualificazione
delle imprese e del mercato delle costruzioni, sempre più caratterizzato
dal ricorso esasperato al subappalto e alla subcontrattazione.
14. Particolare attenzione va posta al sistema dei trasporti, ciascuna branca
del quale presenta attualmente elementi di grande criticità e nel contempo
potenzialità per lo sviluppo del paese. Occorrono regole, risorse finanziarie,
programmazione di interventi, a partire dalla priorità delle autostrade
del mare e del sistema dei porti, che, data la collocazione del paese sulle
grandi direttrici dei traffici dall’Oriente, rappresenta un vantaggio
competitivo naturale. Il paese ha bisogno di un trasporto aereo che non lo
renda dipendente da quello degli altri paesi. Va risolta la crisi endemica
del vettore nazionale, va perseguita un’alleanza internazionale, va
razionalizzata la rete aeroportuale che tende a dilatarsi irrazionalmente.
Vanno colte le opportunità offerte dall’alta capacità
ferroviaria. Le Ferrovie italiane continuano a manifestare elementi di preoccupante
criticità, malgrado le pesanti ristrutturazioni già intervenute.
Il mantenimento dell’unicità dell’azienda e della sua capacità
di investimento in tutti gli ambiti: rete, materiale rotabile per il trasporto
merci e passeggeri rappresentano gli elementi che rendono possibile lo sviluppo
del trasporto ferroviario essenziale per un sistema dei trasporti competitivo.
Va affrontata l’emergenza del trasporto pubblico locale come priorità
per una mobilità urbana sostenibile. Non è più rinviabile
infine la riforma dell’autotrasporto per rilanciare il sistema logistico,
attraverso provvedimenti per una razionalizzazione, anche con incentivi/disincentivi,
nella movimentazione delle merci e dei semilavorati che, per effetto della
trasformazione dei sistemi produttivi aumentano la necessità di trasporti,
in particolare su gomma, e conseguentemente l’impatto sul territorio.
15.Una strategia di sviluppo deve proporsi di ribaltare “l’economia
dello spreco” invalsa in questi anni, proponendo al contrario una economia
del benessere, attenta all’uso sostenibile ed ottimale delle risorse.
Essa va realizzata attraverso l’innovazione dei prodotti e dei processi,
la riduzione del contenuto energetico e di materie prime per unità
di prodotto, la manutenzione idrogeologica del territorio e la sua messa in
sicurezza. Le Politiche integrate di prodotto possono essere un utile strumento
per combinare innovazione di prodotto e competitività e una notevole
opportunità in un sistema produttivo connotato da PMI e da filiere
di prodotto complete.
Gli strumenti per la realizzazione di tali obiettivi debbono essere il coinvolgimento
degli operatori (tecnici, ricercatori, ecologisti, personale sanitario, ecc.),
la definizione di un idoneo quadro legislativo di sostengo ed una contrattazione
aziendale e territoriale sul complessivo arco di temi che sostanziano la realizzazione
di un progetto di sostenibilità.
La tutela dell’ambiente richiede un forte sistema integrato di protezione
civile, che veda un ruolo attivo di tutti gli attori istituzionali (Stato,
Regioni, Comunità Locali, Volontariato), dentro il quale va mantenuta
e valorizzata nella sua funzione originaria, che il Governo vuole manomettere,
la componente dei Vigili del Fuoco.
Il paese deve dotarsi di una politica energetica che assuma realmente i vincoli
del protocollo di Kyoto. La CGIL considera prioritario l’obiettivo della
riduzione delle emissioni di anidride carbonica, dello sviluppo della ricerca
dell’utilizzo di fonti alternative e di serie politiche di risparmio,
confermando la contrarietà alla costruzione di centrali nucleari con
le attuali tecnologie. A questo vincolo prioritario si devono orientare tutte
le misure volte a garantire la sicurezza di fornitura, riducendo la nostra
dipendenza dall’esterno e diversificando le fonti di approvvigionamento,
a partire dal petrolio (causa di tante guerre). Ciò anche al fine di
colmare il differenziale di costo che grava sulla nostra economia. La privatizzazione
della produzione e della distribuzione, le competenze concorrenti fra Stato
e Regioni, hanno indebolito le sedi di governo del sistema. Senza rimettere
in discussione radicalmente tali processi, è indispensabile ricostituire
una regia nazionale che porti al superamento dei conflitti locali e garantisca
la coesione sociale.
Investire con decisione nella sostenibilità significa investire sull’Italia,
sulle sue risorse naturali, storiche, culturali ed umane. Anche in questo
campo la ricerca può svolgere un ruolo fondamentale. La priorità
dell’innovazione implica la rimessa in discussione di interessi consolidati
dove, molto spesso, si annidano quelle posizioni parassitarie o di rendita
che gravano sulla collettività. Sappiamo bene come tutto questo determina
resistenze e reazioni anche conflittuali che troppo spesso riducono il Paese
all’immobilismo. Per superare queste resistenze e favorire una graduale
e progressiva riconversione di qualità del nostro sistema di produzione
e di consumo riteniamo fondamentale lavorare per far maturare le indispensabili
volontà e decisioni costituzionali e politiche. Nel contempo però
riteniamo altrettanto indispensabile predisporre e rendere praticabili quegli
strumenti e metodologie che consentano di integrare la dimensione economica
con quella sociale ed ambientale al fine di consentire una valutazione complessiva,
preventiva e condivisa della efficacia delle politiche di sviluppo.
5^
TESI
UNA OCCUPAZIONE SOLIDA E STABILE
1.
Riportare ad unità il mondo del lavoro
1.1 Il mondo del lavoro e i suoi protagonisti sono al centro di un ampio processo
di frantumazione e di riduzione dei diritti e delle tutele come mai da molti
anni a questa parte.
All’interno di ampie trasformazioni tecnologiche e culturali che interessano
la stessa base occupazionale italiana, assistiamo ad un’ampia frantumazione
nel mercato del lavoro e nel lavoro: nel mercato attraverso una moltiplicazione
delle forme contrattuali precarie, un’immersione di parte del tessuto
imprenditoriale e una forte compressione dei salari e dei diritti individuali
e collettivi, tanto nei settori privati che pubblici; nel lavoro, nei luoghi,
nei tempi e nei modi del produrre, attraverso una parcellizzazione dei modelli
aziendali e della catena del ciclo produttivo e dei servizi.
1.2 Si è giunti così anche alla vanificazione di leggi dal forte
valore anche simbolico, come quella per il collocamento delle persone con
disabilità, introducendo disposizioni che, anziché favorire
l’inclusione sociale dei lavoratori più deboli, determinano la
ghettizzazione degli stessi. Così come, dopo le lunghe, impegnative
e positive lotte e acquisizioni sul piano contrattuale e normativo per la
tutela della salute e sicurezza si è registrata una grave battuta d’arresto
in materia, dovuta anche ad un affievolirsi dell’attenzione e della
vigilanza del sindacato nei luoghi di lavoro, e soprattutto al venir meno
di un ruolo efficace di vigilanza delle istituzioni pubbliche.
1.3 Conseguenze più dirette di questo processo culturale, produttivo,
sociale e normativo sono infatti oggi: una condizione di precarietà
nel lavoro che genera precarietà sociale; una riduzione della coesione
sociale e un aumento dell’illegalità; un impoverimento del lavoro
dipendente privato e delle pubbliche amministrazioni; un depauperamento delle
competenze e delle professionalità; una riduzione degli strumenti e
dei luoghi del sapere e della formazione strettamente connessi ad un lavoro
di qualità; uno svilimento delle capacità e della efficienza
delle amministrazioni pubbliche, con una riduzione del loro ruolo e della
qualità dei servizi da esse erogati; una caduta nei livelli di sicurezza
e prevenzione degli infortuni; uno svuotamento degli strumenti democratici
e del ruolo dei soggetti collettivi in azienda e nel territorio; un tentativo
di negare alla radice l’essenza stessa della confederalità che
è alla base del movimento sindacale italiano.
1.4. Riportare ad unità il mondo del lavoro e rivendicarne il protagonismo
e la visibilità; dare voce e maggiore rappresentanza anche al lavoro
precario, al lavoro dipendente più povero, ai lavoratori emarginati
sono le coordinate entro cui, per la Cgil, occorre declinare un “nuovo
patto di cittadinanza”. Un patto che abbia come cardine il nuovo concetto
di “lavoro economicamente dipendente” con la conseguente estensione
dei diritti (e dei costi) attribuiti oggi al lavoro subordinato a tutte le
fattispecie economicamente dipendenti dall’impresa (a partire dalle
collaborazioni), concetto alla base delle proposte di legge di iniziativa
popolare su cui la Cgil ha raccolto oltre 5 milioni di firme. Un patto che
assuma da un lato il valore sociale, di emancipazione e di liberazione del
lavoro come volano per un maggiore benessere, coesione e democrazia; dall’altro
che faccia della qualità del lavoro il nesso inscindibile con una maggiore
specializzazione del sistema economico, in una collocazione avanzata nel contesto
della globalizzazione.
Questa era del resto l’intuizione e il portato più profondo,
ancorché non compiutamente realizzato, della politica europea a partire
dal Libro Bianco di Delors.
1.5 Non è un caso dunque se il lavoro è uno dei terreni su cui
più organica è stata l’iniziativa del governo di centro-destra,
inserendosi peraltro in un processo di precarizzazione dei rapporti di lavoro
già in atto.
Il Libro bianco del governo Berlusconi disegna una società caratterizzata
dall’indiscussa ed indiscutibile supremazia delle ragioni dell’impresa,
che deve essere libera di competere nella globalizzazione senza vincoli, di
costo e di diritti. Ai lavoratori, e alle loro organizzazioni sindacali, è
preclusa ogni funzione paritaria nell’impresa; non solo il conflitto
ma anche il semplice “confronto” è considerato come portatore
di ritardi e causa di impacci competitivi. Al suo posto, ed al posto di un
riconoscimento delle ragioni del lavoro nell’impresa, si suggerisce
al sindacato uno spazio, eventualmente bilaterale con le imprese e le loro
associazioni, in cui esercitare attività di servizio fino al collocamento
e alla certificazione dei rapporti di lavoro. Quindi una uscita progressiva
del sindacato dall’impresa, cui consegue la svalutazione del ruolo contrattuale
del sindacato a favore degli spazi di contrattazione individuale e fittiziamente
“paritari” tra lavoratore ed impresa.
Una decontrattualizzazione dei rapporti di lavoro, nel pubblico e nel privato,
inaccettabile che porterebbe allo snaturamento della funzione contrattuale
collettiva del sindacato confederale.
1.6 Base teorica di questo disegno è stata un’artificiosa contrapposizione
degli interessi dei lavoratori tradizionali (gli insiders) cui si è
voluto opporre gli interessi dei lavoratori irregolari o dei disoccupati (gli
outsiders), sostenendo che la ragione della condizione dei secondi fosse l’eccessiva
tutela dei primi.
L’attacco all’articolo 18, la concezione della “donna”
come soggetto strutturalmente svantaggiato, del lavoratore disabile come “peso”
per la competitività delle impresa, sono state la logica conseguenza
di tutto ciò; emblemi, non unici, di una specifica visione ideologica
della società e del rapporto tra lavoratori, cittadini ed impresa,
così come prospettata nello stesso “patto di Parma” tra
la Confindustria di D’Amato e il leader del centrodestra.
Si inserisce in questo disegno, del resto, il tentativo del governo, spalleggiato
dalla parte più retriva del padronato italiano, di smantellare ulteriormente
le tutele per la salute e sicurezza nel lavoro, con un’ipotesi di Testo
Unico che è stato costretto a ritirare anche grazie alla mobilitazione
dei lavoratori, degli RLS, dei sindacati, delle associazioni della prevenzione
e di tanta parte del mondo giuridico e medico-scientifico
2. La proposta alternativa della CGIL
2.1 La Cgil è stata in campo contro questa impostazione ed ha il merito
di aver contribuito a far sì che tale disegno, dalle ambizioni organiche,
sia riuscito solo parzialmente, e che sia stato successivamente ulteriormente
ridimensionato dall’esercizio, quasi sempre unitario, della contrattazione
collettiva. Del resto basta citare tre dati di fatto per dimostrare l’iniquità,
oltreché l’inefficacia, delle disposizioni e soprattutto della
filosofia che le ha ispirate: il rallentamento della crescita occupazionale
femminile rispetto a quella maschile; la progressiva perdita di competitività
delle merci italiane nel contesto internazionale, nonostante esse siano prodotte
nel cosiddetto “mercato del lavoro più flessibile d’Europa”;
l’estensione ulteriore dell’area dell’economia irregolare,
che quelle norme avrebbero dovuto spingere all’emersione (a partire
dalle false collaborazioni);.
Quindi si deve e si può cambiare strada. Andare oltre la legge 30 significa
ribaltarne l’intera filosofia: vanno infatti cancellate tutte le norme
che precarizzano il rapporto di lavoro e favoriscono la destrutturazione e
l’impoverimento dell’impresa; vanno cancellate le norme che indeboliscono
la contrattazione collettiva; vanno cancellate le norme che alimentano ulteriori
forme di svantaggio. Questo significa per noi cancellare la legge 30 e sostituirla
con un sistema di norme e diritti complessivamente alternativo, partendo dalle
nostre proposte.
2.2 Per questo la Cgil non si è limitata a denunciare la filosofia
e le norme inaccettabili contenute nelle leggi del governo, ma ha articolato
la sua battaglia su tre piani:
• Sul piano culturale, in difesa delle ragioni dei diritti del lavoro
anche e proprio nella nuova congiuntura economica: prova ne sono, a sostegno
della grande iniziativa contro la manomissione dell’art.18 e per i diritti
al lavoro, le proposte di legge di iniziativa popolare su cui 5 milioni di
uomini e donne hanno voluto condividere le nostre scelte; proposte caratterizzate
da un’impostazione non solo di merito, ma anche culturalmente alternativa
a quella del governo, che ne hanno così dimostrato gli ideologismi
e le mistificazioni, a partire dai presunti “vincoli comunitari”
alla base delle proposte del centrodestra.
• Sul piano contrattuale e di contrasto, impedendo l’ingresso
nel mondo del lavoro delle forme più pericolose di precarietà
(staff leasing, lavoro a chiamata), evitando unitariamente ogni stravolgimento
degli enti bilaterali frutto della contrattazione ed evitandone la costituzione
nei campi del collocamento e della certificazione dei rapporti di lavoro;
contrattando, unitariamente nella stragrande maggioranza dei casi, affinché
- per le tipologie d’impiego “tradizionali” - non si realizzassero
le ipotesi di precarizzazione, in particolare per le donne, previste dalle
nuove leggi, come nel caso del part-time, ed invece fossero accresciuti diritti
e prospettive di stabilizzazione della condizione occupazionale, come è
avvenuto per i contratti d’inserimento. Ciò naturalmente non
ci può esimere dal contrastare ogni tentativo di relegare i rapporti
a part-time, specie per le donne, in posizioni cui sia negata ogni prospettiva
di crescita professionale e di inclusione nell’organizzazione del lavoro
35
• Sul piano della proposta e della interlocuzione dialettica con le
forze politiche, a livello nazionale e delle Regioni, cercando di dare massima
centralità alla dimensione del servizio pubblico da un lato, e del
protagonismo dei soggetti collettivi e contrattuali dall’altro. Su quest’ultimo
punto vale la pena ricordare le iniziative nazionali della CGIL alle cui piattaforme
si fa esplicito rinvio e riferimento: sui servizi all’impiego e le politiche
regionali sul lavoro; sulla politica del lavoro e i diritti; sulla conoscenza;
sui diritti degli immigrati; sulle politiche di emersione, su salute e sicurezza
nel lavoro.
Il semplice elenco dei temi contraddistingue un approccio organico globalmente
alternativo alla filosofia liberista del centro-destra: rimettere al centro
il valore sociale del lavoro e la sua “unità” vuol dire,
infatti, fare i conti con l’area tanto dei “vecchi” che
dei “nuovi lavori”.
2.3 Per questo proponiamo un concetto allargato della dipendenza economica
come fondamento dei diritti, delle tutele e dei costi cui deve far fronte
l’impresa, attraverso una ridefinizione di lavoratore ”economicamente
dipendente” cui far corrispondere l’equiparazione dei diritti
e dei costi.
Questo vuol dire fare del contratto subordinato a tempo indeterminato la normale
forma di lavoro e di assunzione per l’ordinaria attività di impresa,
e quindi limitare i contratti c.d. flessibili ad una mera eccezione. Vuol
dire ridurre le tipologie non a tempo indeterminato, non solo attraverso interventi
legislativi e contrattuali che puntino anche ad una loro progressiva stabilizzazione,
ma anche attraverso un aggravamento del loro costo unitario.
Vuol dire riportare in “correlazione” diretta la fatica e l’impegno
nel lavoro con una retribuzione giusta, con un corredo di diritti universali,
indipendentemente dal nome contrattuale, estendendo così lo Statuto
dei diritti dei lavoratori. Consapevoli che parte importante dei sistemi di
welfare potranno innovarsi e ampliare la portata degli interventi, alla luce
delle grandi trasformazioni avvenute, solo con più stabilità
nel lavoro, oltreché con il riconoscimento che la stessa imparzialità
della Pubblica Amministrazione si indebolisce se la prestazione lavorativa
è svolta con tipologie precarie.
3. Contrastare la frammentazione delle imprese
3.1 Vuol dire che l’impresa va considerata nella complessa sfaccettatura
che ne costituisce l’attuale configurazione. Esternalizzazioni, internalizzazioni,
appalti, trasferimenti e cessioni d’impresa o dei suoi rami (così
come il ricorso al lavoro temporaneo o in collaborazione) sono elementi di
natura strutturale che vanno indirizzati, e non subiti passivamente. A cominciare
dal contrastare, anche nei servizi pubblici, operazioni di esternalizzazione
motivate dal solo risparmio sul costo del lavoro. Occorre quindi allargare
i diritti di contrattazione, a cominciare da quelli di informazione/consultazione.
A tale scopo, all’interno di una riflessione sugli accorpamenti contrattuali,
serve introdurre il concetto di “codatorialità” nei confronti
dell’intera catena di imprese interessate dalla filiera di esternalizzazioni,
e renderle tutte complessivamente responsabili.
3.2 Analogamente e più in generale serve una profonda revisione delle
norme sul socio-lavoratore, che ripristini almeno l’equilibrio raggiunto
nella legge 142/01 prima delle modifiche della legge 30. Inoltre sugli affidamenti
nella P.A., va affermato che i diritti tutelati costituzionalmente ed i servizi
relativi ai beni comuni non possono essere esternalizzati nella gestione né
affidati a strutture terze. Ma occorre fare di più, anche oltre ai
meccanismi di affidamento in appalto: si deve evitare che l’impresa
che esternalizza si possa poi disinteressare del lavoro e dei lavoratori che
ha ceduto.
3.3 Occorre poi intervenire per evitare fenomeni di dumping contrastando uno
svuotamento dei contratti collettivi attraverso l’impiego improprio
della cooperazione e del terzo settore, come ad es. avviene con l’affido
di commesse a cooperative in sostituzione di assunzioni regolari di lavoratori
con disabilità. Rimane ferma per la Cgil, infatti, la continuità
delle politiche volte all’integrazione “vera” dei cittadini
e delle cittadine con disabilità, anche causata dal lavoro, attraverso
servizi efficienti di orientamento e formazione, capaci di valorizzare la
professionalità delle persone con disabilità e contrastando
azioni di discriminazione diretta e indiretta che possono pregiudicare la
possibilità o la conservazione di una occupazione. L’esclusione
dal mercato del lavoro delle persone con disabilità può avvenire
attraverso una negazione di diritti quali istruzione, assistenza, trasporto:
la Cgil si attiverà affinché nei territori siano concertate
con gli Enti preposti politiche contrattuali rivendicative di una piena occupazione
delle persone con disabilità attraverso l’abbattimento di barriere
fisiche e culturali e l’istituzione di servizi di accompagnamento, tutor
e interventi sull’organizzazione del lavoro.
3.4 Occorre assumere l’importanza del sapere e della formazione all’interno
di un sistema scolastico e universitario accessibile per tutti e di qualità
come elemento centrale e strettamente intrecciato ad un modello solidale di
mercato del lavoro e ad uno sviluppo di qualità. Si pone qui l’impegno
di modificare la legislazione sul lavoro dei minori in stretta connessione
con il contrasto ad ogni forma di lavoro minorile e con l’obiettivo
del raggiungimento, nella legislatura, dell’obbligo scolastico a 18
anni; così come l’impegno per la formazione continua lungo tutto
l’arco della vita, strumento collettivo di mobilità sociale,
e per il diritto individuale alla formazione come strumento di valorizzazione
della persona. In questo quadro va rilanciato un forte intervento del sindacato
per rafforzare i diritti di accesso individuale alla formazione, ridefinendo
e rafforzando le opportunità già esistenti nei vari contratti,
spesso solo parzialmente utilizzate (150 ore, congedi formativi ecc.) e saldando
nelle piattaforme contrattuali l’attivazione di percorsi formativi con
lo sviluppo degli inquadramenti e del salario. In tale contesto assume valore
la tematica dell’apprendistato, non come mero strumento per sotto inquadrare
i lavoratori più giovani, ma come vero contratto a causa mista, con
un forte investimento sul piano formativo, intrecciando proficuamente formazione
formale esterna e formazione sul lavoro (piani formativi aziendali), con il
riconoscimento pubblico delle competenze acquisite (libretto formativo).
3.5 Occorre assumere la sicurezza, la prevenzione, il benessere dei lavoratori
come portato più generale di una ricostruzione di diritti universali;
l’altra medaglia di un contrasto alla precarietà che fa male,
che - nella competizione sul costo - arriva a disconoscere perfino il diritto
alla integrità fisica e psichica. La CGIL si deve pertanto impegnare
a proseguire e rilanciare con forza il ruolo del sindacato sul controllo delle
condizioni e dell’organizzazione del lavoro, realizzando pienamente
gli indirizzi dell’Unione Europea, reinserendo il tema nella contrattazione
nazionale e di secondo livello e nella negoziazione territoriale, sviluppando
le relazioni con il mondo giuridico e scientifico, con le istituzioni pubbliche
e con le stesse parti datoriali, affinché la salvaguardia della salute
e della sicurezza nel lavoro sia sempre più considerata come parte
integrante dei diritti e della dignità del lavoro e dell’impresa.
3.6 In senso analogo le nostre scelte di politica dell’immigrazione
(diritto all’ingresso per ricerca di lavoro, norme plurilingue su salute
e sicurezza, azioni positive contro le discriminazioni dirette ed indirette,
welfare fruibile e aperto) si saldano ad una impostazione di inclusione e
contrastano frontalmente ogni logica ghettizzante e discriminatoria.
4. Tutelare il lavoro, combattere l’illegalità
4.1 Occorre garantire un nuovo sistema universale di ammortizzatori sociali
e di tutele, fondato sul principio che il lavoro va difeso e non reso più
facilmente eliminabile in caso di difficoltà. Va quindi esplicitamente
premiata l’impresa che ridistribuisce il lavoro piuttosto che ridurlo
e imposto il vincolo del “piano sociale d’impresa” là
dove la difesa del lavoro risulti impossibile. Un nuovo ed universale sistema
di ammortizzatori che abbia una forte integrazione con un modello di welfare
dove, accanto a strumenti per la difesa nel lavoro, siano concretamente agibili
diritti più ampi di cittadinanza, di lotta all’esclusione e alla
povertà. In tale ambito il ricorso agli ammortizzatori sociali va connesso
all’insieme delle politiche attive del lavoro (composte da interventi
di formazione, riqualificazione, valorizzazione delle competenze comunque
acquisite, utilizzo dei fondi dello 0,30) da avviarsi su base territoriale
per governare al meglio le fasi di transizione da un impiego all’altro.
Si pone qui, tra l’altro, la proposta di “contratto di inclusione”,
istituto di collegamento tra lavoro e welfare, fortemente intrecciato, come
indicato nelle proposte della Cgil, con modalità anche nuove di sostegno
al reddito.
4.2 Occorre fare della lotta contro il lavoro nero la priorità per
un paese in cui ancora troppe donne e uomini, troppi immigrati, troppe imprese
si situano fuori dalla legalità, dai sistemi di protezione sociali.
L’intervento sull’economia irregolare è di straordinaria
importanza, non solo per evidenti ragioni etiche e di solidarietà,
ma anche per impedire forme di concorrenza sleale, per restituire alla collettività
ingenti quantità di ricchezza attualmente evasa, per rompere quelle
stesse convenienze tra soggetti deboli che minano la solidarietà generale
(indicativa la condizione delle assistenti famigliari). E’ il presupposto
per ogni possibile patto fiscale tra le ragioni del lavoro, dell’impresa
e della cittadinanza. Si tratta qui di operare coniugando un uso sempre più
mirato ed efficace della repressione (ponendo mano ad una radicale riforma
della legislazione del governo di centro-destra, a partire da quella sui servizi
ispettivi), con misure selettive e temporanee di accompagno e sostegno alle
imprese (o ai sistemi d’impresa di matrice distrettuale) che dimostrino
di poter sostenere il ritorno alla legalità e i ritmi della competizione
globale (crescendo anche in dimensioni ed innovazione); sostenendo i piani
di stabilizzazione previdenziale dei lavoratori e la loro qualificazione professionale;
spezzando le forme peggiori di ricatto ed illegalità che costringono
centinaia di migliaia di lavoratori italiani ed extra comunitari in una condizione
di rassegnazione e accettazione dello sfruttamento, fino al grave e crescente
fenomeno del lavoro minorile.
4.3 Per fare tutto ciò occorre un rinnovato ruolo della dimensione
pubblica nel fissare non solo le regole, ma nell’intervenire con politiche
attive universali e realmente fruibili nel mercato del lavoro che facciano
ritornare alla “legalità” e “visibilità”
i soggetti sociali più deboli; occorre scommettere su una dimensione
regionale/territoriale della politica del lavoro, che si basi sulla garanzia
di un equilibrio reale tra la tutela dei diritti, che non può che essere
nazionale, e un’articolazione delle politiche strumentali (servizi all’impiego
connessioni con i sistemi formativi professionali e per tutta la vita, ammortizzatori
sociali e politiche per popolazioni a rischio), in modo da essere coerente
con la nostra opzione generale di “federalismo solidale”. In questo
contesto la battaglia per il ruolo dei servizi pubblici all’impiego,
di cui riaffermiamo la centralità, va saldata con il tema delle risorse
necessarie per il loro rilancio, specie in previsione della diminuzione della
copertura da parte dei Fondi comunitari; va altresì rafforzata la riqualificazione
degli operatori impegnati nei servizi, e assicurata ad essi la necessaria
stabilità occupazionale e di rapporto di lavoro.
Questa è oggi l’unica strada per uscire dalla crisi economico
produttiva e per garantire una crescita e uno sviluppo duraturo e socialmente
sostenibile: il paese ed i lavoratori necessitano oggi di risposte diverse
anche rispetto al passato, più ampie e coraggiose per costruire un
futuro migliore.
6
^ TESI
I DIRITTI DEI MIGRANTI
6.1
La globalizzazione neoliberista, con l’accrescere delle disuguaglianze
è da una parte causa delle consistenti migrazioni a livello nazionale,
intra-europeo e internazionale e dall’altra substrato per risposte nazionalistiche
e xenofobe, che sono anche risposte errate al tentativo di imposizione del
“pensiero unico” che vorrebbe cancellare i pluralismi culturali,
etnici, religiosi, di genere.
L’immigrazione è un fenomeno complessivamente in crescita, e
molto articolato, che comprende persone in fuga dalle guerre e tirannie o
da selvagge ristrutturazioni economiche e socio-politiche, tratta delle donne
e dei bambini, ricerca di occupazione e/o di miglioramento delle proprie condizioni.
Oggi circa tre milioni di cittadini stranieri risiedono regolarmente nel nostro
paese e molte centinaia di migliaia sono, oltre a quelli in attesa di permesso
di soggiorno, irregolari.
6.2 La CGIL considera la presenza dei migranti nel nostro Paese un fattore
che arricchisce culturalmente e umanamente la nostra società e riconferma
la propria impostazione per l’unità delle lavoratrici e dei lavoratori
di tutti i paesi ed è quindi chiamata ad una capacità di analisi
e proposta assai articolata sul fenomeno migratorio, per ottenere una politica
aperta inclusiva che costruisca insieme ai migranti un patto di cittadinanza
basato sui diritti e le responsabilità.
6.3 La presenza di un flusso costante di migranti permette all’Italia
e all’Europa di contrastare il declino demografico della popolazione,
di rallentarne il processo di invecchiamento, di mantenerne stabili le forze
di lavoro e, conseguentemente, di accrescere il peso delle classi lavoratrici
nella società. Gli studi della Commissione europea confermano il carattere
positivo dell’immigrazione verso l’Europa e l’Italia.
La contraddizione tra apprezzabili “dichiarazioni di principio”
e concrete politiche per l’immigrazione ha nel “Libro Verde”
dell’Unione Europea una sua manifestazione evidente. La preoccupazione
maggiore è che la Commissione Europea manchi di qualsivoglia ambizione
nel governo di un processo così imponente, con il rischio di consegnarci
una direttiva che assume come comune denominatore le più inique politiche
sull’immigrazione dei singoli stati, in chiave prettamente “difensiva”.
6.4 In Italia questa deriva è già stata raggiunta con la legislazione
emanata dal Governo di centro-destra che ha costruito un “diritto duale”,
un incubatore, anche “culturale”, di una più generale impostazione
ideologica: la legge Bossi-Fini è una legge sbagliata, una legge barriera
e le incongruenze combinate fra questa e la legge 30 nella gestione del mercato
del lavoro e del contratto di soggiorno sono un motivo in più per la
loro cancellazione.
Infatti il concetto di contratto di soggiorno riflette la negazione della
legittimità del progetto migratorio giacchè la facoltà
di risiedere nel nostro paese è rigidamente vincolata alla domanda
di lavoro delle imprese del paese ospitante; con la crudele conseguenza che
ove -per qualsivoglia motivo- non vi sia più la costanza del rapporto
di lavoro il migrante perde il diritto al soggiorno ed è obbligato,
pena la carcerazione, a tornarsene a casa. L’opportunità di rimanere
in Italia dipenderà dunque, in generale, dal grado di acquiescenza
che l'immigrato saprà dimostrare nei confronti di colui da cui egli
dipende ad ogni effetto: il padrone (“imparare a stare al proprio posto”).
La legge Bossi-Fini ha poi determinato una diminuzione dei diritti per le
immigrate, che si trovano in una situazione più vulnerabile rispetto
all’istruzione, all’occupazione, alla sanità e alla partecipazione
alla vita pubblica.
6.5 Complessivamente le proposte del sindacato hanno come obiettivo una legislazione
finalizzata alla riorganizzazione e rafforzamento delle tutele e alla lotta
al sommerso e assumono, quindi, l’obiettivo della cancellazione immediata
della legge Bossi-Fini, e conseguentemente il varo di una nuova legge quadro
sull’immigrazione che non riproponga tuttavia principi e strumenti di
legislazioni precedenti che, dopo 8 anni, hanno mostrato tutti i propri limiti
e inadeguatezze e che si caratterizzi invece per una organicità e sistematicità
di nuove norme che sanciscano:
1. l’istituzione di un “ Permesso di Soggiorno per Ricerca di
Occupazione”, certi che una tale norma possa divenire l’ architrave
di una più aperta e giusta politica sull’ immigrazione in Italia
e in Europa; una politica basata sulla agibilità di una via legale
per sconfiggere il traffico criminale delle persone e l’abuso del lavoro
migrante in nero, senza diritti e tutele;
2. la chiusura dei CPT (Centri di Permanenza Temporanea), non solo perché
rappresentano un vero e proprio buco nero rispetto alle tutele dei diritti
umani previsti dalle norme nazionali ed internazionali, ma anche perché,
nel quadro di una legge alternativa che supera il proibizionismo attraverso
la via legale all’immigrazione, non avrebbero più nessuna funzione
e giustificazione;
3. la nascita di una rete di strumenti per l’inserimento e l’integrazione,
che attivi, tra l’altro, centri di accoglienza e di servizi all’immigrazione,
qualificati sotto la responsabilità degli Enti Locali, in grado di
assicurare alloggio, informazione, formazione, istruzione, assistenza psico-socio-sanitaria,
mediazione culturale e tutela legale, affinchè la diversità
arricchisca tutta la società;
4. il trasferimento delle competenze agli Enti Locali per i rinnovi dei permessi
di soggiorno e per l’ottenimento della Carta di soggiorno prevedendone
le adeguate risorse.
6.6 E’ inoltre indispensabile intervenire per ottenere:
a) la regolarizzazione degli irregolari presenti sul territorio nazionale.
La possibilità di uscire dalla clandestinità ed ottenere il
diritto al permesso di soggiorno per quanti possano dimostrare la sussistenza
di un rapporto di lavoro, così da dare impulso alla lotta al lavoro
“nero”, rendere l’immigrato protagonista delle propria “emersione”
e, ad un tempo, affermare un ruolo virtuoso dello stato come copromotore di
un processo di riscatto sociale;
b) l’urgente approvazione di una legge organica sul diritto d’Asilo:
solo l’Italia tra i paesi più industrializzati è ancora
carente di una legge quadro che tuteli i rifugiati secondo i dettami della
Costituzione e dei trattati internazionali sottoscritti dall’Italia;
c) l’estensione del diritto di voto attivo e passivo nelle elezioni
amministrative;
d) la riforma della legge sull’acquisizione della cittadinanza italiana
che dia maggior peso al principio dello “jus soli”;
e) l’adeguamento del personale per gli uffici consolari (per dare una
risposta alle lungaggini burocratiche imposte agli immigrati);
E’ del resto con questa profonda convinzione che siamo stati e siamo
tra i protagonisti di una campagna internazionale su 2 importanti Petizioni
Popolari: per la ratifica della Convenzione ONU sui diritti dei lavoratori
migranti e loro famiglie e per l’istituzione della Cittadinanza di Residenza
Europea.
6.7 Le discriminazioni istituzionali, sancite proprio dalle leggi, vanno rimosse
con azioni riformatrici. In molti altri casi, si tratta di svantaggi che non
rendono effettiva la parità di trattamento formalmente sancita: emblematico
è l’andamento degli infortuni, che a differenza degli italiani
è in forte crescita, a causa proprio delle tipologie di attività
e contrattuali e alla non formazione riservata ai lavoratori migranti. Qui
deve intervenire la capacità contrattuale innovativa del sindacato,
che può valere per gli immigrati e più in generale per tutti
i soggetti deboli, tanto più quando questa disparità si somma
all’essere donna. Ancor più degli uomini, le lavoratrici immigrate,
anche se diplomate o laureate, arrivano in Italia con una professionalità
ed esperienza di lavoro raramente riconosciute e sono costrette a lavorare,
salvo poche eccezioni, nel settore dell'assistenza alle persone ed alle famiglie
o come addette alle pulizie. Ciò spesso presso una famiglia, con un
ciclo continuo di lavoro, nell’isolamento più completo e con
i problemi connessi alla convivenza con il datore di lavoro. Esse sono un’importante
risorsa sia per le famiglie, poiché spesso permettono, soprattutto
alle donne italiane, la conciliazione fra lavoro professionale e famiglia,
sia per l'economia del paese.
6.8 L’impegno della CGIL, forte anche della significativa presenza di
lavoratrici e lavoratori tra gli iscritti, così come tra i delegati
immigrati si esplicita principalmente nel versante contrattuale.
Noi siamo per affermare la parità di trattamento e di cittadinanza,
una parità effettiva, e quindi il profilo della iniziativa sindacale
dovrà rimuovere gli ostacoli alla parità, dovrà connotarsi
come azione contrattuale e rivendicativa antidiscriminatoria, sapendo che
su questa strada il cammino è molto impegnativo perché oggi
si registrano condizioni discriminanti per i lavoratori immigrati in tutte
le sfere della vita sociale, dalla durata dei contratti individuali di lavoro,
al salario, agli ammortizzatori sociali, alla salute e sicurezza, al welfare
nazionale e locale, alla casa fino al sistema pensionistico. Deve essere chiaro
che una maggiore qualificazione e specializzazione delle aziende italiane
passa anche per un diverso e più giusto rapporto con l’immigrazione.
6.9 La complessità dei problemi e la concezione di confederalità
della CGIL ci deve impegnare anche sul versate della formazione per combattere
esclusioni, abbandoni e svantaggi scolastici e sfruttamento del lavoro minorile,
così come concezioni e pratiche di assimilazione che assegnano un valore
negativo agli apporti culturali delle comunità straniere, che stanno
alimentando forme di autoseparazione con la nascita di asili nido e scuole
materne su base etnica. Dobbiamo operare per un inserimento non solo rispettoso
delle diversità ma che permetta positive ibridazioni culturali, anche
attraverso l’incremento dei mediatori linguistici nelle scuole e rafforzamento
dei processi di educazione ed istruzione degli adulti.
A tal fine è necessario sviluppare maggiormente un rapporto crescente
con le comunità esistenti nei vari territori.
6.10 La complessità dei problemi e delle soluzioni impegna la CGIL
a una forte integrazione tra l’azione politica di rappresentanza (la
CGIL nelle sue articolazioni) e quella di tutela individuale (il sistema dei
servizi), con il pieno coinvolgimento delle immigrate e degli immigrati sia
nell’elaborazione delle proposte che nella loro rappresentanza all’interno
dell’organizzazione. Anche questo conferma la necessità di ricostruire
un più vasto e ampio fronte culturale, politico e sociale, che sappia
rimettere al centro il tema dell’immigrazione.
7^ TESI
UNO STATO SOCIALE INCLUSIVO, EFFICIENTE E DI QUALITA’
1.
In coerenza con l’insieme delle politiche economiche neoliberiste, che
ha caratterizzato l’azione del governo, il sistema di welfare è
stato in questi anni impoverito e dequalificato, svuotandolo, così,
di ogni ambizione di rappresentare uno strumento universalistico di tutela
e di affermazione dei diritti.
In questi anni si è verificato un attacco con due diverse caratteristiche:
da un lato un processo di svuotamento strisciante delle riforme realizzate
negli anni precedenti con privazione di risorse, mezzi e strumenti per la
loro realizzazione; dall’altro lato vere e proprie controriforme come
la legge delega in materia pensionistica.
Caratteristica comune di tutti questi provvedimenti è la volontà
di determinare le condizioni nelle quali il privato aumenti progressivamente
i propri spazi, fino a condizionare ciò che resterà di pubblico.
Obiettivo del governo è stato quello di colpire un modello economico
e sociale proiettato verso la solidarietà, l’eguaglianza, la
coesione sociale, un rapporto positivo tra le generazioni: cioè, di
affermare una cultura secondo la quale c’è incompatibilità
fra politiche di welfare e politiche di sviluppo producendo una conseguente
precarizzazione sociale, una crescita dell’insicurezza, il rischio di
una lacerazione profonda nelle relazioni e nel legame sociale.
Tutto ciò si è accompagnato ad una più marcata connotazione
integralista di alcune delle scelte compiute. È il caso della svolta
in senso punitivo sulle tossicodipendenze con l’annullamento, di fatto,
del principio della riduzione del danno e la mortificazione dell’azione
svolta fino ad ora nella prevenzione e nel recupero. O ancora il disegno di
legge sulla psichiatria col quale si tornerebbe a produrre stigma, pregiudizio,
separazione, paura.
Tra l’altro leggi come queste sulle tossicodipendenze o sulla psichiatria
non farebbero altro che aggravare, più di quanto sia già oggi,
la condizione delle carceri dal momento che la popolazione carceraria rappresenta
sempre più quella parte di società collocata ai suoi margini:
senza fissa dimora, tossicodipendenti, immigrati clandestini. È negato
il diritto alla salute, aumentano i casi di suicidio, il sovraffollamento
ha raggiunto livelli inaccettabili.
2. La CGIL si batte per una prospettiva radicalmente diversa: quella che fa
della universalità ed esigibilità dei diritti sociali il suo
connotato fondamentale. Vogliamo un moderno sistema di welfare che non si
limiti a contenere o risarcire i danni e gli squilibri che l’attuale
sviluppo produce, ma che sia capace di contrastare precarietà e insicurezza,
di essere fattore attivo di uno sviluppo di qualità e socialmente sostenibile.
Un sistema di welfare che sappia rispondere alle nuove domande e ai nuovi
bisogni che si presentano nelle società moderne: i flussi migratori,
la frammentazione delle reti familiari, la discontinuità dei cicli
di vita, l’ingresso delle donne nel mercato del lavoro, il progressivo
invecchiamento della popolazione, l’esigenza di una maggiore mobilità
verticale che frantumi le caste sociali che strutturano parti importanti della
nostra società.
2.1. I prossimi anni dovranno pertanto essere caratterizzati da un grande
investimento sul primo e vero patrimonio del nostro paese: le persone.
Investimento che affermi il diritto al sapere, alla formazione permanente,
il diritto al benessere, il diritto ad un sistema di tutele che sia in grado
di accompagnare la persona nel ciclo di vita rendendola più forte.
2.2. Un welfare improntato ad un’idea di stato laico che sappia riconoscere
e valorizzare le differenze, che sappia rispondere ai bisogni delle diverse
famiglie, senza la pretesa di definire “il modello” di famiglia,
di convivenza accettabile, di affetti ammissibili a tutela pubblica. Ciò
rappresenta anche la condizione per costruire una società che dia nuovamente
senso alle parole uguaglianza e libertà.
3. Se l’investimento nel welfare è indispensabile per realizzare
un nuovo modello di sviluppo, allora il tema risorse pubbliche ad esso dedicate
diventa di assoluta priorità. E’ urgente un reale incremento
delle risorse ad esso destinate, recuperando in primo luogo il divario tuttora
presente e in aumento tra la spesa sociale italiana rispetto a quella degli
altri paesi europei. Ciò, naturalmente, non è compatibile con
l’idea di ridurre il gettito fiscale e con l’idea del “travaso”,
ridurre cioè la spesa di singoli capitoli, ad esempio quello pensionistico,
a vantaggio di altri, di fronte ad una realtà che ha visto comprimere
ogni capitolo di spesa, da quella previdenziale, a quella sanitaria, a quella
per l’assistenza, a quella per la casa . Risorse necessarie anche per
recuperare il continuo taglio agli stanziamenti per regioni ed enti locali
che ha caratterizzato gli ultimi 4 anni, rendendo difficile non solo l’ampliamento
ma anche il mantenimento quali-quantitativo dell’insieme dei servizi
socio-sanitari.
3.1. Riaffermiamo la centralità del ruolo del sistema pubblico e del
suo operare attraverso i criteri di efficacia, di efficienza e di economicità.
Da questo punto di vista è decisiva la sua funzione di razionalizzazione
dell’offerta di prestazioni, sulla base di una lettura della domanda
che ne evidenzi l’appropriatezza e l’essenzialità.
La funzione del pubblico non sta solo nella programmazione e nella definizione
delle regole e degli standard qualitativi, ma nella gestione stessa dei servizi,
a partire dalla sanità e dall’istruzione. Qui, infatti, affidarsi
alle sole regole del mercato significa creare disuguaglianze, iniquità,
selezione degli aventi diritto sulla base del censo e della cultura.
Inoltre se si procede, come in questi ultimi anni è accaduto in alcune
realtà, attraverso appalti, esternalizzazioni, cessioni di servizi
a privati, project financing, sperimentazioni gestionali pubblico-privato
funzionali alla logica di riservare al pubblico solo il cosiddetto core business,
alla lunga si rende improbabile l’esercizio anche della funzione programmatoria,
come l’esperienza concreta sta documentando.
Occorre, quindi, definire obiettivi e priorità che diano senso a un
nuovo e moderno sistema di welfare.
4. Una delle priorità è consentire ai giovani l’accesso
al sistema di protezione sociale da cui oggi molti di loro sono sostanzialmente
esclusi. Il paradosso è che proprio di fronte ad una diffusa precarizzazione
dei rapporti di lavoro e alla discontinuità nel reddito, che necessita
di nuove e maggiori tutele, sono proprio i giovani e le giovani coppie che
incontrano insopportabili difficoltà nell’accesso all’abitazione,
al credito, ai servizi, alla possibilità di scegliere consapevolmente
di fare i figli voluti.
Oltre ad una politica di sostegno al reddito, occorre che nel territorio siano
strutturati interventi integrati, in grado di rispondere anche alle difficoltà
temporanee, sia di tipo economico (vedi prestito d’onore) sia con i
servizi tra i quali lo sviluppo di un mercato sociale dell’affitto capace
di soddisfare una grande e crescente domanda inevasa.
Per un numero crescente di giovani – ma anche di anziani a basso reddito,
immigrati, lavoratori in mobilità per ragioni di lavoro, famiglie monoreddito
– l’incidenza dei costi dell’abitare sul reddito (affitto,
mutui, tariffe) ha raggiunto livelli tali da condizionare pesantemente i consumi
delle famiglie e divenire ragione di crisi per la crescita del Paese. Non
è rinviabile, dunque, un piano d’investimenti pubblici e in partecipazione
con soggetti privati, della cooperazione e del no profit, mirato prioritariamente
ad allargare l’offerta abitativa in affitto a canone sociale agevolato.
4.1. È evidente che la mancanza di ammortizzatori sociali, di un sostegno
alle situazioni di povertà e discontinuità nel reddito, di una
politica per le famiglie, rischia di aggravare l’ansia anche verso un
sistema previdenziale che non garantisce più le prestazioni del passato,
perché le carenze di sostegni adeguati durante la vita attiva si ripercuotono
inevitabilmente anche sulle prestazioni per la vecchiaia, con un impatto ancora
più pesante.
Infatti un sistema legato alla rigida corrispondenza tra quanto versato in
tutta la vita lavorativa e il rendimento pensionistico finale, se inserito
in un contesto del mercato del lavoro più precario, senza tutele, e
con redditi bassi per un lungo periodo produce un abbassamento del tasso di
solidarietà interno che compromette anche l’equità tanto
da produrre una quantità insopportabile di situazioni a rischio di
vere e proprie povertà. A ciò sono particolarmente esposti i
lavoratori e lavoratrici con contratto di lavoro atipico, a partire dai parasubordinati.
È altrettanto evidente che in una situazione siffatta rischia di rimanere
compromessa anche l’idea della previdenza complementare come noi l’abbiamo
voluta e come la vogliamo difendere, volontaria ed effettivamente integrativa
di una previdenza pubblica che rimane il pilastro fondamentale, perché
si riduce, anziché ampliarsi, l’area delle persone che possono
aderirvi come scelta volontaria, impediti non da un fattore culturale, ma
dal reddito, dalla precarietà.
4.2. La stessa riforma delle pensioni del 1995, che pure garantisce omogeneità
e sostenibilità economica nel tempo, anticipando riforme a cui guardano
anche altri paesi europei, lascia irrisolto questo problema, per l’abbassamento
del tasso di solidarietà interno al sistema. Infatti, va reso più
esplicito che accanto agli aspetti di sostenibilità finanziaria devono
sempre stare, in modo indissolubile, quelli di sostenibilità sociale.
Oggi la priorità è contrastare la legge approvata nel 2004 dal
governo attuale, che non risolve ma accentua tutti questi problemi e, al contrario
occorre rafforzare e integrare gli strumenti della riforma del ’95 e
intervenire sulla “adeguatezza” dei redditi pensionistici in due
direzioni: in primo luogo verso i già pensionati (e verso coloro che
lo saranno in futuro) che subiscono da oltre 10 anni una costante e progressiva
erosione del loro potere d’acquisto adeguando l’automatica rivalutazione
della intera pensione alla inflazione reale, anche rivedendo il paniere ISTAT,
e realizzando quanto già contenuto e non ancora attuato nella “riforma
Dini” circa la redistribuzione contrattata della ricchezza prodotta
nel paese sui redditi pensionistici.
4.3. In secondo luogo bisogna agire sulle parti più deboli del sistema
ossia, i lavoratori e le lavoratrici con carriere discontinue e a basso reddito
ed i giovani che sono inseriti nel sistema di calcolo contributivo. Ciò
significa garantire una pensione pubblica dignitosa , avviare una grande operazione
di stabilizzazione dei rapporti di lavoro, di innalzamento dei redditi bassi
e di ripristino della flessibilità in uscita compromessa dalla controriforma
del governo.
Occorre prevedere la copertura figurativa piena per tutti i periodi coperti
da ammortizzatori, per quelli di congedo parentale e per il lavoro di cura:
ciò se veramente si vuole incentivare il lavoro femminile e nello stesso
tempo arrivare ad una vera e sostanziale parità nelle responsabilità
familiari. Inoltre, occorre realizzare la totalizzazione dei contributi, la
non penalizzazione del part-time ai fini pensionistici, la riduzione ad un
importo pari all’assegno sociale della soglia per poter avere la liquidazione
della pensione prima dei 65 anni, l’estensione ai lavoratori parasubordinati
dell’insieme dei diritti sociali a partire da una piena tutela in materia
di malattia, maternità, infortuni, indennità di disoccupazione
e sostegno al reddito, il sostegno ai bassi redditi sia fiscalizzando tutta
o parte della contribuzione, sia rafforzando il loro rendimento ai fini pensionistici.
Si tratta, inoltre, di impedire che il rapporto tra la pensione e il precedente
reddito da lavoro si abbassi ulteriormente, anche eliminando situazioni di
dumping tra i lavoratori in relazione alle diverse aliquote contributive,
realizzando la parificazione dei diritti e una progressiva ma reale armonizzazione
delle aliquote che innalzi anche quelle del lavoro autonomo.
Va confermata la scelta volontaria alla pensione integrativa mantenendo la
distinzione tra il risparmio individuale verso le polizze assicurative e la
previdenza complementare collettiva, che va agevolata nel prelievo fiscale
sui rendimenti annui e non sulla rendita finale che, al pari di quella pubblica,
deve essere assoggettata a imposizione progressiva. La contrattazione e la
gestione dei fondi negoziali devono poi agevolare l’adesione dei lavoratori
con rapporti di lavoro atipici e prevedere anche una mutualità interna
che contribuisca a ridurre gli ostacoli che oggi rendono difficile l’esercizio
di questa opportunità. E’ importante estendere i profili di investimento
socialmente responsabili e quelli con rendimento garantito, soprattutto per
le quote di TFR investito. Infine, ancora carente è la tutela prevista
nel caso di trasformazione del montante contributivo in rendita anche per
il permanere della distinzione, fatta dalle assicurazioni, tra uomini e donne
per l’interpretazione data alle proiezioni sulle aspettative di vita.
Si ritiene che una maggiore protezione sarebbe realizzabile se la gestione
delle rendite fosse permessa anche agli enti previdenziali pubblici che potrebbero
meglio garantire lo stesso adeguamento della rendita alla inflazione.
4.4. Rafforzare gli elementi solidaristici del sistema previdenziale significa
anche ripensare la necessità di utilizzo di risorse generali da immettere
nel sistema, per evitare che la solidarietà sia solo tra chi contribuisce.
Nell’ambito della vertenza più generale per un fisco equo va
equiparata la no tax area relativa ai pensionati a quella dei lavoratori attivi.
Rafforzare la solidarietà significa rendere esigibili i diritti dei
lavoratori immigrati e rimuovere le norme discriminatorie. Occorre realizzare
le convenzioni con i paesi di origine per garantire la reciprocità
nei diritti sociali e previdenziali e sancire il diritto dei lavoratori immigrati
che lasciano l’Italia per sempre alla liquidazione dei contributi versati.
5. Occorrono politiche capaci di utilizzare sia sul piano sociale che su quello
economico le risorse degli anziani.
Le politiche neoliberiste interpretano il concetto di invecchiamento attivo
con un’unica soluzione: aumento obbligatorio dell’età pensionabile.
Soluzione non solo sbagliata in quanto tale ma anche perché non in
grado di affrontare il rischio di estraneazione dalla vita attiva, dalla partecipazione
sociale e dalla vita politica di una quota crescente di popolazione.
Una seria politica per l’invecchiamento attivo richiede, in realtà,
diverse misure.
In primo luogo è di fondamentale importanza predisporre una rete di
servizi socio-sanitari capaci di garantire benessere e affrontare i bisogni
derivanti dalle situazioni di maggiore fragilità, in particolare per
le persone non autosufficienti o a rischio di non-autosufficienza. In secondo
luogo una politica di invecchiamento attivo richiede l’incremento dei
tassi di attività per tutti, che sappia contrastare anche la espulsione
precoce dal mercato del lavoro che oggi colpisce fasce sempre più giovani
di lavoratori a partire dagli over 45. Inoltre bisogna predisporre politiche
che siano in grado di consentire al lavoratore, qualora lo decida liberamente,
di continuare l’attività lavorativa dopo aver maturato i diritti
pensionistici.Ciò significa agire sull’organizzazione del lavoro
e la regolazione dei rapporti di lavoro; sulla possibilità di uscita
morbida dal lavoro con part-time e pensione; sulla formazione come apprendimento
lungo tutto l’arco della vita; sulla possibilità di prevedere
forme di affiancamento, trasmissione di competenze, tutoraggio, attuati dagli
anziani a favore dei giovani alle prime esperienze.
6. Occorre insistere per una società nella quale servizi e organizzazione
dei tempi della città e orari di lavoro facilitino le relazioni tra
soggetti e nelle famiglie.
Decisive per le donne, ad esempio, sono le politiche sociali di sostegno alla
occupabilità, in grado di favorire la realizzazione degli obiettivi
di Lisbona.
Perciò si devono investire risorse sui servizi destinati al supporto
del lavoro di cura, che ricade ancora oggi prevalentemente sulle donne, affinché
possano essere di incentivo anche alla condivisione delle responsabilità
familiari. Ciò vuol dire, ad esempio, che la responsabilità
sociale dello stato non è quella di sostenere la famiglia col bonus
da spendere sul mercato.
Anche la politica fiscale deve essere di sostegno alle famiglie. Riteniamo
che la logica del quoziente familiare non sia adeguata né sufficiente
perché finisce per favorire i redditi più alti; occorre invece
che attraverso la leva fiscale vengano rimodulati i sostegni economici in
relazione alla composizione del nucleo familiare e alla condizione reddituale
ma anche finanziati servizi capaci di ridare qualità al sistema di
welfare a partire dalle priorità di maggiori risorse, piena integrazione
socio-sanitaria, adeguate politiche formative e di sostegno all’infanzia
e ai minori; non autosufficienza, lotta alla povertà.
6.1. E quando parliamo di servizi per la prima infanzia pensiamo a luoghi
di socializzazione in cui si crea un contesto educativo in grado di sviluppare
le potenzialità di crescita affettiva, cognitiva e relazionale, -e
quindi superando il concetto di servizi a domanda individuale- rilanciando
l’obiettivo stabilito dalla U.E. a Lisbona di raggiungere entro il 2010
il 33% di offerta formativa nella fascia 0-3 anni e la reale generalizzazione
da subito delle scuole dell’infanzia, dando priorità alle strutture
pubbliche. È un approccio opposto a come il governo ha impostato, ad
esempio, la questione dei nidi aziendali delineando un modello nel quale l’aspetto
essenziale è soltanto la custodia del bambino e non la sua crescita
e sviluppo. Vanno poi rimosse immediatamente le liste di attesa per le iscrizioni
alle scuole di infanzia statali. Ribadiamo, inoltre, il giudizio negativo
sulla logica degli anticipi, affermata e sollecitata dai provvedimenti del
governo, perché complica l’identità pedagogica e organizzativa
della scuola dell’infanzia e apre la strada ad una forzatura dei tempi
dell’apprendimento senza rispettare i tempi e i ritmi di crescita dei
bambini.
7. Il carattere di universalità ed esigibilità dei diritti va
riaffermato nello stesso sistema socio-sanitario. Molti studi pongono in evidenza
la crescita del numero delle persone in stato di povertà e la crescita
dell’area della “vulnerabilità sociale”, di persone
e famiglie che possono trovarsi, improvvisamente (ad esempio a causa di un
licenziamento, sfratto, malattia grave), in una condizione di disagio o deprivazione,
frutto anche dell’accentuarsi delle disuguaglianze che caratterizzano
la fase attuale dello sviluppo.
Per questo è particolarmente grave la scelta dell’attuale governo
di cancellare l’esperienza del Reddito minimo di inserimento e di aver
ritardato, in molte sue parti, l’applicazione della legge di riforma
dei servizi sociali.
Riproponiamo l’introduzione una misura che abbia caratteristiche analoghe
al Reddito minimo di inserimento, superando l’anomalia per cui l’Italia
– insieme alla Grecia – è l’unico paese europeo privo
di uno strumento di contrasto della povertà e dell’esclusione
ed è fra quelli che registrano il tasso più alto di povertà
minorile.
Inoltre, la crescita della società multietnica determina nuovi bisogni
e necessita di nuove tutele anche sanitarie, in particolare verso gli immigrati
che non sono ancora regolarizzati. È una condizione, questa, che somma
al rischio per la loro salute, le occasioni di esclusione.
Contrastare la vulnerabilità sociale vuol dire dichiarare guerra all’analfabetismo
perché l’esclusione è un fenomeno che ha alle spalle scarse
o nulle competenze scolastiche.
8. Occorre dare piena attuazione alla legge di riforma del sistema integrato
dei servizi, affinché la programmazione sanitaria e quella sociale
siano strettamente correlate per dare risposte adeguate alle diverse forme
di disagio sociale e alle vecchie e nuove patologie come, tra l’altro,
già previsto dalla legge 229 di cui continuiamo a difendere i principi.
8.1. Il sistema territoriale è l’elemento su cui operare una
vera e propria svolta. Infatti il punto critico del nostro servizio sanitario
nazionale, sta proprio in una concezione ancora troppo ospedalocentrica, nella
permanente carenza dei servizi dedicati alla prevenzione e in una ancora insufficiente
rete di interventi territoriali e distrettuali. È qui che bisogna cambiare.
Cresce, infatti, una domanda di servizi sanitari dedicati prevalentemente
alle forme di cronicità e di assistenza socio-sanitaria. Una risposta
a questo fenomeno attraverso una tradizionale politica di “posti letto”
si rileva sempre più costosa e non soddisfa i reali bisogni dei soggetti
interessati. Ed i costi non possono gravare sui cittadini con l’utilizzo
dei vaucher e l’applicazione dei ticket di cui chiediamo l’abolizione.
E’ il territorio-distretto il luogo nel quale si intercettano i bisogni,
si interpreta la domanda di assistenza, si portano i servizi vicino alle persone
in forma partecipata,con un potenziamento dei servizi di prevenzione, cura,
riabilitazione in grado di rispondere alle vecchie e nuove patologie, di potenziare
le cure domiciliari e le strutture territoriali per le cure primarie. Occorre
poi la definizione di percorsi terapeutici capaci di garantire la continuità
assistenziale delle cure dalla fase dell’acuzie clinica a quella post-acuta,
improntando la politica dei farmaci e della diagnostica al concetto di appropriatezza
con l’elaborazione di linee guida e protocolli diagnostico-terapeutici
condivisi.
8.2. E’ essenziale tornare ad investire nella prevenzione per creare
ambienti di lavoro e di vita salubri, eliminare le condizioni di rischio a
partire dai posti di lavoro, sostituire le sostanze tossiche o pericolose.
8.3. Assoluta priorità va poi data alle politiche di prevenzione e
di sostegno alle situazioni di non autosufficienza. Si tratta infatti, di
far fronte ad un fenomeno le cui caratteristiche e quantità rappresentano
già oggi e sempre più in avvenire, una vera e propria emergenza
per milioni di persone e di famiglie. A tal fine ribadiamo la necessità
della costituzione di un fondo nazionale per la non autosufficienza che garantisca
la fruibilità e la esigibilità dei servizi su tutto il territorio
nazionale, naturalmente prevedendo che nelle Regioni si possano attuare forme
e modi di implementazione del fondo stesso.
Tutto ciò consente di superare una debolezza tipica del nostro sistema
di welfare caratterizzato prevalentemente dai trasferimenti monetari e non
da una diffusa offerta di servizi.
8.4. Se è la dimensione locale quella che consente di progettare azioni
integrate e personalizzazione degli interventi capaci di sostenere i percorsi
di autonomia delle persone, è in questo contesto che si deve investire
in nuove forme di sicurezza sociale, in formazione e sapere anche per contrastare
i crescenti fenomeni di analfabetismo, in una politica delle abitazioni, superando
le tradizionali politiche di settore. L’obiettivo non è solo
di assistere ma di ricostruire legami sociali e attraverso essi un’idea
di comunità. In tal modo, ad esempio, l’handicap non è
circoscrivibile ad un problema privato di chi ne è portatore o portatrice,
o della sua famiglia, ma può entrare in circolo come risorsa di cultura,
di responsabilità, questione su cui cresce un apprendimento collettivo.
È così che può svilupparsi la sua autonomia e indipendenza
nel lavoro e nella società.
9. In questo modello di stato sociale che vogliamo realizzare allora non è
secondario l’aspetto del lavoro di cura. Perché la qualità
dei servizi sociali è data in primo luogo dal lavoro, dalla relazione
che si instaura con gli utenti e dai tempi che questa relazione esige. Un
sistema di welfare che assuma la qualità come asse centrale del suo
operare, si deve porre il tema del coinvolgimento di tutti gli operatori,
del riconoscimento delle professionalità, della loro partecipazione
alla vita aziendale e alla definizione delle scelte strategiche. Invece da
tutti i provvedimenti del governo, non ultimo la legge 30, riemerge con forza
quella concezione culturale che vede il lavoro nel sociale come un’attività
scarsamente professionale, non produttivo, eseguibile per lo più da
donne in quanto “naturalmente portate” a prendersi cura, in una
condizione che tende a realizzare non un’idea di servizio organizzato,
con adeguati standard qualitativi e adeguati livelli retributivi, bensì
il modello di famiglia allargata. Bisogna invertire questa tendenza consolidando
un modello alternativo in grado di valorizzare l’investimento nel sociale
nel quale finalmente il lavoro di assistenza e cura alla persona sia ricondotto
a quella funzione che oggi non viene riconosciuta dall’attuale governo
anche quando affronta il tema delle cosiddette “badanti” e lavoratori
e lavoratrici immigrate. Una questione rilevante che non può essere
affrontata se non attraverso la regolarizzazione del rapporto di lavoro e
con programmi formativi. Inoltre decisivo è il rapporto con la rete
dei servizi pubblici rivolti in particolare alla domiciliarità e alla
non autosufficienza utilizzando anche forme di certificazione delle competenze
presso gli enti locali.
Poniamo quindi l’esigenza di un grande investimento per la valorizzazione
delle professionalità socio-sanitarie e del lavoro di cura come presupposto
per una qualificazione dell’intero servizio. Investimento che richiede
un riconoscimento in termini retributivi e di diritti. Da questo punto di
vista diventa necessario ragionare di indicatori della ricchezza oltre i termini
e le forme tradizionali: quantificare, ad esempio, quanto il lavoro di cura,
retribuito e non retribuito, incide sul PIL comporterebbe una rivisitazione
di tanti parametri non ultimi quelli stabiliti a Maastricht.
10. Proprio il valore che noi attribuiamo alla dimensione locale, non subìta
ma assunta come decisiva per conoscere la realtà e la dimensione dei
bisogni, conferma la nostra azione di contrasto verso la riforma costituzionale
in via di approvazione. È, questo, un atto che produce una rottura
dell’unità del paese e del carattere universalistico delle prestazioni
sociali; si approfondiscono le disuguaglianze territoriali; si afferma un’idea
della sussidiarietà tra i diversi livelli istituzionali in cui lo stato
rinuncia a funzioni e competenze decisive nei campi fondamentali della sanità
e dell’istruzione. Si afferma un principio di competizione tra le diverse
realtà territoriali a scapito, naturalmente, di quelle meno forti economicamente
e socialmente. Anziché una sinergia tra i diversi attori economici,
pubblici, privati, no-profit, si afferma una subalternità e un arretramento
del pubblico in un campo delicato come quello della produzione di servizi
e prestazioni sociali. In questa ottica il pubblico è sussidiario al
privato.
10.1. Per noi, al contrario, sono proprio universalismo ed equità che
danno senso e valorizzano la dimensione locale. Per questo è importante
che lo Stato definisca i diritti e la loro esigibilità, attraverso
la definizione dei LEA e il corredo di risorse per renderli realizzabili su
tutto il territorio, superando i gravi squilibri che penalizzano in particolare
i cittadini del Mezzogiorno ; alle Regioni e agli Enti Locali spetta l’organizzazione
della loro fruibilità. Il prelievo regionale e locale deve integrare
tali risorse e coprire servizi aggiuntivi a quelli previsti dai livelli essenziali.
In questo modo si fa convivere l’interesse e la solidarietà nazionali,
con la vitalità di sistemi territoriali che rendono il loro welfare
fattore di sicurezza e di sviluppo.
10.2. Un ruolo efficace, autorevole, del pubblico consente di integrare e
valorizzare le esperienze del privato, profit e no-profit, evitando, come
invece accade oggi, che esse vengano utilizzate per comprimere i costi dei
servizi e come strumento di dumping contrattuale ciò può essere
superato anche attraverso la costruzione di contratti di settori che riguardino
lavoratori pubblici e privati con l’obiettivo dell’omogeneizzazione
dei trattamenti contrattuali normativi ed economici. Un nuovo e diverso rapporto
tra pubblico e privato può configurarsi, invece, attraverso lo strumento
dell’accreditamento.
Alcune regioni hanno operato affinché strutture private entrassero
nel “mercato” del socio-sanitario indipendentemente da ogni accertamento
sui requisiti di legge e con l’unico obiettivo di spostare risorse dal
pubblico al privato. Un uso corretto e razionale dell’accreditamento
consente di ribaltare questa logica. L’accreditamento infatti va subordinato
alla programmazione regionale e al possesso di requisiti di qualità
e appropriatezza delle prestazioni. È così che si evitano costi
pesanti alla collettività e il privato si integra agli indirizzi definiti
dalla programmazione regionale. Inoltre, le politiche di corresponsione di
buoni e voucher alle famiglie vanno ripensate proprio per evitare che invece
di essere elemento di “personalizzazione” nell’offerta di
servizi diventino semplicemente un veicolo per il ridimensionamento dell’offerta
pubblica di questi e veicolo strisciante di privatizzazione e mercificazioni
degli stessi.
11. Nel territorio, inoltre, può e deve trovare espressione piena la
partecipazione democratica dei cittadini e delle loro associazioni. Non solo
per esercitare una puntuale verifica sull’attività svolta e qualità
delle prestazioni erogate ma anche per affermare un principio: il destinatario
di un servizio è portatore anche di idee, competenze, risorse che possono
e devono entrare in una compiuta relazione con il servizio stesso. Da questo
punto di vista la partecipazione è parte fondamentale del servizio
stesso. Occorre applicare positivamente quanto previsto dall’articolo
118 della Costituzione che assegna allo Stato, alle Regioni e alle città
metropolitane il compito di favorire l’autonoma iniziativa dei cittadini,
singoli e associati, per attività di interesse generale. E’ questo
il terreno su cui si rafforza il ruolo del volontariato, dell’associazionismo
e della cooperazione sociale in quanto soggetti in grado di intercettare e
interpretare le esigenze della comunità locale e fornire proposte e
progetti adeguati a soddisfarle. Il protagonismo e la partecipazione effettiva
delle forze sociali e del terzo settore alla realizzazione di una efficiente
rete di servizi richiede una amministrazione pubblica forte ma non autoreferenziale,
che incoraggi, sostenga e regoli l’iniziativa di chi si impegna nella
società civile, che indichi e faccia rispettare parametri di qualità
dei servizi al fine di soddisfare i bisogni dei cittadini e i diritti di chi
lavora, e di utilizzare al meglio le risorse di coloro che dedicano una parte
del loro temo al lavoro volontario.
12. Tutto questo ha bisogno di dare forza e qualità alla contrattazione.
Per rendere sempre più concreta ed efficace la battaglia del sindacato
per la difesa e l’estensione dei diritti diventa fondamentale la contrattazione
territoriale sulle politiche sociali. In primo luogo perché qui si
contrattano temi e questioni sempre più centrali per la qualità
della vita delle persone e delle famiglie. In secondo luogo la contrattazione
deve essere sempre più confederale e capace di rendere piena la partecipazione
dei soggetti interessati a partire dallo SPI e dalle categorie, in particolare
quelle che rappresentano i lavoratori direttamente coinvolti. In tal modo
la titolarità negoziale di ogni struttura acquista più forza
e qualità in quanto realizza “confederalità” cioè
la capacità di rappresentare interessi diversi e portarli a sintesi:
lavoratori, operatori, utenti, giovani, donne, anziani, migranti. Interessi
diversi che vanno rappresentati in un progetto capace di tutelare ed estendere
i diritti civili e sociali, individuali e collettivi.
E’ in questo contesto che va sviluppata l’azione di tutela individuale
indispensabile a garantire l’esigibilità dei diritti civili e
sociali individuali e collettivi, attraverso un sistema di servizi integrato,
fortemente connesso all’azione confederale e delle categorie.
8^
TESI
LE POLITICHE CONTRATTUALI
1.
La nostra proposta sulle politiche contrattuali deve essere rigorosa e funzionale
all’insieme della linea politica assunta su tutto ciò che riguarda
la nostra rappresentanza e il nostro ruolo di sindacato generale.
Essa non può prescindere da luci ed ombre che hanno caratterizzato
i risultati della contrattazione negli anni più recenti.
1.1 Vi è stata mediamente una dinamica delle retribuzioni nette inferiore
a quella inflazionistica, per effetto di una iniqua politica fiscale e per
la mancata restituzione del fiscal drag che ha prodotto una reale erosione
delle retribuzioni, nonché per una esigua distribuzione della produttività.
A ciò va aggiunto un sistema parametrale e di inquadramento fermo nel
tempo; il ritorno ad un addensamento sostanziale nei livelli di minor professionalità,
collegato al diffondersi di varie forme di lavoro precario e atipico; il sistematico
ritardo nei rinnovi dei CCNL, per responsabilità delle controparti
pubbliche e private che hanno di fatto prodotto un allungamento dei tempi
di rinnovo; la mancata revisione del meccanismo di calcolo dell’inflazione
riferita ai meccanismi ISTAT e quindi alla composizione e al peso delle voci
del paniere.
1.2 Contro questi effetti negativi, che hanno pesato sulla tenuta dei salari,
la CGIL ha condotto una convinta battaglia a sostegno dei redditi e per la
difesa del CCNL, a partire dal superamento delle regole sull’inflazione
programmata. L’articolazione dei risultati va inserita nel contesto
e nelle responsabilità politiche sopra descritte.
2. La contrattazione di secondo livello nell’ultimo decennio è
stata prevalentemente insufficiente, con risultati diversificati all’interno
delle categorie e fra Nord, Centro e Sud e che ha risentito della incidenza
della profonda crisi industriale in particolare degli ultimi 4 anni.
2.1 I dati disponibili indicano una copertura media nazionale pari ad un terzo
dei lavoratori e delle lavoratrici e sull’insieme dei comparti. I risultati
ottenuti evidenziano differenze qualitative e quantitative fra aziende, settori
e territori, anche per le diverse modalità e struttura contrattuale
con le quali si è esercitata la contrattazione decentrata.
2.2 Nel Pubblico Impiego, nei settori dell’istruzione, dell’università
e della ricerca la generalizzazione della contrattazione decentrata è
stata resa possibile dalla definizione per legge del sistema della rappresentanza
sindacale e delle RSU.
Oggetto della contrattazione è stato l’intervento sull’insieme
delle condizioni delle prestazioni del lavoro, sulle questioni retributive
e professionali messe in discussione anche dal taglio dei trasferimenti finanziari
al sistema delle autonomie locali e dall’attacco al sistema dell’istruzione
e della ricerca pubblica.
2.3 Nello stesso settore dell’impiego pubblico si assiste ad un attacco
al sistema contrattuale attraverso il tentativo di tornare indietro dalla
contrattualizzazione del rapporto di lavoro, che rimane punto fermo per il
sindacato, per un sistema fatto di interventi legislativi che snaturano il
ruolo e la funzione della stessa contrattazione in nome di “un primato”
dell’interesse della politica non solo sulle tematiche relative al rapporto
di lavoro (come è successo per il Corpo Nazionale dei Vigili del Fuoco
o come il Governo intende prefigurare per i docenti dopo la cancellazione
della contrattazione e delle RSU), ma con la massiccia estensione dello spoil
system, che stravolge i principi di imparzialità e di interesse generali
sui quali si basa l’agire pubblico.
3. I limiti più evidenti di cui dobbiamo prendere atto riguardano il
ruolo e lo sforzo esercitato su tutto ciò che attiene l’Organizzazione
del Lavoro e i cambiamenti prodotti dai numerosi processi di ristrutturazione,
trasformazione, ed esternalizzazione che hanno modificato e frantumato buona
parte del sistema delle imprese nell’ultimo decennio. A ciò va
aggiunto l’insufficiente coinvolgimento nella contrattazione delle nuove
e diverse forme di lavoro.
3.1 In questo contesto si sono altresì accentuati i differenziali salariali
tra donne e uomini. Infatti, sia la selezione degli obiettivi del salario
derivante dalla contrattazione di secondo livello, che la caratteristica dei
modelli organizzativi del lavoro hanno limitato la partecipazione delle donne
alle dinamiche del lavoro nei singoli luoghi di lavoro.
3.2 Tali processi hanno contribuito ad indebolire il nostro ruolo contrattuale,
ed a favorire in molte realtà fenomeni che devono essere rigorosamente
contrastati, in particolare:
3.3 - l’introduzione di doppi regimi contrattuali che hanno contrapposto
lavoratori in forza a lavoratori di futura assunzione;
3.4 - aumenti salariali legati a parametri, indici ed obiettivi non verificabili
che hanno impedito alle RSU di esercitare un controllo reale sulla prestazione
lavorativa;
3.5 - l’insufficiente rapporto fra contrattazione del salario e controllo
degli orari, ambiente, organizzazione del lavoro;
3.6 - frequenti erogazioni unilaterali.
4. E’ ormai un dato incontestabile il fatto che in Italia si è
verificato uno spostamento della ricchezza prodotta verso i profitti e le
rendite e che le retribuzioni hanno complessivamente subito un arretramento
tra i più significativi in Europa.
4.1 Tutto questo in una fase in cui, il processo di ristrutturazione delle
imprese a livello globale ha indebolito spiazzandoli i sistemi di regolazione
legislativa nazionale provocando una tendenza alla decontrattualizzazione
dei rapporti tra capitale e lavoro.
Ciò che si intende imporre è l’assunzione di un modello
di competitività basato sulla compressione dei costi e dei diritti
quale valore assoluto nell’evoluzione aziendalistica delle relazioni
industriali.
4.2 La legislazione, di matrice “liberista”, enfatizza il processo
di frantumazione della forma impresa, nella moltiplicazione delle tipologie
dei rapporti di lavoro e nel rapporto diretto fra azienda e singolo lavoratore.
Nella tendenza alla individualizzazione del rapporto di lavoro, così
come nella frammentazione delle figure giuridiche di impresa, sta la crisi
della stessa “forma-contratto” quale compromesso fra interessi
diversi ed asimmetrici, asimmetria che sta alla base dell’organizzazione
collettiva degli interessi più deboli.
4.3 Vi è quindi la necessità di far fronte alla linea di decontrattazione
e di individualizzazione, attraverso il superamento e la sostituzione di tale
legislazione “liberista”.
4.4 Anche per queste ragioni il sindacato deve saper mettere in campo una
proposta alta di politica contrattuale per ristabilire autorità negoziale,
autorità salariale, autorità normativa, a tutti i livelli della
contrattazione e per tutte le tipologie di lavoro, in linea con le nostre
politiche sul mercato del lavoro.
5. Il nostro Congresso si caratterizza nella centralità del valore
del lavoro.
La politica contrattuale, le sue funzioni, i suoi compiti e il ruolo del sindacato
ne sono una parte determinante.
5.1 Il nostro punto di riferimento deve essere il lavoro e le opzioni prodotte
in questi anni che hanno avuto la loro massima espressione all’assemblea
di Chianciano nel Maggio del 2004 e il documento del Direttivo Nazionale del
30 settembre 2004.
5.2 Occorre rilanciare una campagna di rinnovata politica contrattuale in
grado di riunificare il valore del lavoro che abbia carattere acquisitivo
e non solo difensivo, sia per le retribuzioni che per i diritti rivendicando
altresì investimenti per l’innovazione di prodotto e di processo
quale fattore determinante per assicurare qualità e continuità
produttiva e salvaguardia dell’occupazione.
6. La CGIL nel ribadire che il sistema di regole contrattuali deve essere
unico per tutti i contratti pubblici e privati, ritiene prioritario definire
ruolo, compiti e funzioni:
- del contratto Nazionale
- della contrattazione decentrata
- del collegamento con le politiche negoziali in Europa
- della contrattazione confederale territoriale.
Pertanto la Cgil conferma che:
6.1 Fermo restando la necessità di rivendicare e verificare una nuova
e diversa politica redistributiva a sostegno del lavoro dipendente e l’intervento
per la fiscalizzazione contributiva dei salari più bassi, il contratto
collettivo nazionale di lavoro rimane lo strumento universale e indispensabile
per concorrere alla difesa e all’incremento del potere d’acquisto
delle retribuzioni e per aumentare i salari contrattuali, nonché per
pari diritti su tutto il territorio nazionale, per tutte le lavoratrici e
i lavoratori.
6.2 Occorrono regole, parametri e criteri certi di riferimento per tutti i
contratti collettivi nazionali di lavoro, a partire dall’inflazione
effettiva e prevedendo altresì l’utilizzo di quote di produttività,
affinché le categorie, nella loro autonomia, definiscano le piattaforme
per i rinnovi dei CCNL, al fine di stabilire le richieste salariali e dare
risposte alle esigenze di modifica delle parti normative e alla revisione
degli inquadramenti professionali.
6.3 Per incrementare il reale potere d’acquisto ed stendere i diritti,
vanno respinte regole e modelli che portano ad un federalismo contrattuale
finalizzato a determinare differenze per aree geografiche e territori, oltre
a ridurre la possibilità di accrescere le condizioni di parità
di trattamento e di tutela per tutti i lavoratori e le lavoratrici, indipendentemente
dalle caratteristiche del rapporto di lavoro.
6.4 Il livello nazionale della contrattazione, non va depotenziato alla luce
degli assetti istituzionali e della titolarità delle competenze introdotte
già con la Riforma del Titolo V° della Costituzione ed attribuite
alle Regioni ed alle Autonomie Locali soprattutto a seguito dell’inaccettabile
ipotesi di stravolgimento della costituzione in particolare con la “devolution”
in tema di sanità ed assistenza; istruzione; polizia locale.
6.5 Il contratto nazionale rimane garante delle modalità concrete con
le quali la valorizzazione del lavoro contribuisce all’uniformità
delle prestazioni su tutto il territorio nazionale. Anche queste motivazioni
rafforzano la nostra contrarietà al cosiddetto “federalismo contrattuale”.
6.6 Al contrario occorre un progetto che indichi modalità e qualità
di riaggregazione del ciclo produttivo per consentire parità di costi
contrattuali e contributivi. Riduzione significativa delle tipologie e del
numero dei contratti, definendo percorsi condivisi per regole che vincolano
l’individuazione delle aree o delle filiere contrattuali di riferimento,
al fine di consolidare la contrattazione sull’intera organizzazione
del lavoro, evitando la pluralità contrattuale e rispondendo alle nostre
proposte di politiche produttive e di sviluppo.
6.7 Il ricorso alle continue esternalizzazioni e frantumazioni, agli appalti
e subappalti avvenuti prevalentemente per ridurre il costo del lavoro, e introdurre
precarietà, ha contribuito ad attivare un insopportabile dumping contrattuale.
Una nuova e più incisiva legislazione sugli appalti può contribuire
alla difesa dei diritti, salute, sicurezza, legalità.
7. Per rafforzare l’autorità normativa occorre inoltre realizzare:
7.1 Un sistema informativo in un quadro di democrazia industriale in grado
di rendere esigibile il diritto alla conoscenza preventiva al fine di consentire
la contrattazione d’anticipo a monte dei processi di ristrutturazione
e quindi delle strategie d’impresa.
Nella disponibilità di strumenti per la contrattazione di anticipo,
si colloca il nostro ruolo per il governo dei processi, che non può
declinarsi né alla presenza del sindacato nei consigli di amministrazione
né tanto meno con forme di partecipazione azionaria dei lavoratori.
7.2 Vanno affermati ed individuati strumenti e sedi, a partire dagli osservatori,
nei quali le parti sociali possono monitorare, verificare e controllare l’andamento
della produttività e la sua distribuzione.
7.3 - Normative nel CCNL sulla politica degli orari, in grado di contenere
tutti gli aspetti di deregolamentazione introdotti dalla legislazione italiana,
e stabilire regole di sostegno alla contrattazione di secondo livello.
Il sistema degli orari, delle turnazioni e delle flessibilità deve
favorire la possibilità di conciliare per uomini e donne il tempo di
vita ed il tempo di lavoro, e ricostruire organicamente una strategia di riduzione
del tempo di lavoro.
Sulla politica degli orari la Cgil è impegnata al controllo ed all’intervento
rigoroso sulle direttive e sui dispositivi europei e ritiene indispensabile
impedire che si sviluppi una pratica derogativa “in pejus” rispetto
alla stessa normativa europea.
E’ inoltre importante riprendere il controllo degli orari di fatto e
del ricorso agli straordinari nonché rilanciare la strategia dei contratti
di solidarietà quale uno degli strumenti per contenere le riduzioni
del personale, e la tempo stesso difendere l’integrità dell’impresa
in una fase di crisi industriale e di aumento delle delocalizzazioni.
7.4 - Ridefinire un sistema classificatorio nazionale per l’individuazione
delle professionalità nonché un sistema di regole e di rimandi
alla contrattazione aziendale per il loro riconoscimento.
7.5 - Azioni positive per pari opportunità per le lavoratici al fine
di impedire discriminazioni di genere.
7.6 - Istituzione di un osservatorio nazionale con articolazioni decentrate
sulle discriminazioni razziali o etniche, per promuovere azioni finalizzate
ad eliminare comportamenti discriminatori nei luoghi di lavoro.
7.7 - Formazione e riqualificazione prevedendo, nei rimandi a livello decentrato,
normative (orari, luoghi, modalità) in grado di rendere esigibile questo
diritto a tutti i lavoratori ed alle lavoratrici, e compatibili con i carichi
familiari che incidono prevalentemente sulle donne.
7.8 - Un sistema di contrattazione e di controllo su tutto ciò che
attiene ai piani della sicurezza e ad azioni preventive per la tutela della
salute e per impedire infortuni, malattie professionali, morti sul lavoro
7.9 - Bilateralità: gli enti bilaterali non sono sede di contrattazione
e pertanto non possono sostituirsi ad essa, ma devono al contrario applicare
le intese avvenute tra le parti sociali nelle sedi proprie del negoziato.
Gli enti bilaterali non devono svolgere funzioni di certificazione a partire
dai rapporti di lavoro, né tanto meno gestire il mercato del lavoro.
8. La contrattazione decentrata, va estesa e riqualificata a partire da quella
aziendale o di gruppo, di posti di lavoro nel caso del pubblico impiego, del
sistema dell’istruzione e della ricerca. Non va ridimensionata ma al
contrario resta per noi la scelta centrale per consegnare ai delegati ed ai
lavoratori ed alle lavoratrici un ruolo effettivo di intervento e di negoziato
sull’organizzazione del lavoro, salute e sicurezza, condizioni di lavoro,
orari, riconoscimento della professionalità e tutto ciò che
il CCNL demanda ai luoghi di lavoro, nonché distribuire aumenti salariali
variabili e con quote da consolidare attraverso l’individuazione di
obiettivi raggiungibili, parametri ed indicatori da concordare nella contrattazione,
collegati ai risultati del lavoro e della sua organizzazione, in grado di
consentire la loro verificabilità e il loro controllo.
8.1 L’esigenza è quella di mettere in campo una contrattazione
che superi in via definitiva la contraddizione che vuole gli stessi lavoratori
attenti e responsabili, mentre nello stesso tempo li si priva sia di certezze
attraverso le tante forme di lavoro precario, che di autonomia attraverso
la perdita del governo del proprio tempo di lavoro e di vita, con particolare
riferimento alle lavoratrici.
8.2 Questa riconquista della capacità di intervento autonomo dei lavoratori
sulle loro condizioni di lavoro, sull’organizzazione della produzione
o delle modalità di offerta dei servizi pubblici, è tanto più
importante se consideriamo che in conseguenza di una ricerca esasperata da
parte delle imprese e in buona parte della pubblica amministrazione, di una
competitività fondata sui costi, si è determinato un intervento
unilaterale, solo in parte contrastato dalla contrattazione, che ha fatto
arretrare prassi condivise sulla gestione degli orari di lavoro, sui carichi
di lavoro, sulla qualità del lavoro in gran parte espressa con l’uso
di una diffusa precarietà.
8.3 Nella contrattazione di secondo livello vanno riaffermati i valori di
solidarietà, equità, uguaglianza, di rispetto delle differenze
(di genere, etniche, ecc.) come fondamento per una iniziativa di portata strategica
e coerente con l’iniziativa della Cgil, che abbia l’obiettivo
di realizzare percorsi di inclusione, nel ciclo produttivo e organizzativo
dell’impresa di tutti quei lavoratori precari e ai margini del ciclo
per effetto delle riorganizzazioni dell’impresa, dei limiti avuti nelle
contrattazioni precedenti e per effetto dei danni provocati dalla nuova produzione
legislativa.
8.4 Nel lavoro pubblico la contrattazione integrativa deve rappresentare lo
strumento principale per valorizzare il lavoro, costruendo un rapporto fra
la contrattazione ed un nuovo spazio pubblico sul versante della tutela dei
diritti delle persone, dell’efficacia e della trasparenza dell’agire
pubblico.
9. Territoriale, di sito, di distretto, di filiera.
9.1 Fermo restando la scelta prioritaria del livello aziendale, la Cgil, al
fine di estendere la contrattazione decentrata, in particolare nelle piccole
imprese, ritiene che i contratti nazionali di categoria potranno prevedere
il ricorso anche a questo livello decentrato, il suo confine e le materie
ad esso demandate. Non deve essere un livello aggiuntivo a quello aziendale,
né tanto meno contrapposto. Saranno i singoli comparti e relativi CCNL
a definire, sulla base della struttura del modello produttivo, le sue articolazioni
e i cambiamenti verificatisi in questi anni sia nel pubblico che nel privato
e nel terziario, ad individuare le modalità, le caratteristiche e gli
strumenti dell’eventuale livello territoriale.
9.2 Alcune esperienze si sono consolidate, altre vanno ridefinite individuando
ambiti di sperimentazione anche per far fronte ad una filiera produttiva lunga
ed articolata in più tipologie contrattuali. La Cgil ritiene pertanto
utile - al fine di respingere la logica del supermarket contrattuale che produce
dumping a sfavore dei lavoratori - dare vita ad una stagione che nell’ambito
della contrattazione decentrata sperimenti azioni contrattuali intercategoriali,
fermo restando le rispettive titolarità contrattuali.
9.3 In questo contesto la contrattazione di sito, dovrà mettere in
rete le varie strutture sindacali aziendali presenti nell’unità
produttiva, per apportare politiche rivendicative in grado di armonizzare
e migliorare le condizioni di lavoro.
9.4 L’obiettivo di consolidare ed estendere l’esercizio della
contrattazione per i livelli decentrati (territoriali, sito, distretto, filiera)
impone l’individuazione di forme organizzative in grado di assicurare
un allargamento della rappresentanza e dei diritti sindacali.
10. la Cgil considera vincolante la validazione certificata dei lavoratori
e delle lavoratrici su tutto ciò che attiene sia le piattaforme che
gli accordi in cui sono coinvolti.
11. Europa
11.1 Fermo restando ciò che viene proposto nelle tesi sulle politiche
europee, occorre prevedere un livello contrattuale per la dimensione sovranazionale
dell’impresa, che affronti la nuova dimensione societaria in ambito
europeo, che intervenga su tutto ciò che ha prodotto la forte delocalizzazione
e il nuovo assetto delle multinazionali, che preveda strumenti e regole per
le direttive sul lavoro e sul ruolo dei CAE, degli organismi previsti dalle
direttive sulla Società Europea, che consegni al sindacato una funzione
contrattuale e non solo informativa.
11.2 La CES deve svolgere un ruolo di soggetto negoziale, al fine di promuovere
azioni utili alla realizzazione di una politica di coesione sociale a livello
europeo.
11.3 Una delle questioni più importanti che va messa al centro del
confronto negoziale sovranazionale, in particolare per le imprese multinazionali
riguarda la responsabilità sociale dell’impresa nei confronti
dei diritti dei lavoratori e delle lavoratrici, dell’ambiente e dell’economia,
in tutti i paesi in cui opera.
12. Il ruolo confederale nella contrattazione territoriale e sociale
12.1 Dalle politiche di sviluppo, alle politiche contrattuali emerge con forza
la necessità di aprire una nuova fase per la contrattazione confederale
nel territorio, anche attraverso processi democratici di coinvolgimento dei
lavoratori, delle lavoratrici, dei pensionati delle pensionate.
12.2 Tale scelta è ancora più urgente per il peso che le politiche
sociali territoriali e di sostenibilità e sicurezza ambientale hanno
assunto sia per quanto riguarda gli effetti della redistribuzione del reddito
sia per quanto riguarda le più specifiche politiche dello sviluppo
locale. Per tale obiettivo è necessario coinvolgere le associazioni
che possono contribuire alla costruzione di uno sviluppo di qualità
sia dal punto di vista sociale, occupazionale, ambientale.
12.3 Il fine è quello di progettare e definire politiche di sviluppo
locale del territorio, affrontando i temi della reindustrializzazione, della
finalizzazione specialistica di filiera, di nuovi insediamenti industriali,
della riunificazione del lavoro, dello sviluppo sostenibile quindi legato
ai problemi dell’ambiente e della tutela del territorio, della crescita
professionale con la formazione d’anticipo e i fabbisogni formativi;
ed affrontando le politiche sociali e dei servizi come fattore di sviluppo
nel territorio.
12.4 La programmazione negoziata e la contrattazione sono necessarie affinché
vi sia un uso delle risorse che premino il territorio ed evitino dispersioni
a pioggia, responsabilizzando le istituzioni in una funzione di effettiva
promozione dello sviluppo.
12.5 L’intreccio di queste politiche devono vedere la confederazione
assumerle in accordo con le categorie compreso lo SPI, trovando risposte di
rappresentanza e di reinsediamento confederale nel territorio.
12.6 L’insieme del ruolo della contrattazione confederale territoriale
e ruolo della contrattazione nei posti di lavoro, deve consentire all’insieme
del sindacato di elevare la sua capacità di rappresentanza e di riunificazione
degli interessi di uomini e donne, siano essi lavoratori, cittadini, studenti,
pensionati, immigrati ragazzi e ragazze che costituiscono il nuovo contesto
del mondo del lavoro e della società in cui viviamo.
13. Le nostre proposte sulle politiche della contrattazione e il ruolo negoziale
del sindacato dovranno continuare a misurarsi con Cisl e Uil al fine di costruire
obiettivi comuni e progetti unitari in grado di sostenere e difendere le esigenze
ed i bisogni delle lavoratrici, dei lavoratori, delle pensionate e dei pensionati
del nostro paese.
9^
TESI
LA PARTECIPAZIONE QUALE ASSE STRATEGICO PER RIPROGETTARE IL PAESE E I VALORI
DELLA CONFEDERALITA’, DELL’AUTONOMIA, DELL’UNITA’
1.
La società italiana ha bisogno di più partecipazione. Occorre,
perciò, invertire il trend di questi ultimi anni contrassegnato da
una progressiva e costante riduzione degli spazi di partecipazione, conseguenza,
anche, dell’avanzare di quell’idea di democrazia plebiscitaria
che ha connotato la politica del centro-destra. Una prova decisiva di questa
tendenza è rappresentata dall’allontanamento, sempre più
marcato, dalla vita politica e sociale di soggetti che ne erano stati protagonisti,
come le donne. Ma il problema c’è stato e c’è anche
per il mondo del lavoro. Allargare, quindi, gli spazi di partecipazione per
rendere più forte la democrazia.
1.1 Occorre riattualizzare tutti quei canali che hanno consentito anni addietro
una grande e proficua stagione di partecipazione democratica, a livello istituzionale,
politico e sociale. Bisogna intanto colmare il deficit di democrazia e rappresentanza
determinato dall’assenza delle donne, ai vari livelli politici, sociali
ed istituzionali del paese. E’ necessario invertire una tendenza, nient’affatto
intrinseca alle riforme istituzionali ed elettorali decise per il sistema
delle regioni e delle autonomie locali. L’elezione diretta dei Sindaci,
dei Presidenti di regioni e province non determina, infatti, in sé
una caduta di partecipazione. In tutti i casi occorre battersi contro ogni
insorgere di problemi di questa natura – ridando in particolare ruolo
e funzione alle Assemblee elettive - e sviluppare iniziative che consentano
ad ogni cittadino ed a ogni cittadina di concorrere da protagonista ai processi
decisionali. Allo stesso modo occorre riaprire canali di partecipazione effettiva
dell’utenza nei grandi sistemi pubblici – sanità, scuola
e politiche sociali, innanzitutto – attraverso le loro associazioni
di rappresentanza. Così come il terzo settore – per il quale
si conferma la necessità, prevista anche nella recente intesa Cgil-Cisl-Uil
e Forum del terzo settore, di garantire ai lavoratori che vi operano diritti
e piena applicazione dei contratti di lavoro - innanzitutto nella sua componente
di volontariato, deve effettivamente rappresentare esso stesso uno strumento
della partecipazione democratica, in particolare alla progettazione della
politica sociale. Ma non vi può essere partecipazione diffusa se non
si realizzano condizioni che ne favoriscano lo sviluppo anche nei partiti.
C’è bisogno che i nuovi partiti, nati nell’ultimo quindicennio
e che hanno cambiato radicalmente la fisionomia delle vecchie forme di rappresentanza,
siano luoghi di rappresentanza dei cittadini e delle cittadine e di promozione
di idee, culture e valori, a partire dalla riaffermazione di una nuova centralità
del lavoro.
1.2 Più partecipazione deve significare anche più contrattazione
e quindi più sindacato. C’è bisogno di consolidarla, estenderla
e qualificarla. C’e bisogno, in sostanza, anche in questo caso di invertire
una tendenza di questi ultimi anni, in particolare relativamente agli orientamenti
del governo centrale e di quelli regionali e del sistema delle autonomie che
lo hanno imitato. Occorre, perciò, più contrattazione territoriale
e sociale in grado non solo di meglio tutelare e difendere le condizioni di
vita e di reddito delle lavoratrici e dei lavoratori, delle pensionate e dei
pensionati, ma anche di incidere sugli assetti economici, sociali, ambientali
e di potere di un territorio. E’ in questo modo che si completa il già
citato quadro di partecipazione e di protagonismo nell’assetto dei grandi
sistemi pubblici. Allo stesso modo c’è bisogno anche di relazioni
sindacali strutturate – entro le quali ricondurre anche la legge 146/90
e i suoi interventi correttivi allo stretto ambito dei servizi essenziali
e superando la logica dell’iter regolamentazione - ed improntate ad
una effettiva volontà di considerare il sindacato un elemento essenziale
ed imprescindibile della dialettica impresa-lavoro.
1.3 Nei luoghi di lavoro la democrazia e la partecipazione rappresentano l’asse
strategico per definire nuovi assetti di potere. Se l’imperativo oggi
è la valorizzazione del lavoro; se rimane di prima grandezza l’obiettivo
di accrescere il potere dei lavoratori nei luoghi della produzione e negli
uffici; se libertà e uguaglianza passano anche dalla conquista del
diritto alla formazione permanente e alla piena accessibilità dei lavoratori
nei processi formativi acquisitivi di nuovi saperi; se la disarticolazione
del mercato del lavoro ci consegna una battaglia per nuovi diritti e tutele,
è vitale, innanzitutto, affermare il valore della democrazia e allargarne
progressivamente gli spazi. Allo stesso modo occorre operare su tre fronti
assolutamente distinti: estendere la contrattazione ben oltre i confini finora
definiti; completare l’elezione dei Rappresentanti dei lavoratori per
la sicurezza e di quelli territoriali e generalizzare le Rappresentanze sindacali
unitarie e renderne più forte e qualificato l’esercizio del potere
contrattuale e la rappresentanza, anche attraverso l’acquisizione delle
necessarie competenze sociali per intercettare la condizione di disagio sempre
più diffusa fra i lavoratori; conquistare nuove forme di partecipazione
che definiscano una effettiva democrazia industriale, in grado di affermare
diritti certi ed esigibili, innanzitutto, di informazione sulle strategie
di impresa.
1.4 Nel sindacato occorre definire per via endosindacale le forme della partecipazione
democratica degli iscritti e dell’insieme delle lavoratrici e dei lavoratori,
delle pensionate e dei pensionati alle scelte che compie. Questo accordo endosindacale
è urgente poiché non è più rinviabile la definizione
di un quadro di regole certe ed esigibili che consentano la periodicità
triennale del voto per l’elezione delle Rsu e ai lavoratori di decidere
sulla validazione certificata delle piattaforme e degli accordi – anche
attraverso lo strumento referendario - definendo così una condizione
di base uniforme per l’insieme delle categorie e per le Confederazioni.
La Cgil conferma quindi il suo impegno a ricercare – nella commissione
costituita proprio a questo scopo – l’accordo unitario e a che
intervenga - proprio per le ragioni che attengono al rapporto tra democrazia
sindacale e democrazia del paese e per l’esistenza di un pluralismo
sindacale che travalica i confini di Cgil, Cisl e Uil - una specifica legislazione
che può essere di recepimento dell’accordo stesso. E’ altresì
necessario riflettere sulle forme di validazione democratica delle piattaforme
rivendicative e delle intese in tema di contrattazione sociale sul territorio.
2. Più partecipazione e più politica per il sindacato significa
necessariamente anche più confederalità. La profondità
della crisi e le grandi trasformazioni degli assetti produttivi nel mercato
del lavoro, in generale nell’economia e nella società, rimandano,
infatti, a un nuovo grande problema di riunificazione del mondo del lavoro.
Si riproducono, cioè, condizioni che la Cgil ha già affrontato
nel passato, ponendosi, anche allora, esattamente lo stesso obiettivo –
l’unificazione del mondo del lavoro - che ci prefiggiamo oggi. Rappresentare
e difendere gli interessi delle lavoratrici e dei lavoratori, delle pensionate
e dei pensionati, nelle condizioni attuali, significa perciò innanzitutto
darsi strategie, obiettivi e pratiche rivendicative che ricompongano un quadro
di unità di ciò che il neo-liberismo intende frantumare. E ciò
è possibile solo rendendo ancor più forte l’idea di confederalità
che rappresenta la caratteristica principale della storia e della cultura
del sindacalismo italiano.
2.1 Un’idea alta di confederalità si invera dentro una progettualità
che ne definisca con precisione l’identità e la proposta politica.
La scelta di caratterizzarci come sindacato di programma definito al XII Congresso
mantiene inalterata la sua attualità; anzi, dalla crisi del paese ne
trae ancor più forza. E, allo stesso modo, la centralità dei
diritti decisa dall’ultimo Congresso, rappresenta l’orizzonte
valoriale entro il quale praticare oggi politiche per l’unificazione
del mondo del lavoro.
2.2 Tale progettualità rappresenta, altresì, condizione per
l’autonomia del sindacato. Le ragioni dell’autonomia affondano
certamente nella storia della Cgil e non solo; così come la sua difesa,
nelle varie fasi storiche, ha poggiato su diverse motivazioni; è stata
garantita dall’impegno personale delle compagne e dei compagni che ne
hanno portato la responsabilità, ma oggi, accanto a tutto ciò,
prevale certamente l’aspetto della progettualità intesa come
idea generale di società e proposta politica concreta per realizzarla.
In questo senso va assunta come vincolo essenziale. E questo, soprattutto,
in presenza dell’evolversi del sistema politico italiano. Il formarsi
di schieramenti politico-programmatici fra loro alternativi, rende, infatti,
ancor più indispensabile la definizione di un progetto sindacale col
quale interloquire - pena l’essere esposti, in particolare agli occhi
di chi rappresentiamo, a rischi oggettivi di subalternità – per
verificarne la vicinanza o la distanza dai programmi degli schieramenti. Nessuna
indifferenza, di conseguenza, ma autonomia piena. Naturalmente la definizione
di un tale progetto non riguarda solo la Cgil. Anzi, in questo senso, la ricerca
unitaria di convergenze su obiettivi programmatici rappresenta un punto essenziale
per difendere con più efficacia l’identità del sindacalismo
italiano di soggetto sociale, di natura confederale, pienamente autonomo.
2.3 La stessa unità sindacale non può prescindere dalla costruzione
di un progetto comune. Lo stesso insopprimibile pluralismo esistente fra le
Confederazioni – e che poggia su ragioni eminentemente sindacali, relative,
tra l’altro, a come storicamente ciascuna ha inteso l’esercizio
della funzione sindacale – se non si misura con questa ricerca comune,
anziché rappresentare – come effettivamente rappresenta - una
ricchezza, rischia di costituire un ostacolo insormontabile. Per questo avanziamo
a Cisl e Uil la proposta di lavorare assieme alla definizione di una Carta
programmatica dei valori del sindacato confederale. Valori che, nel caso dell’assoluto
rispetto del pluralismo e della gelosa difesa dell’autonomia, sono comuni
da tempo, anche se declinati in modo diverso all’interno di ogni Organizzazione.
La Carta programmatica pare a noi un modo serio – che non rimuove problemi,
difficoltà, rotture di questi anni, per la cui soluzione o ricomposizione
non vi è alternativa se non nella ricerca convinta di una necessaria,
limpida e democratica pratica di mediazione - per non rassegnarsi a un’idea
di divisione.
10^
TESI
UNA CGIL DEMOCRATICA E RAPPRESENTATIVA
1.
La Cgil in questi anni è cresciuta. E’ cresciuta numericamente;
si è rafforzato il suo legame con le lavoratrici e i lavoratori e le
pensionate e i pensionati; si è esteso il suo peso politico. Milioni
di persone guardano ad essa con fiducia. Il XV Congresso, forte di questi
risultati, può con serenità e coraggio avviare una riflessione
seria su alcuni problemi e limiti che sono di fronte a noi – a partire
dallo sviluppo del proselitismo fra le lavoratrici e i lavoratori e le pensionate
e i pensionati - e una prima ricerca di soluzioni che i futuri organismi dirigenti
dovranno portare a compimento. L’Assemblea nazionale di organizzazione,
da tenersi entro il prossimo biennio, rappresenterà la sede per affrontare
compiutamente l’insieme delle problematiche di politica organizzativa.
1.1 La riflessione congressuale deve innanzitutto misurarsi col permanere
di difficoltà a che l’Organizzazione possa compiutamente definirsi
di donne e di uomini. Grandi passi avanti sono stati compiuti, prima con la
politica delle quote e poi con la definizione della norma antidiscriminatoria.
Ciò ha certamente consentito l’ingresso delle donne negli organismi
dirigenti ai vari livelli, ma non la loro adeguata presenza negli esecutivi
e, ancor meno, l’assunzione di responsabilità generali.
Sono questi un limite e una contraddizione, assolutamente da superare, su
quel cammino che valorizza la differenza come l’architrave della nostra
rappresentanza e democrazia.
1.2 La disarticolazione del mondo del lavoro, i giganteschi processi di precarizzazione,
la frammentazione dell’assetto produttivo in piccole e piccolissime
aziende, l’enorme numero di disoccupati e di espulsi dal processo produttivo,
la presenza massiccia di migranti, pongono alla Cgil il tema della rappresentanza
di queste lavoratrici e lavoratori. La nostra struttura organizzativa è,
infatti, ancora sostanzialmente quella costruita negli anni del fordismo e
del taylorismo, scarsamente perciò incline a ridefinirsi in forme e
modalità in grado di intercettare il nuovo che emerge dalla reale composizione
del mondo del lavoro e degli assetti produttivi. In questo senso, pur confermando
l’articolazione secondo le matrici storiche – orizzontale e verticale
– nelle quali è strutturata la Confederazione, occorre, innanzitutto,
rideclinarle verso una più forte matrice a rete e realizzare un riposizionamento
strategico e funzionale in grado di corrispondere ai processi di sviluppo
ulteriore della rappresentatività della Cgil. Questa forma organizzativa
avrà bisogno di essere precisata e sperimentata, definendone innanzitutto
i confini e le relazioni che i singoli nodi della stessa debbono essere in
grado di generare, con l’obiettivo di rendere maggiormente flessibili
ed adattabili le maglie di un modello organizzativo, seppur all’interno
della riaffermazione della sua organica unitarietà. Aggregazioni di
strutture preesistenti e accorpamenti tra categorie - che comunque vanno decisi,
in ragione dello sviluppo delle filiere produttive, tecnologiche, dell’affinità
merceologica, dell’indispensabile riduzione del numero dei contratti
– rappresenteranno un’ulteriore elemento di adeguamento ed innovazione
del modello organizzativo.
1.3 Ma accanto a ciò occorre anche affermare davvero una nuova centralità
del territorio. Tutti i grandi processi di trasformazione in atto ci indicano
proprio a quel livello il massimo delle trasformazioni economiche, sociali,
produttive e il conseguente nuovo bisogno di sindacato. Più sindacato
e più contrattazione, perciò. Nel primo caso inteso come un
più radicato insediamento sociale; nel secondo come capacità
di incidere negli assetti economici, infrastrutturali, produttivi, del mercato
del lavoro, nonché in quelli riferiti alle politiche sociali. Ciò
comporta, di conseguenza, più confederalità, innanzitutto intesa
come un quadro definito e condiviso, ai vari livelli, di strategie e di politiche
entro il quale ogni struttura eserciti le proprie prerogative. Ma significa
anche poter contare su una Cgil fortemente decentrata e reinsediata nel territorio,
con le sue categorie e i suoi servizi, capace di intercettare e rappresentare
nella loro complessità i bisogni là dove essi prendono forma
e visibilità. Serve, dunque, una organizzazione che si decentri e si
doti di strutture, di risorse e capacità fortemente e capillarmente
insediate nel territorio.
1.4 Ma più confederalità anche come capacità di ricercare,
in una nuova logica di flessibilità organizzativa, le forme e i modi
di una più efficace rappresentanza del mondo del lavoro. E’ il
caso di milioni di lavoratrici e di lavoratori che sono oggi in Italia migranti.
Anche il versante della loro rappresentanza nella Cgil deve accompagnare –
ancor meglio precedere – la definizione di politiche di accoglienza
e di cittadinanza. Grandi passi avanti sono stati compiuti e più forte
è oggi il nostro insediamento tra di loro. La battaglia per la regolarizzazione
e gli stessi servizi che abbiamo attivato hanno facilitato questo processo.
Rimane, però, il problema di una assoluta marginalità della
presenza di compagne e compagni migranti in ruoli di direzione della Confederazione.
Questo produce uno scarto evidentissimo di rappresentanza che, alla lunga,
può vanificare il lavoro fin qui svolto, proprio perché esiste
un rapporto diretto fra rappresentanza reale e qualità e forza delle
politiche di una Organizzazione. La stessa qualità della nostra contrattazione
sulla molteplicità delle problematiche dei migranti, può rischiare
perciò di rinsecchirsi. Rendere credibile questo proponimento significa
assumere in modo vincolante un processo in grado, in tempi certi, di qualificare
proporzionalmente la presenza degli immigrati negli organismi dirigenti.
1.5 Anche la partecipazione delle giovani generazioni alla vita e alla direzione
della Cgil è assolutamente inadeguata. Questa parte del mondo del lavoro
è quella che più subisce gli effetti negativi delle trasformazioni
perpetrate dalle politiche neo-liberiste. E proprio le giovani e i giovani
hanno, perciò, maggior bisogno di rappresentanza. Peraltro, sono portatrici
di valori e di convincimenti politico-sociali nuovi e a volte diversi da quelli
storicamente affermati in Cgil. E nessuna operazione “illuministica”
compiuta dalle generazioni precedenti può sostituire una loro effettiva
rappresentanza. Occorre, pertanto, ricercare soluzioni che evitino il riprodursi
per la seconda volta di un salto generazionale che produrrebbe ancor più
rilevanti conseguenze negative.
1.6 Pur se sancito in modo vincolante dallo Statuto confederale, il riequilibrio
della rappresentanza di genere ha avuto un andamento incerto e non lineare
nella composizione dei gruppi dirigenti delle diverse strutture orizzontali
e verticali della Cgil. Si sono determinate preoccupanti battute d’arresto
che vanno definitivamente corrette in occasione del congresso. L’Italia
è ancora oggi tra le ultime nazioni nella graduatoria stilata dalle
Nazioni Unite sulla parità tra i sessi: siamo indietro quanto a presenza
delle donne nei luoghi della rappresentanza istituzionale e politica. Le condizioni
materiali di vita delle donne stanno regredendo, importanti conquiste sono
state messe in discussione da una produzione legislativa che non rispetta
le donne, il loro ruolo nella società, le loro aspirazioni. La Cgil
deve portare avanti con convinzione una politica per promuovere la presenza
delle donne in tutti i luoghi decisionali. E deve farlo a partire dalla composizione
dei suoi gruppi dirigenti a tutti i livelli.
1.7 La democrazia nella Cgil si fonda su molteplici pluralismi – a partire
dal valore della differenza di genere, da quelli programmatici a quelli di
struttura legati alla rappresentanza di interessi - e su un sistema di regole
che ne garantiscono la piena legittimità e agibilità. Con la
riforma dello Statuto operata dal XIII Congresso e la successiva definizione
di regole per la nostra vita interna, la Cgil ha completato la transizione
aperta dal superamento delle componenti di partito, realizzando una nuova
e diversa fase di democrazia interna.
1.8 Si tratta ora di ragionare su uno sviluppo di questa fase in grado di
ulteriormente rafforzare la nostra democrazia interna e di meglio rispondere
innanzitutto ai problemi di rappresentanza, di partecipazione e di unità
della Confederazione. Tre appaiono le problematiche - fra loro anche sufficientemente
intrecciate – da analizzare e sulle quali aprire una proficua discussione
nel Congresso: le modalità di selezione dei gruppi dirigenti; la funzione
di garante del pluralismo affidata alla figura del Segretario generale; la
distribuzione solidale delle risorse. Per quanto concerne la modalità
di selezione dei gruppi dirigenti occorre innanzitutto trovare soluzioni certe
ed esigibili – a partire dall’obbligatoria applicazione della
norma antidiscriminatoria, anche nella composizione delle segreterie - in
grado di rispondere ai problemi di rappresentatività qui sollevati.
La norma antidiscriminatoria va quindi applicata e costituisce criterio di
valida costituzione degli organismi esecutivi. Si tratta, poi anche, di rendere
davvero centrale il ruolo degli organismi dirigenti nella selezione dei gruppi
dirigenti. L’esperienza di questi anni ci consegna, infatti, uno squilibrio
fra lo strumento della consultazione individuale e la sovranità dei
Comitati direttivi. Essi sono stati spesso relegati sostanzialmente a luoghi
di ratifica formale, col voto segreto, di decisioni che non li hanno visti
davvero protagonisti. In sostanza, devono costituire luoghi di discussione
collegiale ed esplicita sulle candidature, sulle ragioni per le quali venivano
avanzate, sulla loro adeguatezza e rappresentatività, anche relativamente
ai nostri pluralismi. E questa rappresenta un limite politico che, alla lunga,
può condizionare la stessa costruzione e salvaguardia della nostra
unità. Per quanto riguarda la figura del Segretario generale essa ha
svolto una funzione primaria nella garanzia dell’unità e del
pluralismo delle strutture. Questo però, combinato ai problemi riscontrati
nelle modalità di selezione dei gruppi dirigenti, ha sovresposto la
figura del Segretario generale nell’esercizio del diritto di proposta
per la composizione della segreteria. Si corre il serio rischio che venga
ridimensionata oggettivamente la piena funzione di rappresentanza degli esecutivi,
col rischio di relegarli a pure funzioni di staff. Infine, occorre affrontare
il tema dello squilibrio nell’utilizzo delle risorse. Questo, oltre
a determinare una consistente diversità nell’esercizio effettivo
delle funzioni sindacali - con evidenti problemi di insufficienza di alcune
strutture rispetto alle necessità che sarebbero loro proprie –
rischia di alterare anche i rapporti di autonomia ed eguaglianza tra le strutture
e di influire oggettivamente anche sulla democrazia dell’Organizzazione.