La contrattazione di secondo livello: i premi di risultato.
La saturazione dei mercati ha reso il vecchio cottimo superato e antieconomico. Nasce il premio di risultato: le conseguenze per i lavoratori e per il sindacato. Di Duilio Felletti. Febbraio 2001.


Come abbiamo già spiegato in precedenti articoli, la contrattazione sindacale avviene in Italia articolandosi su due livelli, così come è stato concordato tra sindacati, Confindustria e Governo in un protocollo del luglio '93.
Sulla base di quell'accordo i lavoratori nell'ambito del primo livello vanno al rinnovo contrattuale nazionale e pongono in discussione i livelli salariali minimi a cui tutti i lavoratori della categoria hanno diritto, aggiornandoli sulla base della dinamica dell'inflazione, mentre, nell'ambito del secondo livello, azienda per azienda vanno a contrattare ulteriori aumenti salariali sulla base dell'andamento dei risultati dell'azienda stessa.
Al livello di contrattazione aziendale (o di secondo livello) nei fatti accedono però solo quei lavoratori che hanno alle spalle una consolidata tradizione di lotte sindacali, quei lavoratori cioè che hanno un sufficiente livello di unità tale da garantire rapporti di forza a loro favorevoli per condurre a termine con risultati positivi la trattativa.
I lavoratori che per vari motivi non hanno questi presupposti devono purtroppo accontentarsi degli aumenti di salario derivanti dalla contrattazione di primo livello, e di avere quindi, come abbiamo già argomentato, una dinamica salariale più lenta rispetto l'inflazione, e quindi un salario che progressivamente perde potere d'acquisto.
Secondo stime sindacali meno della metà dei lavoratori riescono ad ottenere accordi di secondo livello, di conseguenza la massa di denaro che viene da un accrescimento della produttività non si trasferisce sui salari e finisce quindi con l'andare a ingrassare i profitti padronali.
Questo articolo ha lo scopo di capire la logica che sta dietro i premi di risultato, o premi per obbiettivi, che sono i meccanismi inventati per consentire ai lavoratori che riescono ad accedere alla contrattazione di secondo livello i famosi e tanto declamati "aumenti salariali legati all'aumento della produttività aziendale".
Prima di questa brillante invenzione la parte salariale variabile era regolata dal cottimo che consentiva a questa di crescere o di diminuire ogni mese in diretta corrispondenza coi livelli produttivi raggiunti.
Questo meccanismo, che ormai nelle grandi aziende è in via di estinzione (appunto perché sostituito progressivamente dal premio di risultato), faceva sì che dopo un certo quantitativo (che si andava a definire) di merci prodotte nella giornata (o nella settimana, o nel mese, a seconda del tipo di produzione) il prodotto in più determinava un aumento corrispondente di salario.
L'aumento salariale era indipendente dal fatto che le merci venissero poi vendute, era sufficiente che queste venissero realizzate.
Il cottimo ha funzionato per tutto il periodo di espansione economica degli anni 50 ­ 70 e, seppure in misura inferiore, negli anni 80; questo perché in quell'epoca i padroni non avevano la preoccupazione di non riuscire a piazzare sui mercati le merci in quanto questi erano in espansione e c'era spazio quindi per qualsiasi tipo e quantità di merci, la concorrenza tra capitalisti era più ridotta e di conseguenza il rischio di sovrapproduzione appariva remoto.
I salari base dei lavoratori venivano tenuti volutamente bassi al fine di incentivarne la crescita con lo strumento del cottimo; da parte loro i lavoratori mostravano grande assiduità nel lavoro a cottimo perché vedevano in questo la possibilità (o l'illusione) di risolvere immediatamente e concretamente i problemi derivati dalla magra busta paga.
Nascevano le gare tra lavoratori, e i dirigenti enfatizzavano i records produttivi al fine di attizzare ulteriormente lo spirito concorrenziale individuale.
Il cottimo inoltre non era legato alla realizzazione del prodotto finale, per cui poteva accadere che se in una ditta che produceva fanali per auto un lavoratore doveva produrre, ad esempio, lampadine, il suo salario cresceva in corrispondenza del numero di pezzi prodotti, anche se la produzione degli altri componenti che vanno a costituire il fanale non procedeva di pari passo, e quindi il prodotto finale non poteva essere venduto.
Questo fatto alla lunga si era tradotto in una forma di diseconomia del sistema produttivo.
Quando poi, appunto, a partire dagli anni 80 (ma già dalla seconda metà degli anni 70) i mercati hanno cominciato a dare segnali di saturazione, e di conseguenza la concorrenza per conquistarne gli spazi sempre più ristretti si è fatta più aspra, i capitalisti si sono trovati nella necessità di dover programmare in modo più puntuale l'attività produttiva sulla base di obbiettivi (legati alle fluttuazioni del mercato), ponendo fine in questo modo al metodo della produzione intensiva di merci che rischiavano molto seriamente di restare invendute.
A questa situazione delicatissima i padroni hanno risposto inizialmente cercando di ridurre i costi di produzione (leggi: il costo del lavoro) dando maggior spinta alla produttività. Ma poiché tutti i padroni hanno cercato di andare in questa direzione le conseguenze che ne sono derivate si sono tradotte in un ulteriore aumento delle quantità di merci sul mercato e un aumento delle paghe alimentate dal cottimo.
A fronte allora a magazzini sempre più pieni di merci invendute diventò inevitabile fare la scelta di ridurre drasticamente la produzione, e parallelamente, anche il numero degli addetti.
A questo proposito va detto che sono state tantissime le aziende che, non avendo tempestivamente capito che la scelta da fare era quest'ultima, hanno dovuto chiudere per eccesso di merce rimasta invenduta; la stessa Fiat dovette a inizio degli anni '80 ridurre drasticamente la produzione con relativa massiccia espulsione di operai dalle fabbriche, a partire proprio dalle avanguardie politiche e sindacali che avrebbero potuto organizzare in fabbrica la resistenza ai licenziamenti.
In questo nuovo quadro che si andava a configurare il peso del cottimo calava vistosamente e i lavoratori dovettero fare i conti con la dura realtà della leggerezza della busta paga che si andava riducendo ulteriormente anche a causa dell'abolizione della scala mobile che, seppur parzialmente, adeguava il potere d'acquisto dei salari.
Una volta riassestato l'apparato produttivo sulla base delle nuove esigenze di un mercato sempre più saturo di merci e di una competitività che si inaspriva, tra la fine dell' 80 inizio 90 nell'ambito delle trattative in sede aziendale i padroni hanno dovuto cominciare a parlare del salario collegato ai risultati: si trattava in pratica di un premio da elargire a quella parte di lavoratori che intervenivano direttamente sulla produzione (i cosiddetti "diretti"), per fare in modo che, grazie a questo incentivo, i livelli di efficienza restassero alti, e anche per contenerne le spinte sul salario che da questi, coscienti della propria forza, venivano in maniera molto prepotente.
I padroni hanno agito con gradualità e molta intelligenza non sostituendo inizialmente questo premio al cottimo (che andava comunque progressivamente estinguendosi) ma aggiungendolo, una volta raggiunto un certo obbiettivo produttivo, e argomentava che in ogni modo il risultato da raggiungere era assolutamente normale e che, non comportando sforzi ulteriori per i lavoratori, era stupido rinunciare a soldi che i padroni (bontà loro) erano intenzionati ad elargire praticamente gratis.
I sindacati in un primo momento hanno cercato di rifiutare questo tipo di meccanismo vedendo in ciò il rischio molto forte della divisione dei lavoratori (e avevano ragione), ma in un secondo momento hanno dovuto arrendersi anche in ragione delle pressioni che venivano dai lavoratori stessi, anche a causa di divisioni interne ai sindacati stessi che nel frattempo si erano prodotte.
Dagli organi di informazione si sprecavano le disquisizioni e i ragionamenti sulla modernità di questo istituto che aveva il pregio di vedere coinvolti i lavoratori e le loro rappresentanze nella gestione dei risultati delle aziende, e che negli altri stati europei era una realtà già presente da anni, e che non si capiva il perché i sindacati italiani cocciutamente si rifiutavano di andare verso il progresso, e così discorrendo.
Ma se le cose stavano in questo modo, e se tutto era così bello e giusto e "di sinistra" dov'era il trucco? Perché i lavoratori non si sono arricchiti?
Il fatto è che una volta stabilito il risultato a cui si doveva giungere alla fine anno, la logica del premio per obbiettivi prevede che il risultato deve essere pienamente perseguito, altrimenti il bonus salariale è zero.
In pratica accadeva che se il risultato si raggiungeva al 90% si andava a percepire un premio ridotto ma se si arrivava all'80% non si prendeva niente.
C'era il contentino consistente nel fatto che se si superava il 100% si andava a percepire una quota aggiuntiva al premio pattuito.
Le conseguenze sul piano dell'efficienza si sono viste immediatamente, ma soprattutto si è assistito alla nascita di una nuova cultura tra le masse lavoratrici, che nel frattempo si sono modificate nella loro composizione grazie al massiccio inserimento di molti giovani che alle spalle non avevano una cultura di lotta.
I lavoratori hanno dovuto necessariamente cominciare a ragionare in termini di risultato del gruppo e non più individuale, per cui accadeva che se un collega del gruppo si assentava ad esempio per malattia gli altri erano costretti a moltiplicare i propri sforzi per garantire il risultato comunque, salvo poi riprendere al rientro il compagno furbacchione e assenteista.
Il non raggiungimento dell'obbiettivo veniva visto come una conseguenza del mancato impegno del compagno che veniva additato come la causa della perdita salariale.
Inoltre l'incentivo a non scioperare era potentissimo e cercare di essere presenti sul lavoro nonostante qualche linea di febbre era diventato normale.
Gli impianti dovevano essere sempre funzionanti, per cui accadeva che venivano fatti marciare anche quando sarebbe stato necessario fermarli per interventi manutentivi. Le manutenzioni dovevano essere fatte solo nei periodi prestabiliti per non interrompere i cicli, con conseguenze anche molto gravi sul piano della sicurezza sul lavoro.
Ben presto i sindacati si sono accorti che in qualche modo la situazione doveva essere recuperata e, non potendo togliere il premio a chi già lo prendeva, hanno cercato in una prima fase di agire sull'estensione dei premi di risultato per tutti i lavoratori (anche per quelli "indiretti") nel tentativo di svuotarli di contenuto, ma gli accordi che nelle varie aziende si fecero prevedevano comunque due tipi di premi differenziati, rendendo in questo modo ancora più stridente la divisione tra lavoratori: i diretti si ritenevano depositari del privilegio di un premio maggiorato rispetto agli indiretti e agli impiegati.
A questo punto la ragione avrebbe dovuto consigliare i sindacati di porre fine all'esperienza dei premi di risultato rifiutando qualsiasi trattativa su questo terreno.
Invece si è scelta la concertazione, secondo cui le politiche del lavoro dovevano essere interne alla politica più generale dei redditi, e risultato di un accordo tra sindacati, governo e padroni; i sindacati nel '93 hanno fatto la scelta di accettare che una fetta di salario venisse collegato ai risultati aziendali a patto che si definissero con precisione a livello centrale i criteri con cui i premi di risultato dovevano essere elargiti. In questo accordo si dice anche che i padroni sono tenuti a prevedere una voce salariale legata al raggiungimento dei risultati anche in assenza di un accordo con le RSU.
I risultati, recita l'accordo del luglio '93, dovranno riguardare "la realizzazione di programmi, concordati tra le parti, aventi come obbiettivo incrementi di produttività, di qualità ed altri elementi di competitività di cui le imprese dispongano."
Poi prosegue dicendo che "le parti prendono atto che, in ragione della funzione specifica ed innovativa degli istituti della contrattazione aziendale (leggi il premio di risultato) e dei vantaggi che da essi possono derivare all'intero sistema produttivo attraverso il miglioramento dell'efficienza aziendale e dei risultati di gestione, ne saranno definiti le caratteristiche ed il regime contributivo-previdenziale mediante un apposito provvedimento legislativo promosso dal Governo." Che in pratica, tradotto in italiano, significa che i premi di risultato e i salari legati alla produttività sono così importanti per la competitività del sistema nel suo insieme che anche il Governo sente di dover intervenire facendo sconti ai padroni sul piano dei contributi che devono versare per le pensioni dei lavoratori.
Con questo capolavoro di prostrazione agli interessi padronali e alle compatibilità del mercato i sindacati hanno teso a mettere ordine nella contrattazione di secondo livello.
Ma ora dopo sette anni dalla firma di questo accordo possiamo tranquillamente affermare che la situazione dal punto di vista dei rapporti sindacali sui posti di lavoro è pesantemente peggiorata.
Infatti per la mancanza di qualsiasi riferimento (se non la produttività e la competitività), si sono realizzati nelle aziende premi che sono differenziati non solo tra diretti e indiretti, ma anche all'interno degli stessi diretti e indiretti a seconda di dove si trovano collocati nella scala gerarchica; si sono differenziati a seconda dei livelli professionali e sono stati proporzionati ai giorni di effettiva presenza sul posto di lavoro (ovviamente escluse le assenze per permessi sindacali).
Accade così che se dei lavoratori si ammalano o si infortunano nell'attività lavorativa per raggiungere il risultato perderà comunque una quota di premio proporzionale ai giorni di assenza.
Solo nelle aziende a più alta tradizione sindacale (che sono sempre meno) è stato possibile slegare i premi dalla presenza ma quasi dovunque è stato praticamente impossibile garantire questo premio a tutti a causa di tutta una serie di leggi e leggine che consentono ai padroni di elargire ai nuovi assunti e ai precari (interinali e altro) un salario "di ingresso" cioè più basso.
Insomma: un vero disastro! O come dicono i lavoratori: un bel casino!
Tutto ciò non è servito però ai dirigenti sindacali a invertire la rotta, e non si trova traccia di questa possibile inversione neanche nelle tesi della sinistra sindacale della CGIL: evidentemente questo argomento è veramente tabù.
La via da percorrere per recuperare unità tra i lavoratori non consente scorciatoie, la via è quella di aumenti generalizzati ai salari dei lavoratori da ottenersi nei contratti di categoria, e perseguire per via legislativa che il premio di risultato deve essere una quota di salario da elargire in parti eguali tra tutti i lavoratori dell'azienda secondo il principio che ognuno per quanto riguarda le proprie competenze ha contribuito al raggiungimento dell'obbiettivo.
Ma forse è tutto troppo complicato.
Sarebbe bello sapere cosa ne pensano i lavoratori.