Occupazioni e salari.
La
necessità per i padroni di dover assumere nuovi lavoratori diventa
un'occasione per rimettere in discussione salari, flessibilità e politiche
contrattuali. REDS. Marzo 2001.
Grazie
alle politiche concertative dei primi anni 90, i governi, i sindacati ed i
padroni hanno messo in moto un meccanismo chiamato politica dei redditi che
ha consentito al sistema produttivo di crescere in modo deciso. Sta
accadendo che la crescita del sistema produttivo italiano (relativamente a
quelle aree di cui abbiamo già detto, e che sono essenzialmente al
nord-est) pur essendosi spinta molto in avanti non è ancora in grado
di occupare tutti gli spazi di mercato nuovi che le si sono aperti.
I bassi salari che non dovevano crescere, se non per recuperare la perdita
di potere d'acquisto derivato dall'inflazione, le nuove flessibilità
e precarizzazioni dei rapporti di lavoro, l'introduzione di salari differenziati
a seconda delle aree geografiche di produzione (il tutto condito con contributi
e sgravi fiscali fatti ai padroni), sono state una miscela di elementi che
hanno determinato un poderoso rilancio dell'economia nazionale (anche se non
in modo uniforme) ed un recupero di competitività sui mercati internazionali.
Le conseguenze per i lavoratori sono state devastanti, da qualsiasi punto
di vista le si vogliano esaminare; stiamo viaggiando al ritmo di quattro morti
al giorno sui posti di lavoro, l'espulsione di lavoratori dalla grande industria
non accenna a fermarsi, ed il potere d'acquisto dei salari non riesce nemmeno
a restare agganciato alla crescita dell'inflazione reale che continua a salire
ben al di là dei dati forniti dall'ISTAT. Crescono il lavoro sommerso
e gli straordinari, sia quelli regolari che quelli in nero, e il clima nelle
fabbriche e negli uffici è caratterizzato da una caduta progressiva
della qualità della vita, con capi e dirigenti sempre più consapevoli
dei rapporti di forza a loro favorevoli, e determinati come non mai nel portare
avanti la loro azione per far sì che i lavoratori vengano adeguatamente
spremuti.
Il livello medio d'impoverimento dei lavoratori si è notevolmente alzato
anche grazie all'azione di una politica fiscale che continua a basarsi sul
prelievo dal reddito da lavoro dipendente, al quale con una mano dà,
ma con l'altra toglie (più di quanto non abbia dato).
L'impossibilità quindi di poter contare su una crescita dei consumi
interni ha fatto sì che il rilancio dell'economia si sia basato soprattutto
sulle esportazioni, favorite anche da una lira debole.
L'equilibrio molto delicato che si è instaurato, e cha ha consentito
ai profitti di schizzare in alto, è costituito da una combinazione
tra: bassi salari, precarizzazione del rapporto di lavoro, alta produttività,
e conseguente alta competitività dei prezzi delle merci sui mercati
internazionali.
Ma questo periodo di vacche grasse per i padroni sembra si stia esaurendo
se prestiamo orecchio alle notizie che in questi ultimi mesi diffonde la televisione
e leggiamo sui giornali, secondo cui in talune aree geografiche (soprattutto
quelle in cui la crescita economica è stata più forte) non si
trova mano d'opera per far fronte alle nuove esigenze produttive; il meccanismo
sembrerebbe che rischi di incepparsi se al più presto non si dovesse
trovare mano d'opera disponibile.
Si spreca la retorica sui giovani che pensano solo a restare attaccati alla
sottana della mamma e che non accettano un lavoro se questo non è situato
sotto casa. Ci siamo scoperti un popolo di diplomati e di laureati che mal
gradiscono mansioni umili come quella di addetto alle linee di montaggio,
di saldatore o di idraulico e di operaio generico. Abbiamo scoperto un Governo
improvvisamente sensibile al problema della casa, e disponibile ad elargire
a piene mani incentivi ai giovani per favorirli e invogliarli a tagliare il
cordone ombelicale per andare da padroni tanto buoni, che li stanno aspettando
a braccia aperte
Come mai? Che cosa è accaduto? E se c'è bisogno di personale
perché non si va ad assumerlo attingendo all'ufficio di collocamento?
E perché si continua a dire che servono immigrati?
Nello sviluppare il ragionamento non ci riferiremo al caso della ex Ansaldo
di Legnano, di cui tanto si è parlato dopo che il nuovo padrone Castiglioni
ha lamentato la mancanza di 1500 organici, visto che la strumentalità
di questa boutade (ben denunciata da un comunicato dello SLAI COBAS) è
fin troppo evidente visto come è stata risolta la vicenda di questa
fabbrica: con massicci passaggi in mobilità e/o cassa integrazione
di un numero notevolmente superiore ai 1500 lavoratori; la soluzione più
ovvia ed immediata sarebbe quella di richiamare al lavoro gli operai che ne
sono stati espulsi. Ma, come recita il comunicato dello SLAI COBAS "il
progetto di questo nuovo insediamento industriale comprende la manovra di
disfarsi gradualmente di loro (ndr: i lavoratori in cassa integrazione): appartenenti
a quella vecchia classe operaia (non solo per età ma anche per cultura
collettiva) che i nuovi padroni vogliono velocemente sostituire con giovani
vergini e da educare a una nuova e più moderna filosofia. La loro."
Non tenendo quindi in considerazione questo caso non ci resta che ragionare
su cosa sta accadendo veramente.
Questo perché l'aumento della produttività è già
al massimo e i lavoratori non possono essere ulteriormente spremuti: i ritmi
sono a livelli vicini all'intollerabilità e il ricorso allo straordinario
ha raggiunto il limite; quello che serve a questo punto ai padroni per immettere
ulteriori volumi di merci sul mercato è nuova mano d'opera che consenta
agli impianti di marciare per tempi più prolungati.
Non hanno alternative, nemmeno quella di alzare i prezzi delle merci (cosa
che potrebbero fare visto che la domanda è superiore all'offerta) che
finirebbe per dare impulso all'inflazione e determinare una caduta di competitività.
La strada da seguire è proprio quella di aumentare il numero dei lavoratori.
Ma è qui che viene fuori il vero problema che impedisce a questi maledetti
lavoratori di entrare in fabbrica: il loro costo, e in particolare il loro
salario.
Non che i padroni non vogliano pagare i lavoratori, i soldi li hanno, visto
che negli ultimi 8/9 anni ne hanno accumulati a livelli di record. Il problema
che hanno lorsignori è che temono che alzando il salario per convincere
i lavoratori riluttanti a entrare nelle loro fabbriche, si vada a innescare
una spinta generalizzata alle richieste salariali, magari sostenute con scioperi
o cose di questo genere.
No! I nuovi lavoratori devono entrare in fabbrica ma le loro condizioni non
possono essere tali da rovinare quell'equilibrio fatto di bassi salari e alta
produttività così faticosamente conquistato con la concertazione
dai padroni e che ha permesso loro di curare in modo così efficace
i propri interessi.
Da qui i continui richiami della Confindustria affinché il governo
e il parlamento mettano in atto le necessarie riforme del mercato del lavoro,
dello stato sociale, e del sistema contrattuale finalizzate a far sì
che i nuovi lavoratori possano entrare nel meccanismo della produzione senza
che i padroni debbano sostenere nuovi costi.
Ma l'argomento su cui in questa fase si stanno spendendo è senza dubbio
quello del salario, anche perché provocati da prese di posizione sindacali
e anche dallo stesso ministro del lavoro che più o meno hanno detto:
"se volete che i lavoratori vengano da voi aprite il portafogli e date
loro un salario adeguato."
In risposta a questa provocazione i padroni hanno sguinzagliato i loro economisti
pennivendoli che prontamente dalle colonne dei loro giornali ci mettono in
guardia e argomentano sul rischio che deriva da un aumento dell'occupazione
e dei salari in una fase di congiuntura favorevole.
(Aprendo una parentesi ci sarebbe molto da dire sulle lacrime che i padroni
hanno per anni versato sull'impossibilità di essere competitivi se
i lavoratori avessero continuato a chiedere aumenti salariali e tenuta dei
livelli occupazionali, e molto da riflettere sul loro livello di coerenza,
ma tant'è
..)
Un aumento degli occupati secondo costoro potrebbe produrre una caduta della
produttività come tendenza naturale dovuta al fatto che se in un posto
di lavoro si inseriscono nuovi organici nasce la tendenza da parte dei lavoratori
a ridurre i ritmi mettendo in discussione la competitività della struttura.
Di conseguenza i padroni ritengono di dover rivendicare una forma di risarcimento
da parte del governo per la "perdita" che inevitabilmente subiranno,
secondo il ragionamento che aumentando il numero degli occupati, il fisco
incasserebbe più soldi sotto forma di imposte pagate dai lavoratori
che per l'appunto dovrebbero ritornare al capitale sotto forma di sgravio
fiscale.
Questo consentirebbe al sistema di non squilibrarsi in favore del lavoro e
di mantenere quindi intatta quella struttura che ha consentito di acquisire
competitività.
Lo squilibrio a favore del lavoro comporterebbe una ridistribuzione del reddito
secondo criteri di equità ma a detrimento della struttura che ha prodotto
il rilancio e il rischio di un ritorno alla situazione di partenza.
Sono tuttavia tutti concordi, a quanto leggiamo, che i salari non debbano
essere (bontà loro) eccessivamente bassi per non deprimere i consumi
interni, per cui fatte tutte queste considerazioni giungono alla loro proposta
su cui chiedono si vada a un patto tra governo e parti sociali.
Il punto attorno a cui dovrebbe articolarsi un nuovo patto sociale è
il concetto secondo cui il lavoro dovrebbe comportarsi come una qualsiasi
merce che dovrebbe essere pagata di più quando vale tanto e pagata
di meno quando vale poco; e ovviamente la forza lavoro vale tanto quando rende
tanto e vale poco quando rende poco.
Insomma, il salario legato alla produttività dell'azienda dovrebbe
essere la soluzione.
Secondo questi "economisti" (tutti personaggi indipendenti come
Tito Boeri e Luca Paolazzi tanto per fare dei nomi) legando il salario alla
produttività dell'azienda si incentiverebbe il lavoratore a non abbassare
la guardia e a mantenere alta l'assiduità nel raggiungimento degli
obbiettivi produttivi. Viceversa, in presenza di un calo di produttività
dovrebbe essere pacifico il diritto del padrone di abbassare il salario.
Secondo i padroni e i loro consiglieri questo consentirebbe anche nelle aziende
a più bassa efficienza di raggiungere rapidamente i livelli delle altre
più avanzate.
Il ruolo del Governo dovrebbe essere esterno a queste faccende, e dovrebbe
limitarsi a sorvegliare che il tutto funzioni senza inghippi sul piano legale,
e operare affinché la mano d'opera possa fluire in uscita e in entrata
nelle aziende su tutto il territorio nazionale, mettendo in atto anche una
politica di accoglienza degli immigrati (leggi: mano d'opera a basso costo)
vogliosi di lavorare.
A questo punto anche lo stato sociale dovrebbe avere un peso coerente con
la ricchezza prodotta, e quindi differenziarsi a seconda delle aree geografiche
(loro intendono queste cose quando parlano di federalismo): dove la ricchezza
prodotta è più elevata i lavoratori avranno diritto a scuole
migliori, ospedali e pensioni adeguati; e invece dove la ricchezza è
inferiore il livello dei servizi deve essere inevitabilmente più basso.
I padroni stanno quindi passando in nuova fase della loro strategia tesa a
consolidare una situazione a loro favorevole che possiamo così sintetizzare:
mentre prima attaccavano frontalmente il salario e proponevano a chiare lettere
le gabbie salariali (salari più bassi al sud) oggi propongono salari
legati alla produttività e i salari aziendali.
Mentre prima attaccavano lo stato sociale mangiarisorse fisso e mastodontico,
ora propongono uno stato sociale proporzionato alla ricchezza prodotta e flessibile
nella sua composizione economica.
Le politiche contrattuali dovrebbero essere intese esclusivamente sul piano
aziendale o al massimo di ristrette aree territoriali, per cui i contratti
nazionali e le concertazioni e le politiche dei redditi diventano dei ferri
vecchi da buttare alle ortiche.
E giù fiumi di parole sulla fine della concertazione e sul suo ruolo
ormai esaurito visto che l'economia che doveva essere rilanciata con il consenso
dei sindacati che accettavano per i lavoratori bassi salari in cambio del
mantenimento di un livello dignitoso di stato sociale e di diritti, ora che
l'economia ha ripreso a marciare questo capitolo si dovrebbe finalmente chiudere.
Hanno veramente pensato a tutto, e dal loro punto di vista il ragionamento
non fa una piega.
Quello che sconcerta in questo quadro che abbiamo sinteticamente descritto
è l'assoluta assenza di prese di posizione forti da parte dei sindacati
che invece si ostinano a difendere la politica dei redditi e il metodo della
concertazione che sta producendo per i lavoratori fatti paradossali come la
piattaforma dei metalmeccanici che nel referendum fatto nella categoria ai
primi di febbraio ha avuto un sostegno da parte del 78% dei votanti, ma che
ha coinvolto solo un terzo dei lavoratori.
Questa politica non sta pagando e già nei primi due incontri che FIM
FIOM UILM hanno avuto con la controparte i sindacati hanno dovuto registrare
grosse difficoltà a sostenere questa piattaforma (su cui abbiamo già
scritto in altri articoli) che viene attaccata dalla Federmeccanica non tanto
sulle quantità, ma sul metodo che è stato utilizzato per determinarle.
I padroni stanno infatti contestando il metodo del calcolo degli aumenti salariali
legato all'inflazione portando argomenti pretestuosi sulla reale consistenza
dell'inflazione stessa. Il loro obbiettivo è chiaramente quello di
rimettere in discussione una politica contrattuale per imporne un'altra che
abbia i contenuti sopra descritti.
I padroni in questo modo hanno dato inizio pratico al seppellimento di questo
tipo di concertazione; il sindacato invece, in nome di una unità di
apparato che nulla ha a che vedere con gli interessi dei lavoratori e che
quindi non serve ai lavoratori, prosegue su una strada che assomiglia sempre
di più ad un vicolo cieco.