Abolita la gratuità delle cause di lavoro.
A ridosso della fine della legislatura il governo ha lanciato un segnale preciso alla Confindustria, mostrandosi ancora una volta attento alle esigenze di flessibilità e competitività del sistema economico. Di Duilio Felletti. Giugno 2001.


Alla fine di marzo, il parlamento ha approvato un provvedimento molto importante, vale a dire la riforma del gratuito patrocinio. Ma nelle pieghe della legge, ha trovato modo di infilarsi una terribile sciocchezza. Il merito di averla scoperta in tempo è dell'Associazione giuristi democratici di Torino, che ha già cominciato a lanciare l'allarme.
Che cosa è successo? Che abrogando qui abrogando là, i parlamentari hanno eliminato una norma di troppo, cancellando la gratuità del processo di lavoro.
Bisogna spiegarsi meglio.
La Camera doveva votare una proposta di legge di Giuliano Pisapia, deputato indipendente del Prc, per il patrocinio a spese dello Stato di cittadini non abbienti (entro i 18 milioni di reddito lordi) nel processo penale, nel diritto di famiglia, e minorile. E, insieme, una proposta dei Ds, prima firma Veltroni, per estendere il "gratuito patrocinio" a tutti i procedimenti civili, e a quelli amministrativi.
E' successo che l'ultimo articolo, il 23, contenente le leggi incompatibili o superate dalla nuova norma, abbia compreso anche l'abrogazione della gratuità del processo di lavoro.

Intentare una causa civile, come è noto, è piuttosto costoso.
Per ovviare a un potenziale disincentivo dal chiedere giustizia in tema di lavoro, il legislatore aveva da sempre creato una sorta di oasi protetta: ci riferiamo all'10 della legge 533/73 che prevedeva che nelle cause di lavoro le spese legali equivalessero a zero lire: niente bolli, niente diritti o quant'altro, insomma.
Ebbene, l'articolo 23 ha cancellato questa norma. Da metà 2002 fare causa al proprio datore di lavoro avrà quindi costi più elevati.
E quanto costerà allora ai dipendenti fare una causa ai propri datori di lavoro?
Se per esempio il lavoratore vorrà portare in tribunale l'azienda che lo ha licenziato, in base alle nuove regole dovrà anticipare 600mila lire di contributo sostitutivo del bollo, 250mila lire per la registrazione della sentenza, almeno 100mila lire per copie, bolli e spese di notifica.
Queste 950mila lire costituiscono la base certa a cui vanno poi aggiunte le altre spese non quantificabili a priori e che possono arrivare anche fino a qualche milione.
Tutto ciò vale anche per le cause previdenziali.
Naturalmente resta la possibilità per i non abbienti (quelli sotto i 18 milioni di cui sopra) di ricorrere al patrocinio gratuito, ma dovranno comunque sborsare come minimo le 600.000 lire.

Le reazioni a posteriori di esponenti di Governo si sono limitate a definire questo provvedimento un infortunio.
In particolare il sottosegretario alla Giustizia Marianna Li Calzi ha tentato un penoso abbozzo di giustificazione che non fa altro che rendere ancora più grave tutta la vicenda: " è stata unita la proposta originaria di Forza Italia con un disegno di legge del Governo. Non escludo che nel fare il collage sia nato qualche pasticcio". Il relatore dell'allora disegno di legge Michele Saponara (Fi), indirettamente conferma:" pur di approvarlo l'abbiamo fatto un po' alla buona..".
Dai banchi del parlamento viene solo un grande silenzio rotto solamente da Rifondazione che, da ultimo, senza distinguersi troppo dalla linea espressa dalle mezze figure governative, ammette pubblicamente "l'errore in cui si è incorsi", e in una dichiarazione comune dei capigruppo di camera e senato, Franco Giordano e Giovanni Russo Spena, ripetono l'impegno, già dichiarato, di lavorare alla cancellazione di questa norma, se rieletti, come primo atto nella nuova legislatura.
"Non appena, anche su segnalazione dell'Associazione giuristi democratici, e di molti avvocati del lavoro, sono emerse le gravi conseguenze di quell'abrogazione ­ ha affermato Pisapia prima delle elezioni - ci siamo impegnati, tra candidati del Prc, facendo un appello anche a tutti i candidati del centrosinistra, per presentare, appena iniziata la nuova legislatura, una proposta di legge e sostenerla fino all'approvazione per ripristinare la gratuità del processo di lavoro". Il tempo c'è: l'abrogazione dell' art.23 scatterebbe nel 2002 in quanto la legge avrà efficacia dal luglio del 2002, il che, volendo, lascia sufficienti margini per predisporre i correttivi del caso.

Dall'Ulivo, silenzio.
Critici anche Cgil, Cisl e Uil, per i quali quella legge "crea un'incresciosa situazione di confusione normativa sulla gratuità dei processi" e " condividono la seria preoccupazione dei lavoratori e degli operatori della giustizia per le modifiche introdotte con la legge 29 marzo 2001, n. 134 ", e ancora: " le suddette modifiche ..privano i lavoratori della normativa che consente loro, da altre mezzo secolo, di adire le vie giudiziarie senza essere gravati di tasse e imposte specifiche.con il grave effetto di disincentivare la tutela dei loro diritti".
Alla formazione di questo assurdo provvedimento ­ si legge in una nota dei tre sindacati ­ hanno sicuramente concorso fattori di varia natura, tra i quali la confusione tra gratuità del patrocinio per i non abbienti ed esenzione fiscale delle controversie di lavoro.
Poi a seguire scopriamo che, bontà loro, Cgil, Cisl e Uil " chiedono al Parlamento e al Governo (ma quale Governo? Ndr) un intervento chiarificatore che ripristini le condizioni di esenzione fiscale per tutti gli atti e le procedure giudiziarie ed extragiudiziarie in materia di lavoro e previdenza.".
Il ritornello è quindi lo stesso:"scusate non ce ne eravamo accorti, faremo di tutto per rimediare,. e così piangendo".

Noi però che siamo maliziosi non riusciamo a slegare questa "svista" da altre sviste che hanno accompagnato la vita del governo di centro-sinistra negli ultimi 15 mesi.
Ci riferiamo ad esempio ai contenuti dell'ultima finanziaria che riduce di 10 volte le sanzioni a carico dei padroni che ritardano i pagamenti dei contributi dei propri dipendenti sancendo in questo modo il diritto per lorsignori di non rispettare le scadenze.
Come pure si sono ridotte le sanzioni per i padroni che violassero alcune norme sul collocamento; non dichiarare ad esempio quale contratto verrà applicato al dipendente non costituirà reato.
Il regalo di 900 miliardi per quei padroni che al sud fanno lavorare in nero i dipendenti, che con il trucco dei contratti di riallineamento, che dureranno 5 anni, potranno avere sgravi fiscali e contributivi.
Un altro cadeau è venuto ancora da parte del governo (altri 1500 miliardi l'anno)sotto forma di un'ulteriore fiscalizzazione degli oneri sociali.
Ma anche prima della finanziaria non sono mancati gli interventi del governo in soccorso alle giuste esigenze padronali. Ad esempio nel 1998 con l'introduzione dell'Irap sono stati eliminati i contributi sanitari con conseguente drastica riduzione del costo del lavoro del 10%. Nel 1999 con l'eliminazione di alcuni oneri sociali (0.1% asili nido, 0.16% Enaoli, 0.21% tubercolosi, 0.35% Gescal) i padroni hanno potuto godere di ulteriori 1500 miliardi annui di riduzione del costo del lavoro.
Poi è stata la volta dell'indennità di maternità, della decontribuzione del salario variabile dei contratti aziendali e territoriali, dei vergognosi regali sull'Inail (lultimo da 700 miliardi l'anno) fino all'esenzione totale del pagamento dei contributi non solo per i padroni in nero del sud e delle aree depresse del centro-nord, ma sempre più indistintamente per tutti i padroni d'Italia.
Davvero un bel quadretto di provvedimenti che hanno ridotto drasticamente e sensibilmente il costo del lavoro portandolo ai livelli più bassi dell'UE.
Sono troppi quindi i tasselli a senso unico del mosaico per non pensare a un disegno preciso di trasferimento di risorse dalle mani di alcuni (i lavoratori)alle mani di altri (la borghesia e i padroni).
Allora viene da chiedersi, ritornando alla questione dell'articolo 23: è stato veramente un errore o si tratta di una scelta politica precisa?
Questo dubbio è stato sollevato con forza anche dal Comitato napoletano degli avvocati del lavoro che è giunto fino ad acquistare uno spazio sulle pagine di un quotidiano nazionale per pubblicare un appello mirato a "far comprendere che attorno a questa norma ruotano i temi della democrazia e del diritto, troppo spesso merce di scambio tra governo, sindacati e forze politica".
La nota del comitato, di cui fanno parte anche esponenti del PRC, prosegue lanciando la parola d'ordine dell'abrogazione immediata dell'articolo 23 mettendo in dubbio che si sia trattata di una svista, quanto invece " parte di un progetto che mira scientemente a ridurre i diritti dei lavoratori, ovvero.il frutto di un bieco calcolo contabile per la copertura finanziaria della legge mediante la tassazione delle cause di lavoro e previdenza.".
E se si tratta davvero di un infortunio (aggiungiamo noi), non è sconcertante e demoralizzante il fatto che l'80% dei parlamentari che hanno approvato quella norma non si sia accorto di nulla?
Viene spontaneo al contrario pensare che si voglia andare ad una maggiore flessibilizzazione del rapporto di lavoro, ai limiti della legalità.
Visto il fallimento dell'operazione Radicali-Confindustria sull'articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, si sta cercando di aggirare l'ostacolo facendo in modo che i padroni che intendano usare il pugno duro non abbiano poi eccessive noie da parte dei lavoratori poco arrendevoli; ecco quindi la funzione dell'articolo 23, tesa unicamente a scoraggiare ogni tentativo di rivalsa rispetto l'ingiustizia subita, nel quadro di una situazione che sul piano giuridico è radicalmente cambiata.
Infatti le modifiche della legge, nella loro formulazione letterale, potrebbero ricondurre l'intero contenzioso del lavoro, previdenziale e i provvedimenti conciliativi nell'ambito dell'oneroso processo civile, privando i lavoratori della normativa che consente loro, da oltre mezzo secolo, di adire le vie giudiziarie senza essere gravati di tasse e imposte specifiche aggiuntive a quelle già versate attraverso l'imposizione generale.
Così se un lavoratore andrà da un avvocato, questi sarà costretto a chiedergli il pagamento delle spese vive. Una valanga di ricorsi legali sarà resa impossibile portando molti alla rinuncia.

Questo ci sembra descriva la situazione nuova che si è venuta a delineare in un contesto in cui le organizzazioni padronali, con la Confindustria in testa, dettano al governo che si va a costituire attorno alla coalizione di centro-destra le linee da tenere per ridare competitività al sistema economico italiano. Il nuovo governo viene senza mezzi termini invitato a fare scelte anche impopolari facendo pure conto sull'appoggio dei poteri forti della finanza e dell'economia, per cui la lotta che si prospetta sarà sicuramente molto dura, con i rapporti di forza che si configurano sfavorevoli ai lavoratori (anche in virtù dell'articolo 23).
Solo Cofferati che deve gestire uno scontro interno alla sua confederazione molto duro, si è esposto promettendo lo scontro, mentre Pezzotta e Angeletti si sono prostrati dando una valutazione interlocutoria sia sulle prese di posizione della Confindustria sia sui propositi del costituendo governo Berlusconi.
Noi pensiamo che a partire dalla lotta per l'abrogazione dell'articolo 23 (che va sostenuta con la costituzione di comitati territoriali e di fabbrica) sia necessario definire contenuti precisi su cui iniziare una stagione di mobilitazione senza i quali si rischia la dispersione delle potenzialità che nel movimento operaio esistono da sempre, o peggio ancora che queste vengano incanalate in battaglie condotte dalle burocrazie con finalità quindi assolutamente slegate dalle reali esigenze dei lavoratori.
La Sinistra sindacale nella Cgil in particolare ha questo formidabile compito, anche in vista del dibattito congressuale che coinvolgerà milioni di lavoratori in tutti i posti di lavoro: definire contenuti chiari e credibili su cui investire le proprie energie e misurare i risultati concreti e la coerenza e l'autonomia dei gruppi dirigenti.