Difendiamo l'art.18.
La
guerra santa all'art. 18 dichiarata dal governo e dalla confindustria necessita
di una risposta forte e generale dei lavoratori. Questa è una battaglia
che deve essere vinta coi metodi dei rapporti di forza. Di Duilio Felletti.
Dicembre 2001.
Il
clima politico che ha permesso che sull'abrogazione dell'art. 18 dello "Statuto
dei lavoratori" si riaprisse anche solo una discussione, riportandoci
indietro di trent'anni, è il risultato tangibile di dieci anni di concertazione,
di che cosa abbia significato l'accettazione della logica confindustriale
da parte delle burocrazie sindacali. Ma
come si è evoluta nel tempo la legislazione contro i licenziamenti
ingiusti? Nel
1942 (60 anni fa) il codice civile contemplava la piena libertà di
licenziamento "ad nutum": cioè con un semplice cenno. Con
solo il limite dell'obbligo di preavviso oppure della corresponsione di un'indennità
sostitutiva (art. 2118 cc.). Nel
1966, con la legge n. 604 viene introdotto il principio di necessaria giustificazione
del licenziamento (art. 1), richiedendosi a tal fine che il licenziamento
sia, comunque, sorretto da una "giusta causa" (art. 2119 cc.) ovvero
da un "giustificato motivo" (art. 3). In sua mancanza il padrone
è obbligato a riassumere il lavoratore o, i alternativa, a versagli
una indennità risarcitoria. A tale obbligo erano esclusi i datori di
lavoro che occupassero sino a 35 dipendenti (art. 11). La
legge 20 maggio 1970, n. 300 (lo Statuto dei lavoratori), con l'art. 18, ha
introdotto, per i casi di accertata inefficacia, nullità o mancanza
di giustificazione del licenziamento, il regime di tutela reale dei posto
di lavoro, limitandone l'applicazione alle imprese che occupano più
di 15 dipendenti, con l'obbligo di reintegrazione del lavoratore nel posto
di lavoro. Per i licenziamenti discriminatori, quale che sia il numero dei
dipendenti occupati, vale la tutela reale prevista dall'art. 18. Nel
1990 con la legge n. 108 per le imprese sino a 15 dipendenti, si fissa per
i licenziamenti senza giusta causa una indennità compresa tra 2,5 e
6 mensilità, elevabile a 10 mensilità per i lavoratori con almeno
10 anni di anzianità, e a 14 mensilità per i lavoratori con
almeno 20 anni di anzianità. Alla
fine di questo percorso in una nota la Corte Costituzionale ha ricordato che
"le disposizioni legislative che prevedono l'effettiva reintegrazione,
segnano un indirizzo di progressiva garanzia del diritto al lavoro previsto
dagli artt. 4 e 35 della Costituzione". In pratica ha stabilito che una
legislazione che va in direzione della reintegrazione del lavoratore ingiustamente
licenziato è a pieno titolo nello spirito della Costituzione. La
libertà di licenziamento ha trovato negli ultimi 5 anni diversi teorici
pennivendoli che hanno avuto il compito di spiegare come tutto sommato una
maggior "flessibilità in uscita" (si chiama così il
licenziamento) avrebbe creato una maggiore disponibilità di posti di
lavoro e di conseguenza una più elevata occupazione. Nel
febbraio 1997 è Debenedetti, senatore diessino della corrente liberal,
che propone un disegno di legge che elimina del tutto il diritto alla reintegrazione
e prevede solo una indennità in caso di licenziamento illegittimo proporzionata
all'anzianità del lavoratore. E' previsto un preavviso che va da un
minimo di 6 ad un massimo di 12 mesi in imprese con più di 15 dipendenti,
da 3 a 6 mesi negli altri casi. Nel
marzo 1998 tocca al giurista Gino Giugni (personaggio molto ascoltato negli
ambienti sindacali) proporre una franchigia di due anni per le aziende che
iniziano l'attività con possibilità di licenziare al di la della
giusta causa o del giustificato motivo. Una specie di premio ai padroni che
decidono di iniziare un'attività produttiva, come se i profitti non
siano già un premio abbastanza gratificante. A
novembre 1999 Aris Arconero (un individuo molto ascoltato negli ambienti confindustriali)
nel libro "L'ultimo tabù" afferma che "Il diritto al
reintegro e l'obbligo alla riassunzione sono praticamente ineffettivi. Quasi
sempre gli imprenditori se la cavano con la pecunia. Quindi bisogna ripensare
la regolazione dei licenziamenti senza illudersi che basti spostare dei paletti
convenzionali che semmai sarebbe meglio eliminare del tutto". Sempre
a novembre 1999 (si vede che è un mese che ispira) è stata anche
la volta della proposta di Larizza (UIL) che per "aiutare" le piccole
imprese a crescere, ha trovato geniale consentire a quelle che oltrepassano
la soglia dei 15 dipendenti di non applicare lo Statuto dei Lavoratori per
3 anni. A condizione che si tratti di imprese del Sud e che l'applicazione
di questa regola venga contrattata con il sindacato. La proposta viene poi
rilanciata da Angeletti. Nel
marzo del 2000 i Riformisti dell'Ulivo (la destra del centro-sinistra) in
una loro proposta di legge cominciano a pensare all'introduzione dell'arbitrato.
In pratica si prevedono agevolazioni fiscali per chi ricorre al giudizio di
un collegio di arbitri ed una maggiorazione nell'indennità di buon'uscita
se l'illegittimità del licenziamento viene accertata in sede arbitrale.
Il Giudice o l'arbitro, accertata la non sussistenza di giusta causa, hanno
come alternativa l'indennizzo monetario piuttosto che la riassunzione o il
reintegro. Come si può ben vedere un marchingegno molto raffinato. Sempre
a marzo dello stesso anno, per non apparire l'ultima della classe, tocca ad
AN a mettere in campo la sua proposta di legge. In pratica si dice che l'obbligo
di riassunzione dei dipendenti licenziati senza giusta causa deve valere solo
per le imprese che hanno più di 50 addetti. A quelle con meno di 50
dipendenti viene data facoltà di licenziamento anche a prescindere
dalla giusta causa, assicurando semplicemente un preavviso di 6 mesi. In
agosto 2001, mentre ci godevamo le ferie ci ha pensato Antonio Marzano (Min.
attività produttive) a tenerci su il morale: in risposta alle sollecitazioni
di Fazio (Banca d'Italia), ha ipotizzato l'introduzione della libertà
di licenziamento per i neo assunti in cambio di una assunzione a tempo indeterminato
anziché a tempo determinato. Alla
fine però è Maroni che tira le somme nel suo "libro bianco"
(ma questa è storia recente). Senza mai parlare dell'articolo 18 (che
non si può abrogare perché c'è un referendum che lo impedisce),
disquisisce sull'attuale "ordinamento giuridico da modernizzare",
e senza parlare di licenziamenti, tratta di "regime estintivo del rapporto
di lavoro indeterminato". Porta
due ridicoli argomenti di sostegno: -
"Il Governo ritiene che l'attuale ordinamento giuridico del lavoro si
limiti a realizzare la protezione del lavoratore in quanto titolare di una
posizione lavorativa, garantendo agli insiders (occupati) una posizione di
privilegio a scapito degli outsiders (in cerca di lavoro), sostanzialmente
abbandonati a se stessi". -
"Occorre un solido intervento sulla giustizia del lavoro. I tempi di
celebrazione dei processi sottolineano il grave stato in cui versa la giustizia
del lavoro in Italia. Un efficiente mercato del lavoro necessita di tempi
di risoluzione delle controversie sufficientemente rapidi. Ed
ecco alla fine la soluzione: l'arbitrato. "Il
Governo considera assai interessante la proposta, da più parti avanzata
(sindacalisti, parlamentari, economisti, giuristi), di sperimentare interventi
di collegi arbitrali". Secondo
il Nostro le controversie di lavoro potrebbero essere amministrate con maggiore
"equità ed efficienza" per mezzo di collegi arbitrali. Questi
arbitri avrebbero la possibilità di decidere per la reintegrazione
o per il risarcimento. Con
l'arbitrato si vuole aprire una strada alternativa al ricorso legale e con
ciò si afferma implicitamente che i posti di lavoro sono materia che
può benissimo non percorrere le normali strade della giustizia. Il
tutto come si può vedere è chiaramente finalizzato a rendere
difficile battere questa linea antioperaia del Governo per via "dialogata". Quando,
dopo anni di lotte, nel 1970 sono state varate le "Norme sulla tutela
della libertà e dignità dei lavoratori" (cioè lo
Statuto dei Lavoratori) si era detto che finalmente un po' di Costituzione
era entrata nei posti di lavoro. Adesso la si vuole di nuovo buttar fuori. Questa
nostra "progredita" società "occidentale" programma
svergognatamente il ritorno al feudalesimo e alla schiavitù al di là
delle mura delle fabbriche e dei luoghi di lavoro. Dice
il falso chi sostiene che i padroni non possono licenziare. Ormai, grazie
alle politiche dei governi di centro-sinistra hanno infinite possibilità
di assumere lavoratori "precari" solo per il tempo che interessa
loro. E, con la scusa di "gravi problemi produttivi", possono disfarsi
tranquillamente di migliaia di lavoratori. Come stanno facendo. Quando perciò
dicono che assumerebbero più volentieri se fosse loro concesso di licenziare,
svelano che il loro obiettivo è poter tenere ogni singolo lavoratore
sotto la costante minaccia del licenziamento individuale senza doverlo motivare. Questo
attacco mette in serie difficoltà, se non addirittura rende impossibile
ogni possibilità di organizzarsi nei luoghi di lavoro: chi oserà
più esporsi per primo sapendo che appena lo fa viene spazzato via?
Ogni lavoratrice, ogni lavoratore sa che, anche se ha ragione, il suo padrone
si può pagare il diritto di sbatterlo fuori. Mentre proclamano tutti
la scomparsa dei lavoratori come classe si stanno dannando l'anima per impedire
ad ogni costo che ne possa riemergere "la coscienza" collettiva
e organizzata. L'arma
del licenziamento senza giustificazione assegna ai padroni uno strapotere
enorme. Mentre siamo tutti sfidati a trovare le strade organizzative per dare
qualche orizzonte di difesa al mondo indifeso del precariato, qui si vuol
proporre di estendere questa vandea padronale a tutto il mondo del lavoro.
Per sempre. Il significato culturale che esso contiene minaccia tutti e avvelena
l'aria anche ben fuori dalla fabbrica: passa il messaggio che anche la dignità
umana si può comprare. Ogni padrone può permettersi, con i soldi,
di determinare il destino di una donna, di un uomo, a sua "discrezione". Questa
sfida rappresenta una svolta epocale per ogni futura possibilità di
lotta. Essa contiene un grande obiettivo, non corporativo, di difesa generale
di tutti i lavoratori: di oggi e di domani, uomini e donne, giovani e anziani,
precari e fissi, pubblici e privati, operai e impiegati.
Con le infinite forme di assunzioni precarie che sono state loro concesse,
i padroni hanno ormai nelle mani tutti gli strumenti per poter disporre dei
lavoratori che vogliono e tenersi alla fine solo quelli che avranno imparato,
oltre che a lavorare, anche a "sottomettersi".
Ma questo a lorsignori non basta: ora sentono che è giunto il momento
di prendersi tutto.
Non solo i lavoratori delle aziende sotto i 15 dipendenti e quelli assunti
in contratto di formazione lavoro, a tempo determinato, in affitto, con contratti
di collaborazione continuativa (che sono ormai la maggioranza) ma anche tutti
gli altri devono avere la consapevolezza che, se l'azione congiunta di Governo
e Confindustria andrà a buon fine, dovranno rassegnarsi per anni a
subire qualsiasi abuso perché se solo oseranno obiettare qualcosa a
proposito di diritti e sicurezza per loro, il rischio di perdere il posto
di lavoro diventerà estremamente concreto.
Ogni lavoratore deve sapere che dovunque egli si trovi a operare, in qualsiasi
momento della sua vita lavorativa e non solo agli inizi sempre più
precari, egli è e sarà in balia del volere padronale, che può
disfarsi di lui quando e come vuole.
Invece che estendere la tutela ai secondi si allarga l'"abbandono"
a tutti. Ogni insider deve sapere che può diventare improvvisamente
outsider.
Nei processi di lavoro, le cause per licenziamenti individuali senza giusta
causa rappresentano un'infima parte e le lungaggini possono essere superate
con un incremento dei giudici del lavoro".
Ma al di la di tutte le chiacchiere ciò che appare evidente anche al
più sprovveduto dei lavoratori è che l'arbitrato è l'inganno
con cui vogliono aggirare l'art. 18 e ottenere la libertà di licenziare.
Qui si inventa e si impone una "giustizia privata" e concertata.
Il buon Maroni, che a parole dichiara di essere contrario all'abrogazione
dell'art. 18 ma è disponibile a discutere di arbitrato, nasconde questo
inganno.
Infatti:
La funzione arbitrale è per natura una funzione mediatoria e come tale
serve a trovare soluzioni di compromesso e comunque più morbide (per
i padroni) di quelle di una sentenza del Tribunale. Ricorrere quindi all'arbitrato
pregiudica già in partenza la possibilità di rivendicare per
intero i propri diritti.
Ai tempi del governo dell'Ulivo si cincischiava sulla differenza tra arbitrato
"rituale" (qualsiasi decisione deve essere vincolata al rispetto
delle leggi e dei contratti) e "irrituale" (la decisione è
lasciata totalmente nelle mani del giudice arbitro che dovrebbe decidere "secondo
equità").
Maroni fa piazza pulita e vuole arbitri che possano decidere solo in base
al loro buon senso, giudicando magari equo un licenziamento che non rispetta
né leggi né contratti.
Questa mossa del ministro è molto intelligente perché è
volta a costringe i vertici sindacali su questo terreno di battaglia: cioè
sul tipo di potere del giudice arbitro, cosicché una volta partito
lo strumento dell'arbitrato, nulla potrà impedire lo scivolamento verso
la sostituzione del diritto al reintegro con la sanzione risarcitoria in caso
di licenziamento senza giusta causa.
L'altro alibi per nascondere la pericolosità dell'arbitrato è
quello di dichiarare che non è obbligatorio. Ma tutti sappiamo che
infinite sono le manovre che stanno inventando per rendere praticamente obbligatorio
il ricorso all'arbitrato, pur continuando a dichiararlo formalmente "facoltativo".
È in fondo la stessa strada che stanno praticando sulle pensioni integrative:
le dichiarano volontarie ma poi hanno talmente massacrato quelle pubbliche
che chi oggi comincia a lavorare non ne può fare a meno.
Con l'arbitrato si vuole scoraggiare i lavoratori dal ricorrere in Tribunale,
infatti:
parecchi giudici stanno imponendo la pratica di condannare il lavoratore alle
spese di giudizio in caso di sconfitta legale. Accade così che il lavoratore
che si trova a dover difendere un suo diritto deve sapere che se ricorre in
tribunale e dovesse perdere può essere condannato a pagare pesanti
costi. Così sarà "ragionevolmente" convinto a scegliere
la strada meno costosa dell'arbitrato.
una volta lanciato l'arbitrato, il lavoratore che deciderà comunque
di preferire il ricorso al tribunale sa benissimo che si porterà davanti
al giudice il marchio pesante di aver rifiutato il ricorso all'arbitrato.
stanno già girando proposte per defiscalizzare oppure decontribuire
i soldi che uno dovesse ricevere in sede di arbitrato ma non in sede legale.
Qualcuno (Treu, quello del "pacchetto)) propone che in caso di licenziamento
illegittimo, se il lavoratore sceglie l'arbitrato, in alternativa alla reintegrazione
si possa arrivare a concedere fino a ben 14 mensilità di risarcimento.
Ciò che bisogna fare è rompere gli indugi e mettere in campo
tutta la nostra forza, in ambiti di lotta generale di tutti i lavoratori.