Pensioni: siamo arrivati al dunque.
La riforma imposta dal governo, sostenuta dalla Confindustria, osteggiata dai sindacati deve essere respinta mettendo in campo tutta la forza dei lavoratori e di chiunque altro crede nella possibilità di costruire un altro mondo. REDS. Gennaio 2002.


Pochi giorni prima di Natale il governo ha varato la delega sulle pensioni e quella sul fisco che si aggiungono così a quella sul mercato del lavoro e alla sospensione sperimentale dell'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori.
Le continue sollecitazioni provenienti dagli ambienti confindustriali ad affondare il colpo sulla questione delle pensioni hanno dato coraggio al Governo che, timoroso della reazione delle piazze, su questa materia aveva sempre tentennato.
L'approvazione di queste riforme tese ad allineare sul piano della competitività la struttura economica italiana a quelle degli altri stati europei era, per la borghesia italiana, non più rinviabile.
Per questa stessa ragione le imprese negli ultimi due anni hanno messo in atto pesanti ristrutturazioni che hanno comportato e stanno tuttora comportando migliaia di tagli all'occupazione. In questa fase le stesse imprese sono costrette a fare ricorso a una nuova ondata di prepensionamenti e ciò, naturalmente, appesantirà ancora di più il sistema previdenziale nel suo complesso.
Le problematiche da risolvere si sono incentrate sostanzialmente su due questioni: favorire una più elevata flessibilità nella gestione della forza lavoro sia in entrata che in uscita, e produrre una drastica riduzione del costo del lavoro.
Niente di nuovo come si può ben vedere, ma la questione del "fare in fretta" ha assunto in questa fase un'importanza più che rilevante.
La questione della flessibilità in entrata era già stata "egregiamente" affrontata e risolta dai governi del centro-sinistra con le leggi sul lavoro interinale e l'introduzione di altre forme di lavoro atipico. Anche per quanto riguarda la flessibilità in uscita (la libertà di licenziare), pur con qualche difficoltà, D'Alema, Amato e soci stavano procedendo verso lo sbroglio della matassa.
Il governo Berlusconi si è trovato, quindi, un ottimo terreno già pronto, e ha potuto dare compimento a questa manovra che prevede la messa in atto di norme, contenute nel libro bianco di Maroni su cui abbiamo già scritto (vedi Reds n. 53: I diritti dei lavoratori e le nuove forme di occupazione nel bianco di Maroni), che vanno a precarizzare la grande maggioranza dei rapporti di lavoro.
Anche i provvedimenti per la riduzione del costo del lavoro si sono trovati la strada ampiamente spianata. Essi hanno una storia almeno ventennale, passata essenzialmente attraverso accordi concertativi che hanno ridotto i salari e hanno ingabbiato le dinamiche contrattuali. L'intervento sulle pensioni si inserisce appunto in questo filone di provvedimenti mirati a ridurre ulteriormente i costi per le imprese.

Le linee portanti, come sintetizziamo sotto, sono essenzialmente queste:
eliminare il principio secondo cui un lavoratore ha diritto alla pensione dopo un certo numero di anni lavorativi (abolizione della pensione di anzianità);
allungare l'età pensionabile per fare in modo che una volta in pensione il lavoratore possa godere per meno tempo della rendita da pensione, con conseguente risparmio per le casse dell'INPS;
unificare, alla condizione di peggior favore, l'età pensionabile delle donne e degli uomini, e le normative dei dipendenti pubblici con i privati;
ridurre le pensioni INPS calcolandole in modo da tenere conto della massa di denaro versato sotto forma di contributi (calcolo contributivo) abbandonando il sistema di calcolo che prevede una pensione che corrisponde a una percentuale sul salario percepito dal lavoratore nell'ultimo periodo di attività (calcolo retributivo);
privatizzare il sistema pensionistico con lo strumento dei fondi pensione che dovrebbero essere alimentati con contributi a carico dei lavoratori;
ridurre la quota di contributi a carico dei padroni.

Ma vediamo come negli ultimi 9-10 anni si sono mossi i governi di centro-sinistra per tentare di soddisfare al meglio le esigenze della Confindustria da una parte e non scontentare eccessivamente la propria base sociale e sindacale dall'altra.

1992 - AMATO
La legge Amato è la prima legge degli anni '90 che interviene sul sistema pensionistico. È anche quella che ha consentito finora i maggiori risparmi per le casse dell'INPS: circa 50mila miliardi.
L'intervento principale è stato sulle pensioni di vecchiaia. Il requisito minimo per potervi accedere è passato gradualmente da 55 a 60 anni per le donne e da 60 a 65 anni per gli uomini. Mentre i contributi minimi per averne diritto è passato da 15 a 20 anni per tutti.
Giro di vite anche per il calcolo della pensione calcolata sulla base della retribuzione (pensione retributiva), che fino a quel momento è stata calcolata sulla media degli ultimi 5 anni di lavoro; dopo la riforma la pensione sarà calcolata sulla media degli ultimi 10 anni.
La riforma Amato ha consentito, a partire dal '94, a quei pensionati che avessero inteso fare un altro lavoro la possibilità di cumulare il reddito da pensione con il reddito da lavoro.
Amato inoltre è stato il primo a cominciare a porre delle restrizioni per l'accesso alla pensione di anzianità, ha cioè in pratica fatto in modo che i lavoratori che maturavano i requisiti per andare in pensione andassero qualche mese dopo la data dell'acquisizione del diritto.

1995 - DINI
Il punto più importante della riforma Dini è l'introduzione di un nuovo sistema di calcolo delle pensioni: il contributivo. Si tratta di un metodo che anziché gli ultimi 10 anni di lavoro, considera l'intera vita lavorativa, con annesse penalizzazioni per chi anticipa l'età del pensionamento.
Come abbiamo già spiegato in altri articoli, il contributivo prevede una pensione calcolata sulla quantità di soldi che il lavoratore durante la sua attività ha versato nelle casse dell'INPS; si tratta in pratica di una specie di rendita su un capitale che il lavoratore ha accumulato negli anni.
Il contributivo viene applicato ai nuovi assunti dall'entrata in vigore della legge, e non viene applicato a chi in quel momento ha versato contributi per almeno 18 anni; per gli altri lavoratori è previsto un sistema misto.
La legge inoltre ha avviato la parificazione (ovviamente ai livelli peggiori) delle pensioni per i dipendenti pubblici e privati, e ha stabilito nuove limitazioni per le tanto odiate (dai padroni) pensioni di anzianità legandole all'età anagrafica: vale a dire che un lavoratore non può andare in pensione dopo 35 anni di lavoro se non ha compiuto 57 anni di età.
Vi sono poi altri provvedimenti di secondaria importanza relativi ai collaboratori coordinati e continuativi (co.co.co.) e la previdenza complementare.

1997 - PRODI
Con la finanziaria del 1998 il governo Prodi ha equiparato definitivamente le pensioni degli statali con quelle dei privati, completando il processo avviato dalla riforma Dini nel 1995.
Vengono introdotte le "finestre" per le pensioni di anzianità. Con ciò significa che per ottenere questo tipo di trattamento non è più sufficiente raggiungere i requisiti richiesti (anzianità di servizio ed età anagrafica), ma occorre anche attendere il proprio turno per il pensionamento.
Con lo stesso provvedimento si è anticipata l'entrata in vigore dei requisiti che prevedono il diritto di accesso alla pensione di anzianità (35 anni di lavoro, sia per i pubblici che per i privati) con 57 anni di età.

Ma veniamo alla storia dei giorni nostri.

2001 - BERLUSCONI
Con la delega che il governo si è assunto si vanno a introdurre dei provvedimenti che modificheranno il sistema pensionistico in modo radicale.
Innanzi tutto si va alla liberalizzazione (in alto) dell'età per la pensione di vecchiaia, che oggi per gli uomini è di 65 anni e per le donne di 60. In pratica i lavoratori saranno incentivati a proseguire a lavorare per altri due anni (ulteriormente rinnovabili) facendo loro trovare in busta paga la metà dei contributi.
Si amplierà gradualmente la possibilità di cumulare totalmente pensioni di anzianità e reddito da lavoro dipendente; in pratica verrà legalizzato il lavoro nero dei pensionati.
È previsto anche uno sconto sui contributi pagati dalle imprese dai 3 ai 5 punti (significa uno sconto del 20%) a favore dei lavoratori nuovi assunti con contratto a tempo indeterminato.
La riduzione dei contributi sarà permanente e (novità assoluta) riguarderà solo i lavoratori privati. Ai pubblici dipendenti non saranno infatti applicate le regole decise dalla delega.
Inizialmente si pensava a una decontribuzione totale per un certo periodo di tempo, poi invece si è optato per un taglio dei contributi, sempre per i nuovi assunti, ma stabilito una volta per sempre.
Un cavillo spiega che la riduzione dei contributi verrà effettuata solo per quei lavoratori che decideranno di girare tutto il loro TFR (la liquidazione) nei fondi pensione che stanno per essere lanciati anche in Italia.
Dietro la manovra sul TFR si cela un disegno che punta a una nuova redistribuzione del reddito a danno dei lavoratori dipendenti i quali perderebbero il TFR e nello tesso tempo finanzierebbero la previdenza integrativa che alla fine sostituirebbe la previdenza pubblica.
I lavoratori dipendenti avrebbero probabilmente lo stesso ammontare pensionistico nella somma tra quel poco di pensioni pubblica che rimarrà e pensione privata, ma perderebbero quasi del tutto il TFR, che costituisce un elemento di risparmio molto importante (oggi, tra l'altro, è anche una sorta di assicurazione contro la disoccupazione). E come se non bastasse il Governo si impegna a fare in modo che i padroni, i quali si troveranno "privati" di questi soldi, possano essere compensati con riduzioni del costo del lavoro ed eliminazioni di altri oneri. Si punta inoltre alla parificazione tra fondi chiusi (quelli gestiti dai sindacati) e fondi aperti (quelli gestiti dalle imprese, banche, ecc).
Da notare inoltre che il versamento nei fondi pensione da parte dei lavoratori avverrà in forma coercitiva. Il ministro Maroni ha fatto sapere che non ci sarà nessuna possibilità di scelta: il trattamento di fine rapporto sarà versato tutto ai fondi. Per il lavoratore sarà possibile solo decidere a quale fondo conferirlo. Il versamento del TFR sarà automatico. Non è chiaro invece il destino dei soldi del TFR maturato e di quello residuo di tutti quei lavoratori che stanno alle soglie della pensione d'anzianità.

Ma veniamo alle reazioni che ci sono state.
Da parte della Confindustria vi è stata un'accoglienza tiepida di questi provvedimenti. I padroni infatti hanno sempre detto a chiare lettere che si doveva andare all'abolizione in tempi rapidissimi delle pensioni di anzianità, dare spazio ai fondi integrativi, introdurre per tutti il metodo di calcolo contributivo e ridurre pesantemente i contributi per i nuovi assunti che gravano sulle imprese.
Vi è stato un momento che addirittura hanno minacciato di prendere le distanze dalle politiche del governo se non avesse seguito la linea indicata.
Era evidente l'intento di ripetere le esperienze già fatte con il contratto dei metalmeccanici e con la trattativa sul lavoro a tempo determinato, producendo una spaccatura sul fronte sindacale mediante accordi separati che isolassero la Cgil.
Ma nonostante non abbia toccato le pensioni di anzianità (per ora) nel tentativo di accattivarsi le simpatie di alcuni settori sindacali, il governo ha dovuto incassare le dichiarazioni di dissenso provenienti dal fronte confederale al cui interno i distinguo sono stati minimi.
Il segretario della Cgil, Sergio Cofferati, ha parlato esplicitamente di elementi di dissenso profondo col governo su tutta la materia: in particolare sul fisco, la decontribuzione per i nuovi assunti, l'obbligatorietà della traduzione del TFR ai fondi e gli effetti di alterazione grave e permanente del mercato del lavoro.
Senza contare poi che alla delega sul fisco e sulle pensioni va aggiunta anche la delega sul mercato del lavoro, con la sospensione "sperimentale" per quattro anni dell'articolo 18 per alcune categorie di lavoratori.
I sindacati hanno quindi recuperato un seppur tenue rapporto unitario che li ha portati a proclamare, dopo le due ore di sciopero generale contro l'attacco all'art.18 dello Statuto, altre 4 ore da effettuarsi a metà gennaio.
Quanto la Cisl e la Uil abbiano voluto impedire la proclamazione di uno sciopero della Cgil da sola, o quanto sia sincera la voglia di fare insieme questa battaglia è difficile stabilirlo oggi; un fatto certo è che dopo lo sciopero generale dei metalmeccanici e la manifestazione di Roma anche questi sindacati hanno dovuto darsi una verniciata di rosso per non perdere ulteriore consenso nei confronti della propria base.
Fatto sta che a questo punto, come abbiamo detto, la Confindustria ha serrato i ranghi e ha fatto quadrato attorno al Governo, dando un giudizio complessivamente positivo dei provvedimenti.
Gli industriali hanno giudicano questa riforma delle pensioni comunque ancora insufficiente, ma una scommessa che vale la pena provare. È il via libera degli industriali, che d'altra parte hanno trattato ogni giorno, ogni ora, le materie che interessavano loro e che erano già scritte nei programmi elettorali della Casa delle libertà.
Gli industriali, incalzando ancora sia i sindacati che il governo, hanno fatto sapere per bocca del loro presidente che non ritengono comunque ancora chiusa la partita, e che preferiscono mantenere ancora la linea della trattativa a oltranza per ottenere il massimo possibile. "Il Tfr - ha detto il presidente della Confindustria - può essere messo sul tavolo solo di fronte a una vera e definitiva riforma delle pensioni".
Non bisogna dimenticare inoltre che nel frattempo Berlusconi ha dato via libera a provvedimenti fiscali (IRAP e IRPEF) che hanno ridotto sensibilmente le tasse a lorsignori, e questo ha sicuramente contribuito aldilà delle chiacchiere ad ammorbidire "l'intransigenza padronale".

Ma a parte tutte le questioni di merito, quello che oggi conta per il governo Berlusconi è il successo politico e di immagine: il mercato del lavoro diventa totalmente flessibile, si rendono più facili i licenziamenti, si riducono le pensioni pubbliche (e quindi il ruolo dello stato), si riducono i contributi dei neo-assunti per sempre, si apre la strada ai fondi pensione privati (novità assoluta per l'Italia), si cambiano le regole per andare in pensione attraverso il sistema degli incentivi, si superano gli ostacoli al cumulo della pensione con altri redditi.

I sindacati, come dicevamo hanno quindi proclamato un'altra tornata di scioperi. Questa volta sarà di quattro ore, che saranno attuate dal 14 al 29 gennaio e articolati localmente anche se con una regia nazionale.
In una nota della Cgil si legge che i provvedimenti varati dal governo sono inaccettabili. "È del tutto evidente che le decisioni del governo e il varo della delega sono una esplicita forma di collateralismo tra governo e Confindustria che produce effetti particolarmente negativi". Per Luigi Angeletti, segretario della Uil, non si tratta tanto di collateralismo, quanto di un bel "regalo natalizio alla Confindustria da parte del governo", un governo che, anche secondo il parere del segretario della Cisl Savino Pezzotta, "punta a innescare un conflitto sociale che i sindacati non hanno cercato".
I tre segretari confederali, oltre a decidere il nuovo sciopero, hanno anche chiesto un incontro urgente con il presidente della repubblica, Carlo Azeglio Ciampi.
Anche l'Ugl, il sindacato di destra, ha indetto lo sciopero contro i provvedimenti del "suo" governo, così pure il sindacato autonomo Cisal ha aderito allo sciopero dei sindacati confederali - e questa risulta una novità nella storia recente del sindacalismo italiano.
E se queste sono state le reazioni ai vertici del sindacato italiano, è facilmente prevedibile il senso di paura e rabbia che cresce agli altri livelli sindacali e soprattutto in tutti i posti di lavoro.

Il problema vero però non può essere eluso ulteriormente; quello a cui stiamo assistendo è un vero e proprio scontro tra opposti interessi in mezzo ai quali lo spazio per la mediazione è ristrettissimo se non praticamente nullo, per cui proseguire delle trattative in sale chiuse e lontane dal fiato dei lavoratori può determinare una sconfitta da cui non sarà possibile per il movimento sindacale risollevarsi in breve tempo.
Ciò che occorre è quindi dare continuità e unità a quanto di positivo negli ultimi mesi si è mosso sul territorio nazionale; ci riferiamo al movimento no-global, alla lotta dei metalmeccanici, alla lotta degli studenti e degli insegnanti contro la riforma Moratti.
Attorno a una piattaforma generale che metta al centro i diritti fondamentali dei lavoratori che sono quelli della certezza del posto di lavoro, di un salario e pensioni dignitosi, della democrazia delle rappresentanze, è possibile rimettere in piedi e aggregare qualcosa di molto ampio che può veramente mettere in crisi questo processo di omologazione ai valori del mercato di tutto il tessuto sociale. In questo senso facciamo nostro l'appello del coordinamento RSU, "Per uno sciopero generale - Per una piattaforma generale del mondo del lavoro".
Non sappiamo se il sindacato (visti i precedenti) può dirigere, o è giusto che diriga, questa lotta. Certo è che deve esserci e fare la sua parte, pena la sua scomparsa.
Subito lo sciopero generale!!!