Pensioni:
siamo arrivati al dunque.
La
riforma imposta dal governo, sostenuta dalla Confindustria, osteggiata dai
sindacati deve essere respinta mettendo in campo tutta la forza dei lavoratori
e di chiunque altro crede nella possibilità di costruire un altro mondo.
REDS. Gennaio 2002.
Pochi
giorni prima di Natale il governo ha varato la delega sulle pensioni e quella
sul fisco che si aggiungono così a quella sul mercato del lavoro e
alla sospensione sperimentale dell'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Le
linee portanti, come sintetizziamo sotto, sono essenzialmente queste: Ma
vediamo come negli ultimi 9-10 anni si sono mossi i governi di centro-sinistra
per tentare di soddisfare al meglio le esigenze della Confindustria da una
parte e non scontentare eccessivamente la propria base sociale e sindacale
dall'altra. 1992
- AMATO 1995
- DINI 1997
- PRODI 2001
- BERLUSCONI Ma
veniamo alle reazioni che ci sono state. Ma
a parte tutte le questioni di merito, quello che oggi conta per il governo
Berlusconi è il successo politico e di immagine: il mercato del lavoro
diventa totalmente flessibile, si rendono più facili i licenziamenti,
si riducono le pensioni pubbliche (e quindi il ruolo dello stato), si riducono
i contributi dei neo-assunti per sempre, si apre la strada ai fondi pensione
privati (novità assoluta per l'Italia), si cambiano le regole per andare
in pensione attraverso il sistema degli incentivi, si superano gli ostacoli
al cumulo della pensione con altri redditi. I
sindacati, come dicevamo hanno quindi proclamato un'altra tornata di scioperi.
Questa volta sarà di quattro ore, che saranno attuate dal 14 al 29
gennaio e articolati localmente anche se con una regia nazionale. Il
problema vero però non può essere eluso ulteriormente; quello
a cui stiamo assistendo è un vero e proprio scontro tra opposti interessi
in mezzo ai quali lo spazio per la mediazione è ristrettissimo se non
praticamente nullo, per cui proseguire delle trattative in sale chiuse e lontane
dal fiato dei lavoratori può determinare una sconfitta da cui non sarà
possibile per il movimento sindacale risollevarsi in breve tempo.
Le continue sollecitazioni provenienti dagli ambienti confindustriali ad affondare
il colpo sulla questione delle pensioni hanno dato coraggio al Governo che,
timoroso della reazione delle piazze, su questa materia aveva sempre tentennato.
L'approvazione di queste riforme tese ad allineare sul piano della competitività
la struttura economica italiana a quelle degli altri stati europei era, per
la borghesia italiana, non più rinviabile.
Per questa stessa ragione le imprese negli ultimi due anni hanno messo in
atto pesanti ristrutturazioni che hanno comportato e stanno tuttora comportando
migliaia di tagli all'occupazione. In questa fase le stesse imprese sono costrette
a fare ricorso a una nuova ondata di prepensionamenti e ciò, naturalmente,
appesantirà ancora di più il sistema previdenziale nel suo complesso.
Le problematiche da risolvere si sono incentrate sostanzialmente su due questioni:
favorire una più elevata flessibilità nella gestione della forza
lavoro sia in entrata che in uscita, e produrre una drastica riduzione del
costo del lavoro.
Niente di nuovo come si può ben vedere, ma la questione del "fare
in fretta" ha assunto in questa fase un'importanza più che rilevante.
La questione della flessibilità in entrata era già stata "egregiamente"
affrontata e risolta dai governi del centro-sinistra con le leggi sul lavoro
interinale e l'introduzione di altre forme di lavoro atipico. Anche per quanto
riguarda la flessibilità in uscita (la libertà di licenziare),
pur con qualche difficoltà, D'Alema, Amato e soci stavano procedendo
verso lo sbroglio della matassa.
Il governo Berlusconi si è trovato, quindi, un ottimo terreno già
pronto, e ha potuto dare compimento a questa manovra che prevede la messa
in atto di norme, contenute nel libro bianco di Maroni su cui abbiamo già
scritto (vedi Reds n. 53: I diritti dei
lavoratori e le nuove forme di occupazione nel bianco di Maroni), che
vanno a precarizzare la grande maggioranza dei rapporti di lavoro.
Anche i provvedimenti per la riduzione del costo del lavoro si sono trovati
la strada ampiamente spianata. Essi hanno una storia almeno ventennale, passata
essenzialmente attraverso accordi concertativi che hanno ridotto i salari
e hanno ingabbiato le dinamiche contrattuali. L'intervento sulle pensioni
si inserisce appunto in questo filone di provvedimenti mirati a ridurre ulteriormente
i costi per le imprese.
eliminare il principio secondo cui un lavoratore ha diritto alla pensione
dopo un certo numero di anni lavorativi (abolizione della pensione di anzianità);
allungare l'età pensionabile per fare in modo che una volta in pensione
il lavoratore possa godere per meno tempo della rendita da pensione, con conseguente
risparmio per le casse dell'INPS;
unificare, alla condizione di peggior favore, l'età pensionabile delle
donne e degli uomini, e le normative dei dipendenti pubblici con i privati;
ridurre le pensioni INPS calcolandole in modo da tenere conto della massa
di denaro versato sotto forma di contributi (calcolo contributivo) abbandonando
il sistema di calcolo che prevede una pensione che corrisponde a una percentuale
sul salario percepito dal lavoratore nell'ultimo periodo di attività
(calcolo retributivo);
privatizzare il sistema pensionistico con lo strumento dei fondi pensione
che dovrebbero essere alimentati con contributi a carico dei lavoratori;
ridurre la quota di contributi a carico dei padroni.
La legge Amato è la prima legge degli anni '90 che interviene sul sistema
pensionistico. È anche quella che ha consentito finora i maggiori risparmi
per le casse dell'INPS: circa 50mila miliardi.
L'intervento principale è stato sulle pensioni di vecchiaia. Il requisito
minimo per potervi accedere è passato gradualmente da 55 a 60 anni
per le donne e da 60 a 65 anni per gli uomini. Mentre i contributi minimi
per averne diritto è passato da 15 a 20 anni per tutti.
Giro di vite anche per il calcolo della pensione calcolata sulla base della
retribuzione (pensione retributiva), che fino a quel momento è stata
calcolata sulla media degli ultimi 5 anni di lavoro; dopo la riforma la pensione
sarà calcolata sulla media degli ultimi 10 anni.
La riforma Amato ha consentito, a partire dal '94, a quei pensionati che avessero
inteso fare un altro lavoro la possibilità di cumulare il reddito da
pensione con il reddito da lavoro.
Amato inoltre è stato il primo a cominciare a porre delle restrizioni
per l'accesso alla pensione di anzianità, ha cioè in pratica
fatto in modo che i lavoratori che maturavano i requisiti per andare in pensione
andassero qualche mese dopo la data dell'acquisizione del diritto.
Il punto più importante della riforma Dini è l'introduzione
di un nuovo sistema di calcolo delle pensioni: il contributivo. Si tratta
di un metodo che anziché gli ultimi 10 anni di lavoro, considera l'intera
vita lavorativa, con annesse penalizzazioni per chi anticipa l'età
del pensionamento.
Come abbiamo già spiegato in altri articoli, il contributivo prevede
una pensione calcolata sulla quantità di soldi che il lavoratore durante
la sua attività ha versato nelle casse dell'INPS; si tratta in pratica
di una specie di rendita su un capitale che il lavoratore ha accumulato negli
anni.
Il contributivo viene applicato ai nuovi assunti dall'entrata in vigore della
legge, e non viene applicato a chi in quel momento ha versato contributi per
almeno 18 anni; per gli altri lavoratori è previsto un sistema misto.
La legge inoltre ha avviato la parificazione (ovviamente ai livelli peggiori)
delle pensioni per i dipendenti pubblici e privati, e ha stabilito nuove limitazioni
per le tanto odiate (dai padroni) pensioni di anzianità legandole all'età
anagrafica: vale a dire che un lavoratore non può andare in pensione
dopo 35 anni di lavoro se non ha compiuto 57 anni di età.
Vi sono poi altri provvedimenti di secondaria importanza relativi ai collaboratori
coordinati e continuativi (co.co.co.) e la previdenza complementare.
Con la finanziaria del 1998 il governo Prodi ha equiparato definitivamente
le pensioni degli statali con quelle dei privati, completando il processo
avviato dalla riforma Dini nel 1995.
Vengono introdotte le "finestre" per le pensioni di anzianità.
Con ciò significa che per ottenere questo tipo di trattamento non è
più sufficiente raggiungere i requisiti richiesti (anzianità
di servizio ed età anagrafica), ma occorre anche attendere il proprio
turno per il pensionamento.
Con lo stesso provvedimento si è anticipata l'entrata in vigore dei
requisiti che prevedono il diritto di accesso alla pensione di anzianità
(35 anni di lavoro, sia per i pubblici che per i privati) con 57 anni di età.
Ma veniamo alla storia dei giorni nostri.
Con la delega che il governo si è assunto si vanno a introdurre dei
provvedimenti che modificheranno il sistema pensionistico in modo radicale.
Innanzi tutto si va alla liberalizzazione (in alto) dell'età per la
pensione di vecchiaia, che oggi per gli uomini è di 65 anni e per le
donne di 60. In pratica i lavoratori saranno incentivati a proseguire a lavorare
per altri due anni (ulteriormente rinnovabili) facendo loro trovare in busta
paga la metà dei contributi.
Si amplierà gradualmente la possibilità di cumulare totalmente
pensioni di anzianità e reddito da lavoro dipendente; in pratica verrà
legalizzato il lavoro nero dei pensionati.
È previsto anche uno sconto sui contributi pagati dalle imprese dai
3 ai 5 punti (significa uno sconto del 20%) a favore dei lavoratori nuovi
assunti con contratto a tempo indeterminato.
La riduzione dei contributi sarà permanente e (novità assoluta)
riguarderà solo i lavoratori privati. Ai pubblici dipendenti non saranno
infatti applicate le regole decise dalla delega.
Inizialmente si pensava a una decontribuzione totale per un certo periodo
di tempo, poi invece si è optato per un taglio dei contributi, sempre
per i nuovi assunti, ma stabilito una volta per sempre.
Un cavillo spiega che la riduzione dei contributi verrà effettuata
solo per quei lavoratori che decideranno di girare tutto il loro TFR (la liquidazione)
nei fondi pensione che stanno per essere lanciati anche in Italia.
Dietro la manovra sul TFR si cela un disegno che punta a una nuova redistribuzione
del reddito a danno dei lavoratori dipendenti i quali perderebbero il TFR
e nello tesso tempo finanzierebbero la previdenza integrativa che alla fine
sostituirebbe la previdenza pubblica.
I lavoratori dipendenti avrebbero probabilmente lo stesso ammontare pensionistico
nella somma tra quel poco di pensioni pubblica che rimarrà e pensione
privata, ma perderebbero quasi del tutto il TFR, che costituisce un elemento
di risparmio molto importante (oggi, tra l'altro, è anche una sorta
di assicurazione contro la disoccupazione). E come se non bastasse il Governo
si impegna a fare in modo che i padroni, i quali si troveranno "privati"
di questi soldi, possano essere compensati con riduzioni del costo del lavoro
ed eliminazioni di altri oneri. Si punta inoltre alla parificazione tra fondi
chiusi (quelli gestiti dai sindacati) e fondi aperti (quelli gestiti dalle
imprese, banche, ecc).
Da notare inoltre che il versamento nei fondi pensione da parte dei lavoratori
avverrà in forma coercitiva. Il ministro Maroni ha fatto sapere che
non ci sarà nessuna possibilità di scelta: il trattamento di
fine rapporto sarà versato tutto ai fondi. Per il lavoratore sarà
possibile solo decidere a quale fondo conferirlo. Il versamento del TFR sarà
automatico. Non è chiaro invece il destino dei soldi del TFR maturato
e di quello residuo di tutti quei lavoratori che stanno alle soglie della
pensione d'anzianità.
Da parte della Confindustria vi è stata un'accoglienza tiepida di questi
provvedimenti. I padroni infatti hanno sempre detto a chiare lettere che si
doveva andare all'abolizione in tempi rapidissimi delle pensioni di anzianità,
dare spazio ai fondi integrativi, introdurre per tutti il metodo di calcolo
contributivo e ridurre pesantemente i contributi per i nuovi assunti che gravano
sulle imprese.
Vi è stato un momento che addirittura hanno minacciato di prendere
le distanze dalle politiche del governo se non avesse seguito la linea indicata.
Era evidente l'intento di ripetere le esperienze già fatte con il contratto
dei metalmeccanici e con la trattativa sul lavoro a tempo determinato, producendo
una spaccatura sul fronte sindacale mediante accordi separati che isolassero
la Cgil.
Ma nonostante non abbia toccato le pensioni di anzianità (per ora)
nel tentativo di accattivarsi le simpatie di alcuni settori sindacali, il
governo ha dovuto incassare le dichiarazioni di dissenso provenienti dal fronte
confederale al cui interno i distinguo sono stati minimi.
Il segretario della Cgil, Sergio Cofferati, ha parlato esplicitamente di elementi
di dissenso profondo col governo su tutta la materia: in particolare sul fisco,
la decontribuzione per i nuovi assunti, l'obbligatorietà della traduzione
del TFR ai fondi e gli effetti di alterazione grave e permanente del mercato
del lavoro.
Senza contare poi che alla delega sul fisco e sulle pensioni va aggiunta anche
la delega sul mercato del lavoro, con la sospensione "sperimentale"
per quattro anni dell'articolo 18 per alcune categorie di lavoratori.
I sindacati hanno quindi recuperato un seppur tenue rapporto unitario che
li ha portati a proclamare, dopo le due ore di sciopero generale contro l'attacco
all'art.18 dello Statuto, altre 4 ore da effettuarsi a metà gennaio.
Quanto la Cisl e la Uil abbiano voluto impedire la proclamazione di uno sciopero
della Cgil da sola, o quanto sia sincera la voglia di fare insieme questa
battaglia è difficile stabilirlo oggi; un fatto certo è che
dopo lo sciopero generale dei metalmeccanici e la manifestazione di Roma anche
questi sindacati hanno dovuto darsi una verniciata di rosso per non perdere
ulteriore consenso nei confronti della propria base.
Fatto sta che a questo punto, come abbiamo detto, la Confindustria ha serrato
i ranghi e ha fatto quadrato attorno al Governo, dando un giudizio complessivamente
positivo dei provvedimenti.
Gli industriali hanno giudicano questa riforma delle pensioni comunque ancora
insufficiente, ma una scommessa che vale la pena provare. È il via
libera degli industriali, che d'altra parte hanno trattato ogni giorno, ogni
ora, le materie che interessavano loro e che erano già scritte nei
programmi elettorali della Casa delle libertà.
Gli industriali, incalzando ancora sia i sindacati che il governo, hanno fatto
sapere per bocca del loro presidente che non ritengono comunque ancora chiusa
la partita, e che preferiscono mantenere ancora la linea della trattativa
a oltranza per ottenere il massimo possibile. "Il Tfr - ha detto il presidente
della Confindustria - può essere messo sul tavolo solo di fronte a
una vera e definitiva riforma delle pensioni".
Non bisogna dimenticare inoltre che nel frattempo Berlusconi ha dato via libera
a provvedimenti fiscali (IRAP e IRPEF) che hanno ridotto sensibilmente le
tasse a lorsignori, e questo ha sicuramente contribuito aldilà delle
chiacchiere ad ammorbidire "l'intransigenza padronale".
In una nota della Cgil si legge che i provvedimenti varati dal governo sono
inaccettabili. "È del tutto evidente che le decisioni del governo
e il varo della delega sono una esplicita forma di collateralismo tra governo
e Confindustria che produce effetti particolarmente negativi". Per Luigi
Angeletti, segretario della Uil, non si tratta tanto di collateralismo, quanto
di un bel "regalo natalizio alla Confindustria da parte del governo",
un governo che, anche secondo il parere del segretario della Cisl Savino Pezzotta,
"punta a innescare un conflitto sociale che i sindacati non hanno cercato".
I tre segretari confederali, oltre a decidere il nuovo sciopero, hanno anche
chiesto un incontro urgente con il presidente della repubblica, Carlo Azeglio
Ciampi.
Anche l'Ugl, il sindacato di destra, ha indetto lo sciopero contro i provvedimenti
del "suo" governo, così pure il sindacato autonomo Cisal
ha aderito allo sciopero dei sindacati confederali - e questa risulta una
novità nella storia recente del sindacalismo italiano.
E se queste sono state le reazioni ai vertici del sindacato italiano, è
facilmente prevedibile il senso di paura e rabbia che cresce agli altri livelli
sindacali e soprattutto in tutti i posti di lavoro.
Ciò che occorre è quindi dare continuità e unità
a quanto di positivo negli ultimi mesi si è mosso sul territorio nazionale;
ci riferiamo al movimento no-global, alla lotta dei metalmeccanici, alla lotta
degli studenti e degli insegnanti contro la riforma Moratti.
Attorno a una piattaforma generale che metta al centro i diritti fondamentali
dei lavoratori che sono quelli della certezza del posto di lavoro, di un salario
e pensioni dignitosi, della democrazia delle rappresentanze, è possibile
rimettere in piedi e aggregare qualcosa di molto ampio che può veramente
mettere in crisi questo processo di omologazione ai valori del mercato di
tutto il tessuto sociale. In questo senso facciamo nostro l'appello del coordinamento
RSU, "Per uno sciopero generale - Per una piattaforma generale del mondo
del lavoro".
Non sappiamo se il sindacato (visti i precedenti) può dirigere, o è
giusto che diriga, questa lotta. Certo è che deve esserci e fare la
sua parte, pena la sua scomparsa.
Subito lo sciopero generale!!!