Articolo 18: Nessuno scambio, nessuna sperimentazione, nessuna svendita.
Dopo la manifestazione del 23 marzo occorre fermare il paese per porre in primo piano i lavoratori in carne ed ossa e i loro irrinunciabili diritti. Di Duilio Felletti. Aprile 2002.


Dopo tutti i tentativi operati dal governo Berlusconi di isolare la CGIL e di instaurare un rapporto preferenziale con CISL e UIL volto a portare a termine le riforme del mercato del lavoro secondo i dettami della Confindustria e dopo la grandiosa manifestazione di Roma del 23 marzo che ha visto una partecipazione di uomini e donne come non si era mai vista, il quadro che oggi abbiamo di fronte ci mostra un governo in grave crisi di credibilità e la maggioranza che lo sostiene traballare paurosamente, tanto che Berlusconi in prima persona è dovuto scendere in campo con le sue televisioni per cercare di recuperare un rapporto con il popolo che lo ha votato.
Neanche i goffi tentativi di dimostrare una sorta di contiguità, o un rapporto di causa/effetto tra lotte sociali e rigurgiti terroristici hanno sortito l'effetto di creare scompiglio tra le burocrazie sindacali; anzi, ora anche CISL e UIL si sono ricompattate (seppure con tutti i distinguo del caso) con la CGIL, tant'è che lo sciopero generale di 8 ore, già proclamato dalla sola CGIL per il 5 aprile, anche se spostato al 16, ora vede le tre organizzazioni agire unitariamente per la sua riuscita.
Ciò nonostante la delega sull'articolo 18 sta procedendo nel suo iter parlamentare, mentre Governo e Confindustria mostrano di volere andare fino in fondo nello scontro che li vede contrapposti al movimento sindacale.
È oggettivamente difficile prevedere quali saranno gli esiti di questa vicenda proprio perché appare sempre più evidente che il tutto è legato ai rapporti di forza che sono e saranno messi in campo.

Ma al di là di queste premesse quello che più ci preme in questo articolo è cercare di vedere (entrando nel merito) i contenuti definitivi di questa riforma dell'articolo 18 della legge 300/70, e fare alcune considerazioni su come si sono mosse le diverse componenti politiche e sindacali in gioco.

Come sarà l'articolo 18
Nei prossimi 4 anni verranno tenute sotto osservazioni alcune realtà in cui si sperimenterà un rapporto di lavoro in cui non esisterà l'obbligo del padrone a reintegrare un lavoratore licenziato senza un giustificato motivo.
Al lavoratore licenziato, in luogo della reintegrazione, potrà essere corrisposto un risarcimento in denaro, la cui entità non è stata ancora definita, e che nell'intenzione del Governo dovrebbe essere stabilita da un accordo tra le parti sociali. Si afferma dunque senza nessun imbarazzo che il diritto al reintegro ha un prezzo e che pertanto può essere monetizzato. La pratica della monetizzazione è comunque sempre esistita; nel senso che accade ed è accaduto molto spesso che lavoratore e padrone "concordino" la risoluzione del rapporto di lavoro, ma ciò avveniva per scelta del lavoratore: ora invece si tratta di una scelta del padrone. Il padrone quindi sceglie lui se tenersi il lavoratore o pagare per cacciarlo via. La cosa è quindi profondamente diversa.
Si dice che si confermano i divieti attualmente vigenti in tema di licenziamento discriminatorio, della lavoratrice in concomitanza con il matrimonio e licenziamento in caso di malattia e maternità; ma le lavoratici sanno come già da tempo questo ostacolo viene aggirato dai padroni facendo firmare alle stesse una lettera di dimissioni senza la data, data che poi viene aggiunta dal padrone quando decide di non avere più bisogno della lavoratrice. Si tratta quindi di una tutela che ha il sapore dell'aria fritta.
Come pure quando si tratta di discriminazioni di tipo politico e sindacale; non esiste in nessuna parte del mondo un padrone che licenzia un lavoratore perché comunista o attivista sindacale: ufficialmente il lavoratore viene licenziato semplicemente perché non interessa più all'azienda la prestazione di quel determinato lavoratore. Nei fatti si è sempre dimostrato arduo per qualsiasi magistrato dimostrare il carattere politico di un licenziamento.
Ma ritorniamo alle situazioni in cui si sperimenterà il licenziamento facile.

Prima situazione
Se un'azienda che ha dei lavoratori in nero decide di assumerli regolarmente, potrà disporre di questi per quattro anni dall'assunzione regolare, senza doversi preoccupare di tenerli alle sue dipendenze per sempre.
Quindi, oltre alle varie agevolazioni fiscali e contributive (già approvate dal Governo) con cui viene premiato un padrone che in passato ha sfruttato illegalmente i lavoratori tenendoli in nero, ora per questo periodo potrà continuare, esattamente come prima, a esercitare su di essi il ricatto del licenziamento in tronco.
Non solo, ma saranno sicuramente frequenti i casi in cui un padrone assumerà un lavoratore, e dopo avere dichiarato che questo era alle sue dipendenze in nero (infatti chi potrebbe dimostrare il contrario?), potrà usufruire del regime senza articolo 18. Ma al di là di questo vi è un dato inconfutabile che è lì a dimostrare come comunque i padroni preferiscano il rapporto in nero, e che pertanto il sostenere che l'attacco all'articolo 18 favorisca l'emersione del lavoro nero è una bufala pazzesca.
Ciò è dimostrato dal fallimento dei programmi che il Governo ha messo in atto per l'emersione del lavoro nero: si prevedeva in un anno l'emersione di 900.000 lavoratori, mentre solo 430 (senza zeri) lo ha fatto davvero.
Certo c'è un punto oltre il quale "emergere" potrebbe veramente diventare conveniente: quando tutte le condizioni di supersfruttamento, l'evasione fiscale e contributiva, le paghe brutalmente sotto i minimi contrattuali, fossero completamente legalizzate.
È nostra convinzione comunque che chi è in nero resterà in nero, poiché al padrone questa condizione offre vantaggi che in nessun'altra condizione potrebbe dare.

Seconda situazione
Se un'azienda decide di allargarsi oltre la soglia dei 15 dipendenti potrà riservare a quelli nuovi lo stesso trattamento che in precedenza ha riservato agli altri: può cioè licenziare anche questi.
Senza questa trovata, prima accadeva che quando un'azienda cresceva, i diritti previsti dallo Statuto dei lavoratori venivano estesi a tutti, ossia a quelli vecchi e a quelli nuovi. Ora invece quello che si estende è il "non diritto".
C'è da dire che questa brillante idea, qualche anno fa era frullata nel cervello anche dell'allora presidente del consiglio Massimo D'Alema; idea che dovette abbandonare molto presto visto il muro che proprio la Cgil pose a questa proposta. Questo fatto dovrebbe tappare la bocca a quei commentatori che sostengono che ciò che guida Cofferati è in ultima analisi il livore anti-berlusconiano. Resta invece incomprensibile, visti i precedenti, l'opposizione a questa riforma dei DS e dell'area centrista dell'Ulivo. Speriamo che la motivazione di questo cambiamento di rotta venga dall'essersi resi conto di avere fatto in passato un errore; insomma, errare humanum est...
Ma ritornando al merito della questione, è evidente il carattere filopadronale del provvedimento: si dice in pratica che quando il padrone vede la possibilità concreta di aumentare i suoi profitti facendo crescere la sua attività, deve esclusivamente pensare a questo e non invece anche ai lavoratori, consentendo per essi una situazione in cui possono organizzarsi per avere, esercitando i diritti di contrattazione, una parte delle ricchezze che essi stessi hanno prodotto. I lavoratori devono continuare ad essere schiavi sotto la minaccia della mannaia del licenziamento.
Inoltre la delega dice con chiarezza che il periodo di 4 anni in questo caso potrà avere delle proroghe, e, quindi non è detto che anche tenendo duro per il periodo indicato, sia possibile per i lavoratori, iniziare in seguito una nuova stagione di rivendicazioni sindacali.
E poi anche qui si possono mettere in atto degli scherzetti; non ultimo quello di licenziare il lavoratore a ridosso della fine dei quattro anni, per scendere sotto i 15 dipendenti e riassumerne un altro, o magari ancora lo stesso con una nuova mansione fittizia, e ripartire per altri 4 anni. Per non parlare poi di quel padrone che ha 25 dipendenti e che smembra la sua azienda in due parti per scendere sotto i quindici e assumere altri lavoratori da lasciare a casa non appena rialzano la cresta. La fantasia dei padroni in proposito è senza limiti.

Terza situazione
Questa situazione ha una sua collocazione geografica: il sud Italia.
Quando un'azienda del sud decide di trasformare in contratti a tempo indeterminato i contratti atipici (interinali, formazione-lavoro, tempo determinato), i lavoratori prescelti per questa promozione potranno, nonostante il contratto a tempo indeterminato, essere licenziati anche senza un giusto motivo.
Sono due gli aspetti odiosi di questo provvedimento.
Primo: il contratto atipico è caratterizzato dal fatto che il lavoratore alla fine del mandato è licenziato. Con il passaggio a tempo indeterminato non accade nulla di nuovo, anzi, mentre prima la data della fine del rapporto di lavoro era nota, ora non lo è più: ogni momento è buono. Molto bizzarro è il ragionamento del ministro Maroni quando afferma che in questo modo si danno diritti a lavoratori che prima non ne avevano. Ma quali diritti ha un lavoratore quando gli viene negato quello fondamentale? Tutti sanno che un lavoratore può rivendicare dei diritti solo nel momento in cui non viene messo in discussione quello fondamentale, cioè quello della conservazione del posto di lavoro; mancando questo tutti gli altri diritti (sciopero, contrattazione, organizzazione, ecc.) sono aria fritta.
Secondo: questo provvedimento vale solo per il sud. Il sogno dei padroni di spezzare l'unità della classe lavoratrice si sta finalmente realizzando. In precedenza avevano fatto diversi tentativi, prima con le proposte delle gabbie salariali (salari differenziati a seconda delle aree geografiche) e in seguito proponendo un tipo di stato sociale "federalista" (dove la produttività è più alta anche lo stato sociale deve essere migliore), ma entrambe queste iniziative, a oggi, non hanno sortito nessun risultato apprezzabile.
È facile quindi prevedere che questa gabbia ai diritti sarà un punto di partenza che richiamerà quella dei contratti, dei salari, delle condizioni di lavoro e il Mezzogiorno verrà costretto ad un nuovo degrado.
Niente di nuovo sotto il sole, dal momento che le misure del Governo hanno il timbro dei ministri della Lega Nord, partito che ha sempre sostenuto, oltre alla galera per gli immigrati, la necessità delle gabbie salariali per il Mezzogiorno. Come pure non ci stupisce il plauso che queste hanno avuto da parte del capo della Confindustria, che è un imprenditore del sud, e che facendo proprio il verbo leghista si aspetta di poter aumentare il livello di sfruttamento sui propri operai.
Bossi e Maroni imbrogliano i lavoratori del nord, quando fanno loro credere che il peggioramento delle condizioni sociali del Mezzogiorno non li riguardi, e che la messa in discussione dell'unità dei diritti non ponga un pesante ricatto sociale anche verso i lavoratori delle zone più ricche.

Ma come abbiamo detto all'inizio di questo articolo la strada per il Governo è tutt'altro che in discesa, in quanto non è riuscito ha rompere l'azione unitaria dei sindacati confederali: anzi a questi si è aggiunto l'universo del sindacalismo di base, e buon ultimo il sindacato che fa riferimento all'area governativa di destra. Questo a dimostrare che sulla questione dei licenziamenti lo scontro che si sta producendo non è di tipo ideologico, quanto invece di tipo materiale e pertanto non può non vedere la contrapposizione dei due soggetti caratterizzanti l'oppressione di classe: i padroni e i lavoratori (siano essi di destra o di sinistra).
I sindacati non possono lasciare che questa lotta si spenga, e sono costretti a guidarla fino alle estreme conseguenze, pena la loro scomparsa.

Che la durezza dello scontro sia nelle cose lo si è visto nelle settimane scorse quando Bossi intervenendo alla televisione invitava Maroni a non insistere più di tanto (a non morire sulla barricata) sulla questione dell'articolo 18. Subito dopo è stata la volta dell'area centrista e della destra sociale della Casa delle Libertà, che dando seguito alle esternazioni del senatur hanno cercato di persuadere Berlusconi a non soggiacere agli interessi della Confindustria e di pensare invece alla pace sociale anche in vista delle elezioni amministrative di maggio.
Anche importanti esponenti di area confindustriale dalle colonne del Sole24ore, prima della manifestazione del 23 marzo, hanno a più riprese cercato di argomentare come la partita sull'articolo 18 non fosse quella principale e che tutto sommato i costi complessivi di questi provvedimenti sarebbero stati sproporzionati rispetto ai reali vantaggi per il sistema industriale.
Innocenzo Cipolletta (ex direttore generale della Confindustria e attuale presidente di Marzotto) ha scritto sul Sole24ore:

si è cercato per tale via [la modifica dell'articolo 18] di aprire una breccia nel campo sindacale, nella convinzione che una parte dello stesso fosse disposta a sperimentare una modifica molto limitata. Il risultato di questa operazione è che il sindacato ha reagito compatto contro un tale provvedimento, mentre la modifica proposta è così esigua che, come hanno fatto notare alcuni imprenditori, non lascia alcuno spazio ad un eventuale negoziato poiché, se solo si provasse a ridurne la portata non vi sarebbe nulla da sperimentare. Già oggi con le proposte avanzate dal Governo v'è da dubitare che dopo i 4 anni di sperimentazione ci siano casi sufficienti per poter dire se la riforma ha funzionato o meno.

Il nostro dice in pratica che la linea del Governo, troppo attenta alle esigenze dei sindacati, è troppo blanda e non produrrà risultati tali da poter esibire a sostegno dell'abolizione totale e per sempre dell'articolo 18.
Conclude il pezzo con una frase che la dice lunga sui problemi che anche la Confindustria ha al suo interno:

La battaglia per la modifica quasi simbolica dell'articolo 18 è già costata molto; sarebbe il caso di evitare nuovi ulteriori costi e di vedere come rientrare da alcuni di essi.

Come dire: lasciamo perdere e aspettiamo tempi migliori.
Cosa fare in attesa di questi tempi migliori ce l'ha spiegato Tito Boeri (professore universitario) sempre dalle colonne del Sole24ore. La filosofia di Tito è grosso modo questa: prima di parlare di licenziamenti facili occorre modificare gli ammortizzatori sociali; occorre cioè garantire a un lavoratore che venga licenziato una continuità di reddito che gli consenta di non incazzarsi troppo per la perdita del posto di lavoro, e non gli faccia perdere la calma e la lucidità mentale nel mettersi alla ricerca di una nuova occupazione. Scrive:

[...] si tratta di avere quegli istituti che esistono nel resto dell'Unione europea, sussidi di disoccupazione e assistenza sociale di ultima istanza potenzialmente accessibili a tutti. È un modo più efficiente e al tempo stesso più equo di assicurare i lavoratori contro il rischio del mercato. Ma di queste nuove e vere tutele nelle deleghe del Governo non vi è traccia, né sono previsti stanziamenti per questi istituti.

Secondo Boeri quindi il Governo dovrebbe stanziare soldi a sostegno dei lavoratori che tra un licenziamento e l'altro passano periodi senza lavoro; se prima non farà questo è chiaro che i lavoratori non digeriranno mai l'abolizione dell'articolo 18.

Ma dopo questi "tentennamenti" del fronte confindustriale ci ha pensato il convegno di Barcellona sulle politiche del lavoro a riportare ogni cosa al suo posto. In quella sede i 15 paesi europei hanno convenuto che la strada delle flessibilità selvagge è quella da perseguire in vista del raggiungimento di una maggiore competitività del sistema economico europeo. Non solo, ma bisognerà pensare anche a una differenziazione delle politiche salariali rapportandole ai livelli di produttività locali, e dulcis in fundo, l'età pensionabile dovrà essere elevata entro il 2008 di 5 anni.
A Berlusconi, D'Amato e Maroni, ciò è bastato perché uscissero dalle secche dei ripensamenti, tant'è che i toni duri dei primi due mesi dell'anno sono tornati a riempire le colonne dei giornali e gli spazi televisivi.
D'Amato invitava il premier a non temere gli scontri di piazza e a proseguire sulla strada delle riforme facendo leva sulla maggioranza parlamentare a lui favorevole.

Ora dopo la manifestazione del 23 marzo convocata dalla Cgil, e l'indizione da parte dei tre sindacati confederali dello sciopero generale del 16 aprile, appare chiaro che lo scontro si gioca esclusivamente sul piano dei rapporti di forza, pertanto l'esito di questo scontro dipenderà dall'intelligenza di chi guiderà questa lotta.
Le manifestazioni e le lotte spontanee che hanno preceduto queste scadenze non solo hanno già respinto la tesi che riduce l'articolo 18 a privilegio residuo per una parte del mondo del lavoro, ma hanno con sempre maggiore convinzione affermato l'idea di estenderlo a tutti.
Pertanto la chiave della vittoria per i lavoratori in questo scontro può essere proprio qui: andare all'attacco, non limitarsi alla difesa dell'esistente, estendere i diritti.
Bisogna fare in modo che, almeno per un altro giorno sia di nuovo chiaro che il lavoro esiste anche per chi non lo vuole vedere.
Questo potrà avvenire nel modo più semplice e diretto fermando ovunque, con lo sciopero generale, la megamacchina che apparentemente decide tutto sulle nostre vite e che invece funziona solo con il lavoro delle persone in carne ed ossa.