La riforma degli ammortizzatori
sociali.
Una
sintesi degli ammortizzatori oggi esistenti e dei disegni di cambiamento per
il futuro. Di Duilio Felletti. Giungo 2002.
Nelle
prossime settimane il Governo si appresta a riformare il sistema di ammortizzatori
sociali con l'obbiettivo di rendere digeribile, per i lavoratori che ne verranno
colpiti, la sua politica sul lavoro tutta incentrata su flessibilità
selvaggia, precariato e libertà di licenziamento. Prende
corpo l'ipotesi di una sostanziosa ripresa di confronto tra Governo e sindacati
sulla riforma della materia del lavoro. Stanno trovando conferma infatti le
aperture emerse al convegno di Modena in memoria di Marco Biagi, dove da parte
di tutti i presenti era stata manifestata una certa disponibilità quanto
meno al dialogo. In
questo articolo vogliamo appunto entrare nel merito di questi cosiddetti "ammortizzatori
sociali". Quando
si parla di ammortizzatori sociali, si parla di strumenti di sostegno e di
tutela al reddito per quei lavoratori che, per vari motivi, si trovano a dover
affrontare periodi più o meno lunghi senza lavoro, o ad essere anticipatamente
espulsi dal mondo del lavoro prima di accedere alla pensione. Una
grande mistificazione che ci sentiamo propinare spesso è quella secondo
cui queste tutele servono a proteggere il lavoratore (il che è parzialmente
vero), ma in realtà queste sono innanzi tutto mirate esclusivamente
a fare in modo che il sistema produttivo non debba subire intoppi dovuti alla
caduta di competitività. Gli
ammortizzatori sociali rappresentano anche un intervento diretto dello stato
a sostegno del diritto del padrone a garantirsi la continuità del profitto.
Ma
al di là di questo ragionamento, vediamo quali sono i principali ammortizzatori
sociali attualmente funzionanti. Si
tratta del perno del nostro sistema di ammortizzatori sociali. Scatta nei
casi di crisi temporanea dell'azienda non imputabile né al lavoratore
né al padrone (si rompe un impianto, c'è una caduta di ordini,
ecc.). Lo strumento è a tempo: da 13 settimane a 12 mesi, e in alcune
aree, a 24 mesi. La
Cigs può scattare quando l'impresa è in grosse difficoltà
per ristrutturazioni, riorganizzazioni e conversioni; quando cioè
non deve far fronte a difficoltà momentanee, ma deve assumere decisioni
che la porteranno a produrre in modo diverso; con altre macchine, altre
turnazioni, ecc. È
l'appendice della Cigs: può scattare per esaurimento della stessa,
ciò quando è stata utilizzata al massimo del tempo disponibile.
Con la mobilità il lavoratore viene licenziato e solitamente questo
ammortizzatore viene utilizzato quando si è in presenza di una cessazione
di attività, o quando il padrone decide di ridurre il personale per
contenere i costi di produzione. L'istituto
è previsto per fronteggiare i casi di disoccupazione prolungata.
La durata di riferimento dell'intervento è di 180 giorni. L'importo
dell'indennità è pari al 40% del salario percepito negli ultimi
tre mesi di lavoro. Spesso
questi strumenti vengono utilizzati in modo combinato per quei lavoratori
che nel periodo di inattività maturano i requisiti per il pensionamento,
per cui molto spesso questi vengono visti dai lavoratori come una forma di
prepensionamento e pertanto accolti con favore. I problemi sorgono invece
quando vengono presi di mira lavoratori relativamente giovani (soprattutto
i quarantenni), per i quali le prospettive per un nuovo lavoro sono pressoché
nulle e la pensione è ancora troppo lontana. Il
governo non ha detto ancora chiaramente cosa intende fare in proposito; appare
tuttavia abbastanza verosimile la volontà di andare lungo la linea
dell'aumento dell'indennità di disoccupazione e parallelamente la messa
in moto di meccanismi che consentano al lavoratore espulso il suo reinserimento
rapido nel mondo del lavoro. Il
punto di partenza è legato all'abolizione dell'articolo 18, che con
ogni probabilità il Governo riuscirà a portare a termine vista
la scelta, non dichiarata ma palese, dei dirigenti confederali di abbandono
del terreno della lotta che ha visto il suo punto più alto nello sciopero
generale del 16 aprile. Infatti ciò di cui ora parlano di dirigenti
sindacali è di andare al referendum abrogativo, che rischia tra l'altro
di essere fortemente depotenziato in quanto verrebbe utilizzato come referendum
civetta per fare passare quelli sulle rogatorie e il conflitto di interessi
(questioni queste che riscuotono scarsa audience tra i lavoratori, o non vengono
vissuti come terreno dello scontro di classe). Come
dicevamo la prima riforma, in ordine di importanza, che il Governo intende
attuare è quella dell'aumento, sia in termini monetari che in termini
temporali, dell'indennità di disoccupazione: si parla di portala
al 60% del salario per una durata di un anno. Questo provvedimento assomiglia
molto all'indennizzo (cambiato di nome), in caso di licenziamento, per cui
con questo trucchetto è facile immaginare che sarà una cosa
che i sindacati potrebbero accettare senza timore di perdere la faccia. Il
secondo punto della riforma riguarda il collocamento. La riforma dei vecchi
Uffici di Collocamento è già a uno stadio avanzato in quanto
il collocamento pubblico è stato al centro di un profondo processo
di cambiamento già a partire dal 1997. Oggi infatti gli Uffici di
Collocamento si chiamano Centri per l'Impiego (Cpi) e hanno come finalità
dichiarata quella di svolgere una funzione di vera e propria intermediazione
attiva tra domanda e offerta di lavoro. Per
quanto riguarda la Cassa integrazione e la Mobilità non si dice praticamente
nulla, pertanto supponiamo che questi istituti non cambieranno. Accadrà
sicuramente che il ricorso a questi si ridurrà drasticamente e moriranno
di morte naturale. La
ciliegina sulla torta (che dovrebbe superare lo Statuto dei Lavoratori e
con esso non solo l'articolo 18) di tutta questa manovra è il cosiddetto
"Statuto dei Lavori". L'idea (su cui anche i sindacati convergono)
è quella che parte dall'analisi secondo cui tutto il mondo del lavoro
è cambiato e con esso la condizione dei lavoratori, che sempre in
quantità inferiore sono nella situazione di avere un posto fisso.
Quindi mentre in passato aveva un senso parlare di diritti universali di
tutti i lavoratori (perché sostanzialmente era unica la condizione)
oggi invece secondo i riformatori, sarebbe più giusto definire i
livelli di diritti a cui i diversi lavoratori possono accedere a seconda
della propria condizione lavorativa. Le
elezioni amministrative del 26 maggio hanno però rallentando la manovra
che il Governo cerca di portare avanti. Registriamo inoltre, la posizione
cauta dell'area di centro della maggioranza che per bocca del ministro Buttiglione
indica un'altra strada: "Se i sindacati non vogliono discutere di articolo
18, ne parleremo alla fine. Solo dopo la ripresa del confronto decideremo
se per conseguire l'aumento dell'occupazione sia ancora necessario l'intervento
sull'articolo 18 oppure no, o magari con forme diverse da quelle che avevamo
pensato". Insomma
sembra evidente che il tutto sta rientrando in un canale pericolosissimo in
cui la lotta dei lavoratori, nonostante la grande radicalità espressa
nelle ultime settimane, è la grande assente, e la partita sembra andare
nelle mani di chi intende giocarsela per avere un tornaconto sul piano dello
scontro politico.
Cgil, Cisl e Uil hanno infatti confermato la loro partecipazione a un eventuale
vertice con il Governo, quando questo verrà convocato, e hanno anche
deciso di cominciare a mettere in piedi una posizione comune delle tre confederazioni
sul tema, che sarà centrale, degli ammortizzatori sociali.
La questione della riforma degli ammortizzatori sociali è stata a più
riprese caldeggiata nei mesi scorsi da una componente della Confindustria
che puntando su di essa ha cercato fino all'ultimo di evitare lo scontro con
i sindacati; alla fine ha prevalso invece quella parte (che fa capo ai vari
D'Amato, Tronchetti Provera...) che ha deciso che vi erano le condizioni per
vincere la prova di forza con i lavoratori e che pertanto si doveva andare
in quella direzione anche accettando il terreno dello scontro di piazza.
C'è stato lo sciopero generale del 16 aprile che è seguito alla
grande manifestazione del 23 marzo, e ora tutto sembra essere in una situazione
stagnante; ed è in questo clima che sta, come dicevamo, prendendo corpo
la trattativa sugli ammortizzatori sociali.
Il nome ammortizzatori sociali è molto curioso ma spiega molto bene
la funzione di questi strumenti.
La funzione è legata all'esigenza costante che i padroni hanno, cioè
quella di potersi liberare rapidamente dei lavoratori in eccesso in una determinata
fase, o scarsamente disponibili ad assoggettarsi allo sfruttamento, al fine
di mantenere il profitto a un livello adeguato. Ma disfarsi di questi lavoratori
cozza con un problema: i lavoratori non sono quasi mai disponibili a sottostare
all'esigenza di lorsignori. Questa non disponibilità del lavoratore
viene più sottilmente chiamata "impatto sociale".
Alla televisione la frase che sentiamo quando si parla di questi problemi,
suona più o meno così: "... la disponibilità di
risorse derivante dal processo di ristrutturazione che si è reso necessario
nella ditta XY per essere più competitiva ha determinato un grave impatto
sociale, per cui i sindacati e la controparte si sono incontrati ecc., ecc...".
Ma noi la traduciamo in questo modo: "... i lavoratori che sono stati
buttati fuori dalla ditta XY che in questo modo ha inteso dare un maggior
impulso all'accumulazione di profitti si sono incazzati di brutto (impatto
sociale) per cui i sindacati...".
Ecco quindi cosa c'è da ammortizzare, da addolcire, da rendere inoffensivo:
la rabbia dei lavoratori, che magari decidono di lottare e di mettere scompiglio
nel sistema produttivo, che deve invece poter continuare in tutta tranquillità,
senza nessun disturbo per il timoniere. Ecco quindi intervenire gli ammortizzatori
sociali.
In ultima analisi, un buon sistema di ammortizzatori sociali consente al padrone
di avere mano libera e di poter liberarsi di quei lavoratori, o di dismettere
integralmente o solo parzialmente delle attività senza che ciò
vada a determinare un rallentamento dell'attività produttiva nel suo
insieme.
Occorre che i lavoratori che restano nel ciclo produttivo non vengano disturbati
da scioperi o altro, devono sentirsi a posto, devono interiorizzare la convinzione
che i propri colleghi buttati fuori in realtà non sono stati lasciati
su una strada e che per loro si sono semplicemente aperte nuove opportunità.
Occorre di conseguenza che lo Stato si faccia carico del mantenimento di un
reddito per questi lavoratori che abbia un minimo di dignità.
Ecco perché quindi quando si parla di questo argomento si parla immediatamente
di una spesa che lo stato deve sostenere. E quanto più questi strumenti
vengono utilizzati, tanto più la spesa per lo stato è alta;
di conseguenza tanto più la pressione fiscale sui lavoratori deve essere
adeguata per coprire queste spese.
Sostanzialmente il meccanismo che produce la formazione di questo fondo è
tutto interno al prelievo fiscale dal lavoro dipendente. Il paradosso è
quindi veramente micidiale: i lavoratori subiscono un prelievo sul proprio
salario che deve servire ad avere un reddito seppur ridotto che spenga la
loro voglia di battersi contro il licenziamento.
Al lavoratore viene elargita una somma pari all'80% del salario globale
che gli sarebbe spettato nei giorni in cui avrebbe dovuto lavorare.
La durata varia quindi a seconda dei casi, da 12 a 24 mesi. Il sussidio
è analogo a quello previsto per la Cig ordinaria.
A differenza dalla Cig, nel caso della Cigs il rientro al lavoro non è
garantito.
Il lavoratore percepisce per un periodo che varia dai 12 ai 48 mesi un'indennità
pari alla Cig per i primi 12 mesi, e per il periodo successivo all'80% della
Cig.
Come dicevamo la differenza tra Cig e mobilità, sta nel fatto che
mentre il lavoratore è in Cig continua a essere dipendente dell'azienda,
e quindi può essere richiamato a lavorare in qualsiasi momento, mentre
con la mobilità il lavoratore è licenziato a tutti gli effetti
dal momento in cui questa scatta.
Come si intende riformare il sistema esistente di ammortizzatori sociali
Il tutto in una cornice di una vasta gamma di tipologie dei rapporti di lavoro:
il Libro bianco di Maroni su cui abbiamo già scritto.
Pertanto se la lotta nelle piazze non dovesse riprendere vi saranno oggettivamente
tutte le condizioni per una sonora sconfitta, e una volta modificato l'articolo
18 nei termini voluti dal Governo si creerà una situazione in cui il
numero dei lavoratori che non avranno più la garanzia della giusta
causa in caso di licenziamento sarà in crescente aumento nel tempo;
pertanto saranno i sindacati stessi a chiedere il tavolo delle trattative
sugli ammortizzatori sociali, ed è facile immaginare come tali modifiche
"contrattate" verranno vendute ai lavoratori come "importanti
risultati strappati alla controparte grazie alle poderose lotte messe in atto".
Ecco quindi il senso delle ultime uscite di Maroni tese a sollecitare il Parlamento
a fare in fretta nell'approvazione delle deleghe sul lavoro (leggi: articolo
18), ma nello stesso tempo anche la strada che le confederazioni stanno percorrendo
per la definizione di una propria piattaforma sulla materia degli ammortizzatori
sociali. Ma entriamo nel merito.
C'è da sottolineare che su questa proposta i sindacati hanno già
dichiarato il proprio consenso, e chiedono anzi che tale indennità
venga estesa anche ai cosiddetti co.co.co.
Per questa riforma il Governo parla già di cifre da stanziare, che
però i sindacati hanno già fatto sapere di ritenere insufficienti:
750 milioni di euro contro il doppio preteso dai sindacati. È chiaro
che alla fine ci sarà un'intesa, ma questo balletto delle cifre è
lì a dimostrare che la trattativa è già iniziata.
In pratica la funzione che dovrebbero svolgere è quella di fare in
modo che i lavoratori buttati fuori dalle fabbriche e dagli uffici vengano
al più presto riutilizzati seppure a condizioni diverse (quelle del
Libro Bianco di Maroni).
Non esisteranno più le liste dei disoccupati, come pure non ci sarà
più il libretto di lavoro che invece verrà sostituito da una
scheda personale su cui si riporteranno le caratteristiche professionali
del lavoratore.
Le liste verranno sostituite da un elenco anagrafico che conterrà
i dati del lavoratore e non esisterà più un criterio di precedenza
nell'accesso a un posto di lavoro, che prima era dato dalla data di iscrizione.
In pratica il padrone potrà scegliere chi vuole.
I Cpi sottoporranno i disoccupati a interviste periodiche e proporranno
agli stessi varie attività formative con scadenze precise (ogni tre/quattro
mesi). Qualora il disoccupato dovesse rifiutare di aderire a queste iniziative
perderà il suo stato di disoccupato e verrà cancellato dall'elenco
(e perderà l'indennità di disoccupazione). Lo stato di disoccupato
sarà perso anche quando il soggetto dovesse rifiutare proposte di
lavoro di durata superiore agli otto mesi (quattro per i giovani), in caso
invece di accettazione di un posto di durata inferiore, lo stato di disoccupato
viene semplicemente sospeso.
Infine se un lavoratore è stato licenziato da un'azienda all'interno
di una procedura di tipo collettivo, e tale azienda dovesse procedere a
nuove assunzioni, quel lavoratore avrà la precedenza su altri se
l'assunzione dovesse venire nei primi sei mesi; questo termine prima era
di un anno.
Un elemento nuovo che verrà introdotto è la liberalizzazione
del collocamento e la sua estensione anche ad agenzie private. In pratica,
le agenzie interinali potranno a pieno titolo entrare in questo tipo di
attività e entrare in concorrenza con le strutture pubbliche.
È facile prevedere a questo punto la rapida scomparsa dei Cpi.
Come si vede si tratta di una riforma tutta calibrata su un nuovo tipo di
mercato del lavoro fatto di entrate e uscite rapide che abbisognano di materiale
umano sempre pronto e disponibile a qualsiasi condizione e a qualsiasi esigenza
dello sviluppo capitalistico nelle sue diverse vicissitudini che si vanno
a determinare.
Infatti possiamo immaginare il percorso del lavoratore espulso in questo
modo: licenziato (senza giusta causa) in quanto esubero, indennità
di disoccupazione, entrata nell'elenco del Cpi (o dell'agenzia di collocamento
privata) , corsi di riqualificazione, entrata in posti di lavoro precari,
ritorno allo stato di disoccupato, altro elenco, altri corsi, ecc.
Con lo statuto dei lavori si vuole in pratica dire quali sono i diritti
di un interinale, quali quelli di un lavoratore con contratto a termine,
quali quelli dei co.co.co., ecc. Una logica semplicemente aberrante che
delinea un quadro generale in cui, invece di uniformare i diritti (come
in maniera roboante Cofferati ha declamato sulle piazze d'Italia, e nelle
proposte di riforma che ha avanzato nelle prime settimane di maggio), si
andrà allo spezzettamento di questi, formando vere e proprie corporazioni
di lavoratori forti e protetti e ampi settori di lavoratori deboli con livelli
sempre più precari di diritti.
Gli fa eco Rutelli che facendosi carico della rappresentanza dei lavoratori
lancia un salvagente al Governo: "Il Governo faccia marcia indietro sull'articolo
18. Quella sull'articolo 18 è solo una battaglia di potere. Se verrà
stralciato, noi per primi saremo disposti a discutere sugli altri temi: flessibilità,
ammortizzatori sociali, politiche previdenziali".
Non che la battaglia parlamentare non debba essere condotta, come pure è
giusto attivarsi per l'indizione dell'eventuale referendum, ma sarebbe sbagliato
non capire e non vedere che ci sono le condizioni concrete per vincere questa
battaglia sul piano dei rapporti di forza, e le piazze piene di gente in carne
ed ossa sono lì a dimostrarlo.
Una vittoria con lo strumento della lotta è il modo migliore per perseguire
dei risultati (questi sì duraturi) anche sul piano politico.