L'occupazione nella grande industria.
I freddi dati ISTAT dimostrano che gli esuberi denunciati dalla FIAT non costituiscono un fatto isolato, ma si inquadrano in un processo molto più ampio di svutamento delle grandi fabbriche. Di Duilio felletti. Giugno 2002.


Nonostante i pesanti sacrifici a cui sono stati costretti i lavoratori negli ultimi vent'anni, fatti di moderazione salariale, tagli della scala mobile, accettazione di mobilità e cassa integrazione, il calo dell'occupazione nelle grandi imprese non sembra volersi fermare.
I profondi processi di ristrutturazione già conclusi e ancora in atto nelle principali aziende italiane non riescono a produrre un livello di competitività tale da renderle capaci di agganciarsi a quei pallidi accenni di ripresa che a livello europeo cominciano a intravedersi.
I numeri crudi dell'ISTAT descrivono con efficacia la situazione: nell'industria, i posti di lavoro in meno registrati in febbraio, rispetto al febbraio 2001, sono 32.500, e nei servizi la flessione ha coinvolto 5.400 addetti (che insieme fanno quasi 38mila).
L'andamento dell'occupazione assume contorni particolarmente negativi nel settore dell'energia elettrica, del gas, e dell'acqua, dove la diminuzione raggiunge l'11,1%.
L'industria manifatturiera a sua volta denuncia un calo del 3,2%, con picchi del 6,8% per le raffinerie di petrolio, del 6% per i mezzi di trasporto e del 4,7% per metalli e prodotti di metallo.
Vi è comunque una crescita del livello di sfruttamento del lavoro che si evidenzia con l'incidenza delle ore straordinarie sull'orario di lavoro che è salita del 4,6%.
Pertanto la generale crescita dell'occupazione che si è verificata negli ultimi anni conferma di essere un fenomeno circoscritto alle aziende di piccole e medie dimensioni.
Il Sole24ore spiega il fenomeno descrivendo queste aziende "evidentemente più agili nell'adattarsi al mutare della congiuntura internazionale e alle regole imposte dalla new economy...", al contrario delle grosse aziende elefantiache (questo lo aggiungiamo noi) che sono impantanate in defatiganti trattative sindacali e impossibilitate a licenziare i lavoratori fannulloni in virtù del famigerato articolo 18.
Per il vicepresidente della Confindustria, Nicola Tognana, questo calo dell'occupazione avrebbe comunque dei risvolti positivi, pertanto i dati Istat rappresenterebbero secondo lui "un segnale che la grande impresa continua a snellirsi e a diventare più flessibile" e che sarebbe proprio questo fatto l'elemento che favorisce e rende sempre più vicina la ripresa.

Ma al di là di qualsiasi punto si voglia vedere la realtà vi è un dato incontrovertibile: quei 38mila lavoratori che non sono più in fabbrica o negli uffici e che non hanno riempito le colonne dei giornali e non hanno provocato ondate di protesta e indignazione da parte dei vertici sindacali (di destra e/o di sinistra). Sono stati espulsi alla spicciolata e non hanno costituito alcun problema nazionale.
200 qui, 150 là, un po' di mobilità qui, la cassa là, prepensionamenti, incentivi conditi con tutto ciò che la creatività dei funzionari sindacali dispersi su tutto il territorio (pagati per indorare le pillole e distribuire vaselina), è riuscita a mettere in atto.
Lotte poche e isolate, ma in compenso interminabili ore passate nelle fumose sedi delle associazioni padronali a parlare di "modalità e di strumenti atti alla soluzione dei problemi degli esuberi".
Ore e ore per trovare l'accordo scritto in cui ci sia il "giusto equilibrio" e la "mediazione che salvaguardi gli interessi delle parti" e che consenta ai presenti di firmare senza troppi rimorsi.
Poi, quando va bene, le assemblee nei luoghi di lavoro e la rassegnazione dei lavoratori che apre la strada al dilagare delle compatibilità e alla logica del mercato e del profitto.
I risultati di questi riti (vale la pena di ripeterlo) oggi sono lì sotto gli occhi di tutti: siamo 38.000 in meno!

È questo il contesto in cui si è inserita la questione della Fiat.
Ma perché tutto questo rumore? In fondo la Fiat ha "semplicemente" deciso di disfarsi di poco meno di 3.000 lavoratori dopo che, come abbiamo detto, in un anno se ne sono già andati 38.000 senza fare rumore. Perché quindi tanto clamore? Per un motivo molto semplice: perché questa espulsione, a differenza delle altre, avviene in uno spazio di tempo estremamente ristretto, e quindi fa effetto, è un impatto sociale difficile da ammortizzare.
È un fatto che costringe tutti (sindacati, partiti) a prendere una posizione. Non si può restare indifferenti. Ma l'argomento è spinoso. Come si fa ad andare contro sua maestà la Fiat?
Comprensibile quindi la grande cautela di tutte le forze politiche che si sono espresse. La paura di perdere voti se si dice qualcosa di storto è altissima, come pure è forte la paura di ritorsioni le più disparate se si entra nelle mire del signor Agnelli; per cui assistiamo a frasi del tipo "il nostro partito si rende conto delle difficoltà generali... E bisogna trovare un accordo", oppure "il governo deve intervenire per evitare le gravi conseguenze...": insomma non si capisce più la differenza tra un partito di destra e uno di sinistra.
Penosa in questo contesto la posizione dei sindacati "maggiormente rappresentativi", secondo i quali non si deve parlare "solo" di esuberi se prima non si definiscono con chiarezza le strategie aziendali (come se non fossero già sufficientemente chiare) e non venga precisato un serio piano industriale.
Insomma il solito teatrino riprodotto però in grande stile, vista l'importanza dell'interlocutore. Lo stesso teatrino che non ha impedito l'espulsione di 38.000 lavoratori.

Intanto però il menagement Fiat procede a passi da gigante con l'inizio della procedura di mobilità per 2.750 lavoratori. Ora se entro 45 giorni qualcuno non interviene in soccorso di sua maestà questi lavoratori saranno a casa: 1.655 (su 9.900) a Torino, 131 (su 750) ad Arese, 97 (su 4.500) a Cassino, 216 (su 5.000) a Pomigliano, 233 (su 1.900) a Termini Imerese, e nessuno a Melfi dove resteranno tutti i 5.000 addetti. Questi ultimi operai vengono oggettivamente premiati per la loro scarsa consistenza sindacale.
L'azienda inoltre interverrà anche sulle società di servizio legate alle fabbriche, pertanto alla Gesco (Torino) andranno in mobilità 305 persone e alla Sepin (Torino) altre 140 persone.

Ma parlare di Fiat non significa semplicemente prendere in considerazione solo i lavoratori diretti e che timbrano il cartellino dopo aver varcato i cancelli di Mirafiori o di Rivalta. Parlare di Fiat significa anche parlare di un tessuto produttivo che le ruota attorno, ed è per questo che nella realtà i posti di lavoro persi alla fine non saranno meno di 10mila.

Qualcuno in buona fede, anche davanti a questi drammatici dati, potrebbe sostenere che se questo sacrificio dovesse servire a risolvere il problema, lo si potrebbe anche fare in vista di un futuro migliore. Ma questa pratica padronale si trascina ormai da anni e ogni taglio occupazionale è sempre servito a prepararne dei nuovi per garantire il profitto al padrone e dividendi per gli azionisti.
Riportiamo sotto i fatti salienti degli ultimi 20 anni.

1980 - I tagli alla FIAT
È l'anno dello choc per Torino, quello della grande ristrutturazione, con un taglio di circa 23mila addetti, distribuiti un po' in tutta Italia ma con una maggior concentrazione a Torino a cui toccano quasi 13mila esuberi. È l'epoca delle forti tensioni sindacali e politiche, della minaccia di occupazione di Mirafiori, dello sciopero operaio di oltre 30 giorni, poi tradito dalle direzioni sindacali.
Torino che aveva sempre considerato la Fiat come un unico grande riferimento industriale, comincia, lentamente a capire che il futuro non può dipendere solo dalla casa automobilistica. Che però continua a rappresentare il pilastro fondamentale, e quasi unico dell'economia torinese.

1992 - Chiude la Lancia di Chivasso
La ristrutturazione promette di essere "morbida". Chiude lo stabilimento della Lancia di Chivasso dove lavorano ancora quasi 5mila persone. L'azienda assicura che non ci saranno problemi occupazionali, si dice che gli addetti verranno riassorbiti negli impianti di Mirafiori e Rivalta, oppure lavoreranno nel polo industriale previsto nell'area liberata dalla Lancia. In realtà al termine del processo di ristrutturazione i dipendenti riassorbiti sono stati poco più di 2.500.

1993/94 - Tocca ai colletti bianchi
Sempre Torino nell'occhio del ciclone. Non tanto per i numeri degli esuberi, ma perché i tagli riguardano i colletti bianchi: circa 4mila lavoratori, mentre altri 2mila operai rientreranno successivamente dalla cassa integrazione.
Prosegue, inoltre, il progressivo svuotamento degli stabilimenti torinesi che nel '91 occupavano ancora poco meno di 60mila addetti tra Mirafiori (40.680), Rivalta (12.200) e Chivasso (5.500).

2001 - Gli ultimi tagli
Gli ultimi tagli risalgono solo all'anno scorso. È stato infatti, siglato l'accordo per 700 lavoratori degli Enti centrali (550 a Torino), per 500 in forza alla Tnt ma presenti negli stabilimenti, 460 del Comau e 480 della meccanica di Power train.
La decisione di concentrare l'auto a Mirafiori, spostando l'Avio a Rivalta, permetterà di incrementare il numero dei lavoratori dello stabilimento torinese.

2002 - Siamo ai giorni nostri
Dopo il flop dei nuovi modelli, la Fiat denuncia una perdita complessiva di 1,9 miliardi di euro e non trova altra soluzione se non quella di chiudere stabilimenti all'estero (18, siti principalmente in Sudamerica) e procedere a tagli occupazionali anche in Italia, con l'obiettivo di riportare i bilanci almeno al pareggio ed evitare la fuga degli azionisti.

Per quanto riguarda il Governo e la Confindustria non si ha la sensazione di vedere una tensione rivolta a venire in soccorso al grande malato.
Il ministro Maroni mostra infatti maggiori preoccupazioni per le piccole fabbriche che orbitano attorno alla Fiat e auspica che gli ammortizzatori sociali possano essere estesi anche a queste, dicendosi sicuro che la Fiat sicuramente ha le risorse per superare anche questa difficile fase.
Insomma, niente rottamazione e/o contributi (come ai bei tempi del centro-sinistra), la Fiat deve arrangiarsi.
Il presidente della Confindustria D'Amato da parte sua esprime l'auspicio che si faccia qualcosa, "ma nel rispetto più rigoroso delle leggi del mercato". Che tradotto in italiano significa: se la Fiat ha perso di competitività, faccia quello che hanno già fatto le varie Ford, Crysler, Daewoo, ecc., si liberi cioè dei lavoratori di troppo.
Ora stanno intervenendo le banche (che evidentemente temono di non vedersi restituire i propri soldi) per coprire le pesanti perdite che la Fiat ha subito e per fermare la caduta del valore delle sue azioni che prima del loro intervento era sceso in due giorni del 6%.
Ma è evidente che non essendo le banche delle associazioni di volontariato porranno delle condizioni che garantiscano la restituzione del debito; e di solito queste condizioni prevedono l'avanzamento deciso lungo un processo di ristrutturazione che porti al più presto la Società in attivo.

I tempi che quindi si prospettano per i lavoratori sono difficilissimi. Lo scontro di classe che con la fuoruscita alla spicciolata dei 38.000 sembrava non esistere è ritornato invece prepotentemente alla ribalta con al centro la difesa del diritto al posto di lavoro.

Pur nelle difficoltà oggettive che si hanno quando si devono chiamare allo sciopero dei lavoratori in una fabbrica che ha bisogno di ridurre il lavoro, vi sono comunque tutte le condizioni affinché il grosso movimento che partendo dalla lotta dei metalmeccanici della Fiom, passando attraverso le manifestazioni contro la logica della globalizzazione, fino ad arrivare allo sciopero generale contro le leggi delega su pensioni e mercato del lavoro, possa proseguire e ingrossarsi ulteriormente attorno al contenuto che coinvolge trasversalmente tutto il mondo del lavoro: quello cioè della difesa del posto di lavoro contro la logica dello sfruttamento e del profitto.

È importante quindi che l'unica possibilità che i lavoratori hanno nelle mani per tentare di difendersi possano giocarsela in un contesto che non li veda isolati dall'insieme del movimento, e per fare ciò è altrettanto importante non ritenere la lotta della Fiat un fatto privato, (altri 38mila se ne sono già andati) e in questo senso la responsabilità delle dirigenze sindacali diventa enorme.