L'occupazione nella grande
industria.
I
freddi dati ISTAT dimostrano che gli esuberi denunciati dalla FIAT non costituiscono
un fatto isolato, ma si inquadrano in un processo molto più ampio di
svutamento delle grandi fabbriche. Di Duilio felletti. Giugno 2002.
Nonostante
i pesanti sacrifici a cui sono stati costretti i lavoratori negli ultimi vent'anni,
fatti di moderazione salariale, tagli della scala mobile, accettazione di
mobilità e cassa integrazione, il calo dell'occupazione nelle grandi
imprese non sembra volersi fermare. Ma
al di là di qualsiasi punto si voglia vedere la realtà vi è
un dato incontrovertibile: quei 38mila lavoratori che non sono più
in fabbrica o negli uffici e che non hanno riempito le colonne dei giornali
e non hanno provocato ondate di protesta e indignazione da parte dei vertici
sindacali (di destra e/o di sinistra). Sono stati espulsi alla spicciolata
e non hanno costituito alcun problema nazionale. È
questo il contesto in cui si è inserita la questione della Fiat. Intanto
però il menagement Fiat procede a passi da gigante con l'inizio della
procedura di mobilità per 2.750 lavoratori. Ora se entro 45 giorni
qualcuno non interviene in soccorso di sua maestà questi lavoratori
saranno a casa: 1.655 (su 9.900) a Torino, 131 (su 750) ad Arese, 97 (su 4.500)
a Cassino, 216 (su 5.000) a Pomigliano, 233 (su 1.900) a Termini Imerese,
e nessuno a Melfi dove resteranno tutti i 5.000 addetti. Questi ultimi operai
vengono oggettivamente premiati per la loro scarsa consistenza sindacale. Ma
parlare di Fiat non significa semplicemente prendere in considerazione solo
i lavoratori diretti e che timbrano il cartellino dopo aver varcato i cancelli
di Mirafiori o di Rivalta. Parlare di Fiat significa anche parlare di un tessuto
produttivo che le ruota attorno, ed è per questo che nella realtà
i posti di lavoro persi alla fine non saranno meno di 10mila. Qualcuno
in buona fede, anche davanti a questi drammatici dati, potrebbe sostenere
che se questo sacrificio dovesse servire a risolvere il problema, lo si potrebbe
anche fare in vista di un futuro migliore. Ma questa pratica padronale si
trascina ormai da anni e ogni taglio occupazionale è sempre servito
a prepararne dei nuovi per garantire il profitto al padrone e dividendi per
gli azionisti. 1980
- I tagli alla FIAT 1992
- Chiude la Lancia di Chivasso 1993/94
- Tocca ai colletti bianchi 2001
- Gli ultimi tagli 2002
- Siamo ai giorni nostri Per
quanto riguarda il Governo e la Confindustria non si ha la sensazione di vedere
una tensione rivolta a venire in soccorso al grande malato. I
tempi che quindi si prospettano per i lavoratori sono difficilissimi. Lo scontro
di classe che con la fuoruscita alla spicciolata dei 38.000 sembrava non esistere
è ritornato invece prepotentemente alla ribalta con al centro la difesa
del diritto al posto di lavoro. Pur
nelle difficoltà oggettive che si hanno quando si devono chiamare allo
sciopero dei lavoratori in una fabbrica che ha bisogno di ridurre il lavoro,
vi sono comunque tutte le condizioni affinché il grosso movimento che
partendo dalla lotta dei metalmeccanici della Fiom, passando attraverso le
manifestazioni contro la logica della globalizzazione, fino ad arrivare allo
sciopero generale contro le leggi delega su pensioni e mercato del lavoro,
possa proseguire e ingrossarsi ulteriormente attorno al contenuto che coinvolge
trasversalmente tutto il mondo del lavoro: quello cioè della difesa
del posto di lavoro contro la logica dello sfruttamento e del profitto. È
importante quindi che l'unica possibilità che i lavoratori hanno nelle
mani per tentare di difendersi possano giocarsela in un contesto che non li
veda isolati dall'insieme del movimento, e per fare ciò è altrettanto
importante non ritenere la lotta della Fiat un fatto privato, (altri 38mila
se ne sono già andati) e in questo senso la responsabilità delle
dirigenze sindacali diventa enorme.
I profondi processi di ristrutturazione già conclusi e ancora in atto
nelle principali aziende italiane non riescono a produrre un livello di competitività
tale da renderle capaci di agganciarsi a quei pallidi accenni di ripresa che
a livello europeo cominciano a intravedersi.
I numeri crudi dell'ISTAT descrivono con efficacia la situazione: nell'industria,
i posti di lavoro in meno registrati in febbraio, rispetto al febbraio 2001,
sono 32.500, e nei servizi la flessione ha coinvolto 5.400 addetti (che insieme
fanno quasi 38mila).
L'andamento dell'occupazione assume contorni particolarmente negativi nel
settore dell'energia elettrica, del gas, e dell'acqua, dove la diminuzione
raggiunge l'11,1%.
L'industria manifatturiera a sua volta denuncia un calo del 3,2%, con picchi
del 6,8% per le raffinerie di petrolio, del 6% per i mezzi di trasporto e
del 4,7% per metalli e prodotti di metallo.
Vi è comunque una crescita del livello di sfruttamento del lavoro che
si evidenzia con l'incidenza delle ore straordinarie sull'orario di lavoro
che è salita del 4,6%.
Pertanto la generale crescita dell'occupazione che si è verificata
negli ultimi anni conferma di essere un fenomeno circoscritto alle aziende
di piccole e medie dimensioni.
Il Sole24ore spiega il fenomeno descrivendo queste aziende "evidentemente
più agili nell'adattarsi al mutare della congiuntura internazionale
e alle regole imposte dalla new economy...", al contrario delle grosse
aziende elefantiache (questo lo aggiungiamo noi) che sono impantanate in defatiganti
trattative sindacali e impossibilitate a licenziare i lavoratori fannulloni
in virtù del famigerato articolo 18.
Per il vicepresidente della Confindustria, Nicola Tognana, questo calo dell'occupazione
avrebbe comunque dei risvolti positivi, pertanto i dati Istat rappresenterebbero
secondo lui "un segnale che la grande impresa continua a snellirsi e
a diventare più flessibile" e che sarebbe proprio questo fatto
l'elemento che favorisce e rende sempre più vicina la ripresa.
200 qui, 150 là, un po' di mobilità qui, la cassa là,
prepensionamenti, incentivi conditi con tutto ciò che la creatività
dei funzionari sindacali dispersi su tutto il territorio (pagati per indorare
le pillole e distribuire vaselina), è riuscita a mettere in atto.
Lotte poche e isolate, ma in compenso interminabili ore passate nelle fumose
sedi delle associazioni padronali a parlare di "modalità e di
strumenti atti alla soluzione dei problemi degli esuberi".
Ore e ore per trovare l'accordo scritto in cui ci sia il "giusto equilibrio"
e la "mediazione che salvaguardi gli interessi delle parti" e che
consenta ai presenti di firmare senza troppi rimorsi.
Poi, quando va bene, le assemblee nei luoghi di lavoro e la rassegnazione
dei lavoratori che apre la strada al dilagare delle compatibilità e
alla logica del mercato e del profitto.
I risultati di questi riti (vale la pena di ripeterlo) oggi sono lì
sotto gli occhi di tutti: siamo 38.000 in meno!
Ma perché tutto questo rumore? In fondo la Fiat ha "semplicemente"
deciso di disfarsi di poco meno di 3.000 lavoratori dopo che, come abbiamo
detto, in un anno se ne sono già andati 38.000 senza fare rumore. Perché
quindi tanto clamore? Per un motivo molto semplice: perché questa espulsione,
a differenza delle altre, avviene in uno spazio di tempo estremamente ristretto,
e quindi fa effetto, è un impatto sociale difficile da ammortizzare.
È un fatto che costringe tutti (sindacati, partiti) a prendere una
posizione. Non si può restare indifferenti. Ma l'argomento è
spinoso. Come si fa ad andare contro sua maestà la Fiat?
Comprensibile quindi la grande cautela di tutte le forze politiche che si
sono espresse. La paura di perdere voti se si dice qualcosa di storto è
altissima, come pure è forte la paura di ritorsioni le più disparate
se si entra nelle mire del signor Agnelli; per cui assistiamo a frasi del
tipo "il nostro partito si rende conto delle difficoltà generali...
E bisogna trovare un accordo", oppure "il governo deve intervenire
per evitare le gravi conseguenze...": insomma non si capisce più
la differenza tra un partito di destra e uno di sinistra.
Penosa in questo contesto la posizione dei sindacati "maggiormente rappresentativi",
secondo i quali non si deve parlare "solo" di esuberi se prima non
si definiscono con chiarezza le strategie aziendali (come se non fossero già
sufficientemente chiare) e non venga precisato un serio piano industriale.
Insomma il solito teatrino riprodotto però in grande stile, vista l'importanza
dell'interlocutore. Lo stesso teatrino che non ha impedito l'espulsione di
38.000 lavoratori.
L'azienda inoltre interverrà anche sulle società di servizio
legate alle fabbriche, pertanto alla Gesco (Torino) andranno in mobilità
305 persone e alla Sepin (Torino) altre 140 persone.
Riportiamo sotto i fatti salienti degli ultimi 20 anni.
È l'anno dello choc per Torino, quello della grande ristrutturazione,
con un taglio di circa 23mila addetti, distribuiti un po' in tutta Italia
ma con una maggior concentrazione a Torino a cui toccano quasi 13mila esuberi.
È l'epoca delle forti tensioni sindacali e politiche, della minaccia
di occupazione di Mirafiori, dello sciopero operaio di oltre 30 giorni, poi
tradito dalle direzioni sindacali.
Torino che aveva sempre considerato la Fiat come un unico grande riferimento
industriale, comincia, lentamente a capire che il futuro non può dipendere
solo dalla casa automobilistica. Che però continua a rappresentare
il pilastro fondamentale, e quasi unico dell'economia torinese.
La ristrutturazione promette di essere "morbida". Chiude lo stabilimento
della Lancia di Chivasso dove lavorano ancora quasi 5mila persone. L'azienda
assicura che non ci saranno problemi occupazionali, si dice che gli addetti
verranno riassorbiti negli impianti di Mirafiori e Rivalta, oppure lavoreranno
nel polo industriale previsto nell'area liberata dalla Lancia. In realtà
al termine del processo di ristrutturazione i dipendenti riassorbiti sono
stati poco più di 2.500.
Sempre Torino nell'occhio del ciclone. Non tanto per i numeri degli esuberi,
ma perché i tagli riguardano i colletti bianchi: circa 4mila lavoratori,
mentre altri 2mila operai rientreranno successivamente dalla cassa integrazione.
Prosegue, inoltre, il progressivo svuotamento degli stabilimenti torinesi
che nel '91 occupavano ancora poco meno di 60mila addetti tra Mirafiori (40.680),
Rivalta (12.200) e Chivasso (5.500).
Gli ultimi tagli risalgono solo all'anno scorso. È stato infatti, siglato
l'accordo per 700 lavoratori degli Enti centrali (550 a Torino), per 500 in
forza alla Tnt ma presenti negli stabilimenti, 460 del Comau e 480 della meccanica
di Power train.
La decisione di concentrare l'auto a Mirafiori, spostando l'Avio a Rivalta,
permetterà di incrementare il numero dei lavoratori dello stabilimento
torinese.
Dopo il flop dei nuovi modelli, la Fiat denuncia una perdita complessiva di
1,9 miliardi di euro e non trova altra soluzione se non quella di chiudere
stabilimenti all'estero (18, siti principalmente in Sudamerica) e procedere
a tagli occupazionali anche in Italia, con l'obiettivo di riportare i bilanci
almeno al pareggio ed evitare la fuga degli azionisti.
Il ministro Maroni mostra infatti maggiori preoccupazioni per le piccole fabbriche
che orbitano attorno alla Fiat e auspica che gli ammortizzatori sociali possano
essere estesi anche a queste, dicendosi sicuro che la Fiat sicuramente ha
le risorse per superare anche questa difficile fase.
Insomma, niente rottamazione e/o contributi (come ai bei tempi del centro-sinistra),
la Fiat deve arrangiarsi.
Il presidente della Confindustria D'Amato da parte sua esprime l'auspicio
che si faccia qualcosa, "ma nel rispetto più rigoroso delle leggi
del mercato". Che tradotto in italiano significa: se la Fiat ha perso
di competitività, faccia quello che hanno già fatto le varie
Ford, Crysler, Daewoo, ecc., si liberi cioè dei lavoratori di troppo.
Ora stanno intervenendo le banche (che evidentemente temono di non vedersi
restituire i propri soldi) per coprire le pesanti perdite che la Fiat ha subito
e per fermare la caduta del valore delle sue azioni che prima del loro intervento
era sceso in due giorni del 6%.
Ma è evidente che non essendo le banche delle associazioni di volontariato
porranno delle condizioni che garantiscano la restituzione del debito; e di
solito queste condizioni prevedono l'avanzamento deciso lungo un processo
di ristrutturazione che porti al più presto la Società in attivo.