Il
Patto per l'Italia.
Dopo
l'accordo del 1993 sulla politica dei redditi, con il Patto per l'Italia i
padroni aprono una nuova fase nella storia delle relazioni sindacali con al
centro una riduzione dei diritti dei lavoratori per poterne aumentare lo sfruttamento.
Di Duilio Felletti, delegato FIOM. Settembre 2002.
Patto per
l'Italia è il nome che il Governo con le parti sociali hanno voluto dare all'accordo
firmato il 5 luglio scorso. Come sappiamo, non è stato firmato dalla Cgil,
che invece immediatamente dopo la stipula ha proclamato lo sciopero generale
da attuarsi in ottobre. La Cgil inoltre ha messo in campo una serie di iniziative
tese a rimettere in discussione il patto stesso e a sostenere delle leggi
di iniziativa popolare su diritti e ammortizzatori sociali. Il Patto
per l'Italia è una riedizione al ribasso della concertazione che ha trovato
nell'accordo del 23 luglio 1993 il punto topico e che per i successivi nove
anni ha dettato le regole che hanno caratterizzato le relazioni sindacali
con particolare riferimento alla contrattazione. Nonostante quest'accordo
abbia danneggiato pesantemente le condizioni dei lavoratori e non abbia consentito
una reale difesa dell'occupazione, questo stesso accordo ha mostrato negli
ultimi due anni, ad avviso dei padroni, la sua inadeguatezza alla soluzione
dei problemi di competitività del sistema economico italiano, tant'è che la
Confindustria da tempo ne sollecitava una profonda revisione (che non ha trovato
una sua definizione durante il governo D'Alema) per rendere piE' esplicite
le questioni che dovevano favorire una piE' elevata liberalizzazione delle
politiche contrattuali, della flessibilità del lavoro, e un ulteriore abbattimento
del carico fiscale delle imprese. L'accordo del '93 (firmato anche dalla Cgil)
ha svolto la funzione di apripista per gli altri provvedimenti che sono come
vedremo contenuti nel Patto per l'Italia. Fisco, mezzogiorno
e mercato del lavoro: sono questi gli argomenti trattati nel documento, ma
in realtà il ragionamento è unico, e cioè lo sforzo che viene fatto è quello
di fare in modo che, in presenza di una situazione che in prospettiva sarà
a "licenziamento libero" (abolizione dell'art.18), l'insieme della società
non debba subire contraccolpi sul piano della stabilità dei suoi rapporti
interni, e l'economia, nello stesso tempo, possa avere una poderosa ripresa
e conquistare competitività rispetto le altre economie concorrenti. La filosofia
quindi è sempre la medesima, e pu essere riassunta nello slogan: forza lavoro
usa e getta per maggiori investimenti al sud e al nord per lo sviluppo. Questo
ovviamente non è detto così esplicitamente, ma lo si evince con chiarezza
nella lettura dei passaggi del documento. IL FISCO
Per quanto
riguarda i provvedimenti in materia di fisco sul lavoro dipendente, vi sono
due questioni su cui riflettere. La prima. Non si dice che il Governo intende
rilanciare i consumi e difendere i redditi più bassi con una riduzione
delle tasse che gravano su questi; si dice invece che il Governo intende attuare
una politica di sviluppo e di aumento della produttività del lavoro
che, se produrranno risorse disponibili, saranno utilizzate, grazie a una
manovra finanziaria, per una riduzione del carico fiscale ai lavoratori e
pensionati. La premessa-condizione quindi per una detassazione del salario
è l'aumento della produttività del lavoro. Ma questo, lo sappiamo
benissimo, significa piE' sfruttamento sui luoghi di lavoro. Infatti, livelli
maggiori di produttività sono ottenibili aumentando il prodotto pro-capite,
e questo i padroni lo perseguono riducendo il numero degli organici, o calibrandolo
rigorosamente con gli alti e bassi della capacità del mercato di assorbire
la produzione; quando cioè il mercato tira fa marciare gli impianti
al massimo tirando il collo anche ai lavoratori, e magari anche assumendone
altri, e quando le cose non vanno benissimo riducono i ritmi e lascia a casa
gli esuberi. La seconda. Lo strumento utilizzato è quello della deduzione
dal reddito tassabile. In pratica al lavoratore verrà considerato un
reddito più basso di quello effettivamente percepito su cui calcolare
le tasse. Non ci sarà più quindi una detrazione di imposta (uno
sconto sulle tasse) ma un abbattimento (deduzione) del reddito che sarà
inizialmente in forma forfettaria e legata ai carichi di famiglia. Con lo
strumento della deduzione si introduce il principio che una riduzione delle
tasse il lavoratore la potrà ottenere dimostrando di avere sostenuto
delle spese per i propri famigliari (per sanità, scuola, ecc..) e solo
in questo caso ne avrà diritto; in caso contrario, nulla. Col sistema
precedente (che pure non brillava per giustizia), per il semplice fatto di
avere dei carichi di famiglia si aveva diritto a un abbattimento delle tasse,
anche senza dimostrare di avere sostenuto spese particolari. Vi è inoltre
da sottolineare che il nuovo sistema fiscale, così come è stato congegnato,
prevede una aumento delle tasse per i redditi bassi e medio bassi, per cui
le deduzioni non faranno altro che restituire (parzialmente) quanto il governo
aveva deciso di togliere. Per il lavoratore non cambia (nelle migliori delle
ipotesi) nulla, solo che, in compenso, come vedremo, ha meno tutele e meno
democrazia sul posto di lavoro. MEZZOGIORNO
IL LAVORO
Ma ora cosa
accadrà dopo i tre anni, a quell'azienda che da 15 dipendenti è
arrivata ad esempio a 20 o 30? Attorno a questa domanda, nei giorni immediatamente
successivi la firma del Patto si è scatenata la solita bagarre delle
interpretazioni. Da una parte i "sindacalisti" (forse rendendosi
conto di avere fatto una cazzata) che si sono divisi tra chi diceva che dopo
i tre anni l'articolo 18 veniva ripristinato per tutti (invitando in modo
velato i padroni a licenziare per scendere sotto la soglia dei 15, prima della
scadenza dei 3 anni) e chi invece molto piE' prudentemente sosteneva che ci
sarebbe stato un confronto per valutare la nuova situazione (prospettando
quindi la possibilità di una proroga). Dall'altra parte invece i giuristi
"indipendenti" e i legali d'assalto della Confindustria, oltre che
naturalmente i ministri piE' zelanti (Marzano in testa), i quali hanno sostenuto
che i lavoratori assunti in un regime in cui l'articolo 18 non era efficace,
se fossero rimasti nella stessa azienda per tutta la vita, l'articolo 18 avrebbe
continuato a non essere inefficace. Solo in caso di ulteriori assunzioni l'articolo
18 sarebbe tornato nella sua efficacia per tutti i lavoratori. A oggi questa
diatriba, evidentemente importantissima e fondamentale, non è ancora
risolta e nonostante ci Cisl e Uil continuano a sostenere la positività
di tale accordo. Ma al di la di queste questioni è difficile tentare
di descrivere la situazione che si verrà a delineare nei prossimi mesi,
quando quest'accordo verrà applicato; potrebbero verificarsi casi limite
abnormi, come quello di una società che passa da 14 a 200 dipendenti
con conseguente libertà di licenziare tutti, o un'azienda che si smembra
in 4 o 5 piccole aziende per avere i vantaggi di quest'accordo. E' veramente
tutto molto difficile e complicato. Una cosa è certa tuttavia: sicuramente
nelle previsioni dei firmatari c'è un aumento dei licenziamenti, altrimenti
non si spiegherebbe la necessità che le parti hanno avuto di andare
a una ridefinizione degli ammortizzatori sociali (vedi: La riforma degli ammortizzatori
sociali) con particolare riferimento all'indennità di disoccupazione
che viene quasi raddoppiata. Vi sono inoltre una serie di provvedimenti che
in teoria dovrebbero rendere più semplice il reinserimento del mercato
del lavoro: ci riferiamo al collocamento dato in gestione ai privati, i corsi
di riqualificazione per adulti, varie forme di sostegno al reddito con fondi
che si dovrebbero formare con accordi tra le parti sociali a livello locale
e gestiti da "enti bilaterali" (sindacati e padroni). Ma tutte queste
cose sono lì a dimostrare che, ripetiamo, chi ha firmato il Patto sa
che dovrà fare i conti con numeri consistenti di espulsioni dai posti
di lavoro. Ci non significa che aumenteranno i disoccupati, anzi, forse ci
sarà un'inversione di tendenza (non certo nelle grandi fabbriche dove
invece continua l'emoregia di posti di lavoro), certo è che per questi
lavoratori assunti senza tutele avranno una ridottissima forza contrattuale
e saranno incapaci di lottare per un miglioramento delle condizioni di vita
e di lavoro. Sicuramente migliorerà la competitività del sistema
produttivo italiano, ma questo avverrà con un poderoso aumento dello
sfruttamento e a scapito dei diritti dei lavoratori. Non ci sembra
ci sia molto altro da aggiungere visto che gran parte degli argomenti trattati
sono già da noi stati analizzati in occasioni precedenti (vedi: "Articolo
18: nessuno scambio, nessuna sperimentazione, nessuna svendita" ; e ancora
"Difendiamo l'art.18") merita invece una riflessione su come la
Cgil sta gestendo questa fase dello scontro di classe. La Cgil ha
in corso una raccolta di firme (vuole raccoglierne 5 milioni) per abrogare
i provvedimenti legislativi che deriveranno dall'accordo appena stipulato
da Cisl e Uil, e a sostegno di leggi di iniziativa popolare sui diritti per
i lavoratori atipici e (tranne la Fiom) ha ribadito la sua contrarietà al
referendum proposto da Rifondazione Comunista per estendere l'articolo 18
a tutti i lavoratori. La Cgil ha deciso inoltre la proclamazione di uno sciopero
generale di cui la data si conoscerà dopo il 20 settembre, quando cioè Cofferati
lascerà a Epifani la patata bollente della guida del maggiore sindacato italiano.
Tutto ci ci sembra piuttosto confuso e di scarsa efficacia. Come è possibile
infatti raccogliere firme per abrogare una legge che non è stata ancora approvata?
Bisognerà in un momento successivo, quando questa sarà approvata, ritornare
a raccogliere le firme, con un dispendio di energie gigantesco, mentre sarebbe
stato piE' semplice ed efficace per la Cgil investire i suoi quadri e militanti
a sostegno del referendum del PRC, e nella preparazione di iniziative di lotta
cercando il coinvolgimento anche dei lavoratori della Cisl e della Uil, cercando
di dare loro voce ed evidenziando così le contraddizioni con il proprio
gruppo dirigente che fin dai primi giorni si sono manifestate sui posti di
lavoro. Queste perplessità non devono implicare certo il boicottaggio
della raccolta di firme: essa si sta già dimostrando, nonostante i
limiti su esposti, una maniera per ricostruire il rapporto tra la massa dei
salariati e movimento sindacale. La percezione
che abbiamo però è che la direzione Cgil, più che andare
decisamente allo scontro con la Confindustria e il Governo sia invece piE'
preoccupata di incanalare la lotta e lo scontento dei lavoratori lungo percorsi
piE' controllabili e gestibili politicamente. Anche lo sciopero (che, sia
chiaro, dobbiamo tutti impegnarci perché riesca) ci appare più
come una "testimonianza", per tener alto il morale delle truppe,
che una lotta tesa a "far male sul serio" all'avversario. Altrimenti
si sarebbe pensato a scioperi prolungati, a scacchiera, al blocco delle ore
straordinarie, al blocco degli accordi decentrati sulla flessibilità,
ecc. Se non ci si mette nell'ottica cioé di far perdere molti soldi
ai padroni si resiste ma non si vince. Il problema
che per nasce è questo: riusciranno le burocrazie sindacali a portare a termine
questa vicenda nella direzione da loro voluta? Nelle prossime settimane i
metalmeccanici e altre importanti categorie di lavoratori cominceranno a discutere
sulle loro piattaforme rivendicative per i rinnovi contrattuali che partiranno
alla fine dell'anno, per cui lo scontro sull'articolo 18 si andrà a sommare
a quello sui contratti, e probabilmente l'esito del secondo dipenderà dal
primo. E' importante quindi per i lavoratori non perdere la consapevolezza
della partita in gioco ed è altrettanto importante non abbassare la guardia
su tutti i terreni dello scontro in corso: democrazia, diritti e salario.
Abbiamo già descritto in un altro articolo per quali vie il Governo
intendeva riformare il fisco, e abbiamo sostenuto che in definitiva a godere
i maggiori vantaggi dalla riforma erano i più ricchi grazie alla sostanziale
abolizione del principio costituzionale della progressività dell'imposta
sul reddito. Col Patto per l'Italia il Governo ha cercato di dare un contentino
ai sindacati avviando la soluzione del problema di come non penalizzare eccessivamente
le classi piE' basse; ma vediamo come. Leggiamo che il Governo intende stimolare
"i consumi e la crescita per avviare un processo di riduzione del carico
fiscale sulle persone, le famiglie e le imprese", e poi ancora "il
miglioramento della produttività e la progressiva riduzione del cuneo
fiscale sul lavoro (i contributi troppo alti che i padroni pagano per i lavoratori
ndr) potranno contribuire ulteriormente a fare crescere il reddito disponibile
delle famiglie", e ancora "la riduzione della tassazione personale
sarà attuata nell'ambito delle risorse che si renderanno disponibili
con la manovra di finanza pubblica". Vi sono quindi elencati gli strumenti
che verranno utilizzati per ridurre le tasse ai lavoratori, che in realtà
è uno solo: si tratta in pratica di una deduzione dal reddito di una
quota forfettaria rapportata al reddito stesso. Altri strumenti e provvedimenti
(questi invece ben specificati) riguardano la riduzione delle tasse per i
lavoratori autonomi e per i titolari delle piccole imprese.
La questione dell'arretratezza delle regioni del sud Italia viene affrontata
in modo molto ampio e fumoso. Il fumo serve a nascondere quali siano i veri
connotati del tipo di intervento che il governo intende attuare per riportare
le popolazioni del sud a godere dei grandi vantaggi dello sviluppo capitalista.
Si parla di investimenti e di formazione professionale oltre di coinvolgimento
diretto dei sindacati nella gestione delle risorse che verranno messe a disposizione.
Ma al di là di tutto ci sembra di poter dire che in definitiva il governo
fa un ragionamento molto semplice: i soldi al sud i padroni non li investono
perchŸ quest'area non sarebbe sufficientemente attraente, per cui è necessario
che la possibilità di fare profitti sia garantita ed evidente. La scelta quindi
è quella di investire fortemente in grandi opere infrastrutturali (strade,
ferrovie, porti e ponti) che consentano alle merci di raggiungere rapidamente
i mercati e ai profitti di arrivare altrettanto velocemente nelle tasche di
lorsignori. Per quanto riguarda invece i lavoratori si dice esplicitamente
che la linea è quella di creare zone in cui i rapporti di lavoro e tutto quanto
concerne il processo produttivo siano disciplinati separatamente rispetto
gli accordi nazionali. Si parla quindi di "Contratti di programma" e di conferma
dei "Patti territoriali" già in essere e della loro estensione, mentre si
propone un forte impulso di forme non ben definite di cooperazione che dovrebbero
entrare nel sistema produttivo. Obbiettivo dichiarato è quello di dare un
forte impulso alla produttività (leggi: sfruttamento) e con essa alla crescita
della competitività. La musica non cambia: lo stato si fa carico della creazione
di una situazione favorevole ai padroni che potranno svolgere la loro azione
tranquillamente e con piena discrezionalità sullo sfruttamento della forza
lavoro facendosene un baffo dei contratti nazionali.
Le questioni della riforma del mercato del lavoro, della flessibilità e della
libertà di licenziamento sono indubbiamente quelle che i padroni hanno guardato
con maggiore attenzione e su cui hanno misurato la capacità del governo di
rappresentare le loro istanze. La modifica dell'articolo 18 che deve preludere
nel tempo a una sua definitiva abolizione ha trovato nel Patto piena soddisfazione,
anche se sotto la forma della sperimentazione che durerà fino a tutto il 2005.
In sostanza le aziende che decidono di superare la soglia dei 15 dipendenti
potranno nel corso dei prossimi 3 anni non computare nel conteggio dei propri
dipendenti i nuovi assunti, pertanto tutti (nuovi e vecchi) potranno essere
licenziati senza una giusta causa. Va detto che il non computo in via sperimentale
non è un fatto nuovo. Nel 1984 una legge stabilì di non computare i lavoratori
con contratto di formazione e lavoro, nel 1987 i gli apprendisti, nel 1991
i lavoratori con contratto di reinserimento, nel 1997 i lavoratori interinali
e nel 2000 i lavoratori socialmente utili (LSU). Tali leggi sono sempre state
precedute da accordi sindacali regolarmente firmati anche dalla Cgil del "cinese"
Cofferati. Questa vicenda parte quindi da molto lontano e ora sta giungendo
al dunque.