La crisi della Fiat e le risposte possibili .
Perché la Fiat è in crisi. La reazione operaia. I limiti delle risposte della politica e del sindacato. Di Michele Corsi. 2 novembre 2002.


I tagli della Fiat

Il 9 ottobre la FIAT chiede lo stato di crisi (passo necessario per accedere ad ammortizzatori sociali parzialmente a carico dello stato, quali cassa integrazione straordinaria e mobilità) e presenta un piano che individua 8.100 esuberi (11.000 a giugno) di cui 500 in mobilità (quelli più vicini alla pensione) e il resto in cassa integrazione a 0 ore da dicembre, su 36.000 dipendenti di FIAT auto che lavorano negli stabilimenti italiani (1). Particolarmente penalizzate Arese e Termini Imerese i cui stabilimenti sono destinati alla chiusura.

Difficile le stime dell'indotto coinvolto. Secondo La Repubblica (11/10) solo a Torino questo coinvolgerebbe circa 73.000 addetti per 1.200 aziende per un totale di esuberi compreso tra gli 11.000 e i 15.000.

Gli antecedenti

L'accordo tra Fiat e General Motors del 2000 prevedeva l'acquisizione da parte di GM del 20% della Fiat auto, con una opzione di acquisto obbligatoria su richiesta Fiat ("put") da parte di GM del restante 80% a partire dal 2004. All'epoca, Fiat e gran parte dei quotidiani parlarono di accordo "storico" che avrebbe creato splendide sinergie e rilanciato l'auto italiana.

Poi a maggio di quest'anno ecco la doccia fredda della "rivelazione" dell'enorme debito Fiat (2) e l'inizio della negoziazione con le banche creditrici, che termina a fine luglio con un "patto anticrisi" che prevede la cessione da parte di Fiat di una serie di "asset" e un prestito fortemente condizionato. Il patto deve consentire alle banche esposte di "accompagnare" la Fiat sino al momento in cui eserciterà il put, cioè cederà il settore auto alla GM (3).

Dobbiamo precisare per comprendere la dinamica della vicenda che Fiat Auto è solo una parte dell'impero Agnelli. Qui di seguito uno schema semplificato, che esclude le partecipazioni Ifil (4):

 

La dinamica recente della crisi

Giorni prima dell'annuncio di stato di crisi circolavano le prime cifre sugli esuberi. La reazione iniziale del governo e delle forze politiche era stata piuttosto blanda, ma non quella del mercato: l'8 ottobre il titolo torna ai livelli dell'85, la media mensile delle perdite del gruppo è di 140 milioni di euro. Il Corriere della Sera dopo l'incontro tra l'amministratore delegato Galateri e il ministro delle attività produttive Marzano (successivamente emarginato dalla estione della crisi) avvenuto l'8, si precipita (con la penna di M.Gaggi, il 10) ad escludere qualsiasi "salvataggio a spese del contribuente", ma, al massimo, incentivi alla reindustrializzazione, senza "veti" alla chiusura di stabilimenti.

Ma la reazione operaia, soprattutto a Termini Imerese (in quella Sicilia dove il Polo ha portato a casa il 100% degli eletti alle politiche), ma anche ad Arese e poi gli scioperi in Piemonte, spingono la destra "regionale" ad un balletto teso a mostrare ai "propri" operai, che si cerca di tutelare i loro interessi a scapito dei colleghi delle altre regioni. Fini e Cuffaro diventano i difensori di Termini, la Lega di Arese e Ghigo di Mirafiori. A quel punto, l'11 ottobre interviene Berlusconi dicendo che nella crisi Fiat il governo "farà la sua parte". Incomincia così una fase complessa della crisi dove si intersecano vari disegni e opposti interessi, e che durerà qualche giorno, ma che è di estremo interesse per comprendere le dinamiche del capitalismo.

La Fiat comincia a pressare la General Motors perché anticipi l'opzione di put che dovrebbe esercitare a partire dal 2004. La Fiat vuole liberarsi del settore auto che trascina verso il basso il resto del gruppo che invece, come vedremo, va bene. Il presidente Fiat Paolo Fresco l'11 ottobre dichiara al Wall Street Journal che la questione della cessione dell'auto a GM non è "se" ma "come, quando e a che prezzo". La dirigenza Fiat, dato che vuol disfarsi dell'auto, non ha alcuna intenzione di metterci dei soldi, e in tutti i casi se lo facesse comprometterebbe il resto del gruppo: il 18 ottobre Standard & Poor's ha dato un giudizio A (quindi positivo) su Ifil condizionato però al non esborso di capitali aggiuntivi nel "pozzo" Fiat auto.

Negli ambienti governativi intanto comincia ad essere ventilata l'idea di una entrata dello stato nel capitale Fiat (vari commentatori parlano di "modello Volkwagen") (5) insieme alle banche creditrici e alla stessa GM. Il Governatore della Banca d'Italia dà il suo via libera (Fazio: "l'intervento pubblico non e' peccato", 15 ottobre) così come Monti, commissario alla concorrenza a Bruxelles durante una telefonata con Berlusconi (il 14: "a patto che lo stato si comporti come un investitore privato"). Come risulta chiaro nell'incontro del 13 ottobre tra Fiat e Berlusconi, ciò che il governo vuol portare a casa è la garanzia della prosecuzione della produzione a Termini Imerese. Secondo La Repubblica (14 ottobre) Fresco sarebbe stato disponibile ad una cessione a costo zero della Fiat auto allo Stato in cambio della autorizzazione a dieci nuove centrali elettriche per rafforzare Italenergia, colosso elettrico (controlla Edison) in mano Fiat. Il governo pressa comunque, con Fini, perché "anche la Fiat faccia la sua parte", cioè metta soldi del resto del gruppo (o asset, si parla della Ferrari o della partecipazione in Hdp).

Ma GM fa presto conoscere il suo pensiero: il 15 dichiara che eventuali cambiamenti di controllo in Fiat farebbero decadere immediatamente l'opzione di acquisto. Lo stesso giorno svaluta enormemente la quota Fiat detenuta. Secondo il New York Times (citato dal Corriere del 17) "il motivo di una svalutazione cosi' forte del 20% di Fiat Auto è per abbassarne il prezzo nel caso GM debba acquistarne il restante 80%". Accelerare l'acquisto del resto non sarebbe conveniente per GM: perché gestire in prima persona una dolorosa ristrutturazione, quando la Fiat può ben fare il lavoro sporco? Anche il crollo del valore dell'azienda non sarebbe un dramma: il patto stabiliva l'obbligo di acquisto, ma il prezzo sarebbe stato quello del momento in cui l'opzione veniva esercitata. Infine: GM non ha interesse che lo Stato entri nel capitale: sa bene che questo avverrebbe solo dando come garanzia la non chiusura di stabilimenti considerati non produttivi. Di nuovo il New York Times: "sull'ipotesi di un intervento del governo italiano in Fiat Auto, gli analisti osservano che in linea di principio la GM è contraria perché renderebbe più difficile influire sulla sua gestione a beneficio dei propri azionisti."

E veniamo a un ulteriore attore della vicenda: le banche. Il loro interesse non coincide con quello di GM: se la Fiat va a rotoli, GM la rileva gratis, ma loro ci rimettono i crediti. Per questo le banche creditrici premono perché la Fiat venda degli asset del gruppo (mentre lo stato vorrebbe nello scambio appropriarsene per sé) in modo da diminuire il debito. La divertente locuzione che utilizzano quando propongono alla Fiat la dismissione del Toro Assicurazioni è: "allargare il perimetro delle cessioni" (23 ottobre). Le banche vogliono che si arrivi al momento della cessione alla GM in una situazione in cui la Fiat possa "vendere bene", perché i proventi poi andrebbero in gran parte girati a loro per ripianare il debito: l'interesse dei creditori è di "accompagnare il nostro maggior debitore verso l'alleanza con gli americani della GM" (Corriere, 17). Le banche sono a loro volta sotto pressione: l'agenzia di rating Fitch ha messo sotto osservazione le sei banche creditrici, e tutte e sei il 23 ottobre cadono in Borsa. Sia le banche che la Fiat dunque, dopo alcuni giorni in cui ognuno aveva giocato il proprio gioco, si ritrovano dalla stessa parte della barricata: il put rappresenta la loro ancora di salvezza, dunque l'intervento dello stato sarebbe dannoso perché farebbe saltare l'accordo con GM, si deve tirare fino al 2004 "risanando", perché solo così si può vendere bene agli americani.

Il 16 dunque i giochi sono fatti, e si chiude la breve parentesi dell'ipotetico intervento pubblico. Banche e Fiat vanno dal ministro del Tesoro Tremonti a comunicare che il piano industriale (che Tremonti afferma di non conoscere, trattandosi in effetti di un semplice programma di tagli) è l'unica strada da percorrere e che non vi è alcun bisogno di intervento statale. A questo punto il governo si tira indietro. Non ha alcuna convenienza economica e nemmeno politica ad entrare nella partita: non servirebbe ad evitare i tagli, e favorirebbe degli azionisti i cui vantaggi comunque verrebbero poi ceduti a GM. Il 17 il governo dichiara che non interverrà finché la Fiat non presenterà un piano industriale senza chiusure e la palla torna, non a caso, all'inutile Marzano che può permettersi anche qualche provocazione: "con i 2,3 miliardi di euro versati dal mio ministero alla Fiat dovremmo essere gia azionisti" (17 ottobre). Il 19 ottobre il Corriere può tirare un sospiro di sollievo e titolare: "lo stato resterà fuori dal capitale. Si può voltare pagina". Lo stesso giorno Galateri: "non c'è altro in corso salvo il put. E il put fa parte di un discorso che si potrà aprire dal 2004 al 2009. ma che non ha legami con il risanamento di Fiat auto. il cui piano di rilancio va avanti a prescindere da qualunque tipo di investimento".

Naturalmente il piano di "rilancio" con addirittura 20 nuovi modelli nel 2004 è roba buona per i polli: nel 2004 i resti della Fiat verranno mollati a GM, e punto.

Le lotte in corso

L'accordo tra Fiat e banche a luglio aveva lasciato sul terreno 3.000 esuberi, con un accordo infame firmato da Fim e Uilm che giuravano su un piano industriale che si è rivelato, a soli due mesi di distanza, una bufala.

La reazione operaia ha preceduto le dichiarazioni ufficiali della Fiat. Già il 4 ottobre c'erano scioperi ad Arese e a Mirafiori, il 7 a Termini Imerese con blocco dell'autostrada. Fim, Uilm e Fismic ferme ad aspettare le "comunicazioni ufficiali".

Con lo stato di crisi dichiarato si intensifica la mobilitazione operaia. Il 9 a Termini c'è una manifestazione di 10.000 persone e lo stesso giorno dopo l'incontro con la Fiat i tre sindacati di categoria proclamano 4 ore di sciopero per il giorno dopo. Poi l'11 sciopero unitario in tutte le fabbriche Fiat (si fermano anche Melfi e Pomigliano, non toccati dalla cassa). L'RSU di Melfi propone di rinunciare a un turno per "darlo" a Termini. La mobilitazione è più vivace ad Arese e a Termini, meno a Mirafiori, in una città depressa da due decenni di cassa integrazione e riduzione di personale. Il 14 l'Alfa di Arese sciopera di nuovo (e come sempre blocca l'autostrada) e il 17 gli operai di Termini vanno in massa a Roma dove bloccano strade, metro, stazioni. Lo stesso giorno Fim, Uilm e Fiom indicono lo sciopero generale di categoria per il 15 novembre di 4 ore e 8 per il gruppo Fiat. Il 28 di nuovo sciopero unitario a Termini e Mirafiori.

Queste lotte hanno chiaramente spinto il governo a compiere quel tentativo di intervento di cui abbiamo parlato sopra: se non avesse sospettato di poter pagare un prezzo politico troppo elevato per la sua indifferenza, non si sarebbe preoccupato affatto del problema. Ma queste lotte non sono state sufficienti ad incidere in profondità nei rapporti di forza con l'alleanza, fatta di interessi incrociati, tra Fiat, GM e banche. Per capire il perché dobbiamo compiere una digressione.

La crisi della FIAT e le sue ragioni

Sui mass media si sono date le più svariate spiegazioni sugli "errori" della Fiat. Si va dal "partito" Pininfarina seccato che la Fiat non si sia servita di lui e che sostiene che "la Fiat avrebbe dovuto puntare tutto sul design", a Fazio che ha criticato la contabilità Fiat, ecc. Ed anche a sinistra c'è il partito dei cercatori di "errori" della dirigenza Fiat: tra i tanti, Revelli che critica il fatto che la Fiat si sia globalizzata in ritardo ("La globalizzazione stracciona") mentre Andrea Fumagalli, sempre sul Manifesto, il 1° novembre critica l'assenza di una "politica industriale".

Non condividiamo nessuno di questi punti di vista. Più precisamente non condividiamo l'ipotesi dell'"errore". Esso suppone un retropensiero: che se nel capitalismo le aziende non compissero "errori" e magari disponessero della mitica "politica industriale" non ci ritroveremmo con crisi, esuberi, ecc. Non sappiamo come si chiami una società senza tagli, licenziamenti, dismissioni, concorrenza spietata, ecc. Sappiamo solo che non si chiama capitalismo, e non è, per ora, su questo mondo.

Molto più semplicemente la Fiat ha fatto una scelta, l'ha fatta molti anni fa, e l'ha fatta in base all'unica logica e all'unica morale che il capitalismo conosca: il profitto. La Fiat ha già da tempo compiuto la scelta di uscire dall'auto, perché il settore presentava una concorrenza internazionale inarrivabile per l'Italia, e i profitti ricavabili avevano un'entità inferiore a quella di altri settori. Dov'è l'errore, dal punto di vista capitalista? A noi pare invece molto logico.

Alcuni dati e alcuni commentatori intelligenti ci aiuteranno a dimostrarlo. Nel '90 la quota Fiat nel mercato italiano era del 52% (con Lancia e Alfa), oggi è al 31%. In Europa si è passati dal 14% all'8%. Un calo dunque che percorre tutti gli anni novanta. Giuseppe Turani su La Repubblica dell'11 ottobre ci ricorda che nel 1989 la Fiat aveva raggiunto il suo apogeo con il 10,7% di utile corrente sul fatturato. L'uscita di Vittorio Ghidella da Fiat Auto segna simbolicamente l'inizio della fuoriuscita dal settore e l'inizio del declino dell'auto Fiat. Romiti infatti punta decisamente sulla diversificazione. Alessandro Penati scriveva sul Corriere prima dell'accordo con GM: "in un mercato a crescente concorrenza come quello dell'auto, dove pochi colossi si contendono a livello mondiale spazi sempre più ristretti, la Fiat presto si troverà a un bivio: immettere nuove risorse nel settore automobilistico, mantenendone il controllo; oppure uscirne, per investire in settori più promettenti. Ma Fiat non è un'azienda come le altre: sarebbe indelicato parlare di vendita. Prepariamoci dunque a una più digeribile 'alleanza strategica'".

La Fiat aveva 130.000 dipendenti nell'80, calati a 90.000 a metà anni ottanta, poi a 50.000 a inizio dei 90 (12.000 quadri e impiegati vennero buttati fuori tra il '93 e il '94) per arrivare ai 36.000 di oggi. Tutto ciò corrisponde alla scelta ben precisa di mantenere l'azienda in una china di "produttiva decadenza": di non investire, ma di ridurre le spese all'osso, un'operazione di "spolpamento" dell'azienda per ricavarne risorse da gettare altrove, finché dura. Operazione del resto nella quale la Fiat è esperta: ha fatto così con l'Alfa Romeo acquistata nel 1986 (nei fatti regalata dallo Stato) pur di non vederla cedere alla Ford e l'ha progressivamente smantellata, lo stesso era accaduto con Lancia ed Innocenti.

Secondo Eurobusiness (citato da Ezio Mauro su La Repubblica del 18 ottobre): "negli ultimi sei anni Volkswagen ha speso 21 miliardi di euro per studiare i nuovi modelli, Renault 10,4, Bmw 10, Fiat appena 4,5." Per Riccardo Gallo ex vicepresidente dell'Iri e oggi consulente di Antonio Marzano, nella gestione della Fiat degli ultimi anni "si è pensato molto a migliorare l'efficienza: la produttività è aumentata molto. Basti pensare che il valore aggiunto per addetto nel 2001 è stato di 82.000 euro, superiore a quello di Ford, Psa, Chrysler e Renault. Ma a impoverirsi è stato il ciclo industriale". (Corriere Economia del 21 ottobre).

Mentre disinvestiva nell'auto, la Fiat acquisiva altrove. Solo negli ultimi anni: nel '99 Case, Kobelco e Pico e nel 2001 è entrata alla grande nel settore elettrico. Montedison, oggi controllata da Fiat con il 24,6%, è la seconda azienda del comparto dopo l'Enel. E l'indiscrezione riportata da Repubblica, che abbiamo riportato sopra, sulla contropartita chiesta da Fresco a Berlusconi (il permesso alla costruzione di dieci nuove centrali) è oltremodo significativa.

Naturalmente in questo disegno di "errori", dal punto di vista capitalista, la dirigenza Fiat ne ha fatti. Penati ad esempio sul Corriere le rimprovera di non aver dismesso prima e subito il settore auto. E per come stanno andando le cose è chiaro che i manager del gruppo devono aver sbagliato a calcolare bene i tempi. Ma si tratta di errori sui tempi: in poche parole se questi "errori" non ci fossero stati, Fiat Auto sarebbe già stata venduta prima e i suoi operai sarebbe già da un pezzo a spasso, perché questa era la decisione strategica presa dai suoi proprietari sulla base delle prospettive di profitto.

La Fiat dunque, al pari di qualsiasi azienda capitalista, si fonda sulla ricerca del profitto, del suo profitto, e da quel punto di vista ha compiuto, dieci anni fa, la scelta giusta. Solo che si tratta di una scelta, come tutte quelle dettate dal profitto, che non coincide affatto con gli interessi degli operai. I due interessi, quello capitalista e quello operaio, sono contrapposti e non c'è alcuna "gestione illuminata" da parte dei manager, nessuna splendida "politica economica" che potrebbe conciliarli. La cronaca che abbiamo fatto sopra dei giorni tra l'11 e il 16 ottobre, dimostra che ogni attore nella disputa capitalista ragiona secondo i propri precisi interessi dettati appunto dalla prospettiva del profitto, e secondo questa logica, la gran parte delle azioni sono obbligate. La sinistra e i sindacati dunque non possono sperare di cavarsela cercando di suggerire ad Agnelli & C la maniera migliore per fare il capitalista, perché Agnelli & C lo sanno già, purtroppo. Si deve agire in maniera tale da inceppare e sconfiggere quella logica. Ma è ciò che, sinistra e sindacato, come vedremo, hanno difficoltà a portare avanti.

L'assenza della politica

E qui veniamo ad una prima ragione per cui la dirigenza Fiat ha potuto impunemente portare avanti la sua strategia negli ultimi dieci anni e nell'ultimo mese: la totale assenza dell'opposizione. Nel centrosinistra Rutelli e la Margherita, semplicemente, non hanno detto nulla. Immaginiamo che per loro le decisioni prese dal gotha dell'economia non siano da discutere. Alla fin dei conti però li comprendiamo: che gliene importa? Mirafiori non è certo la loro base sociale, e neppure Termini Imerese, i loro referenti sociali sono altri.

Quella che lascia sbigottiti è, come sempre, la maggioranza DS, che, invece, ha larga parte della sua base sociale tra quegli operai. Chiamparino, che per tutta la prima fase della crisi, non si è nemmeno fatto vedere ai cancelli Fiat, è stato eletto anche da loro. Eppure Fassino è riuscito solo a balbettare ai primi di ottobre di un polo Fiat-Opel e per la sola semplice ragione che immaginava fossero questi i disegni di Agnelli. Ma quando è risultato chiaro che non lo erano, o non lo erano più, ha lasciato perdere e quando è andato a Termini Imerese non è riuscito a dire una sola parola sensata che non fosse l'auspicio che la fabbrica non chiudesse. Ma sul come impedirlo: nulla. Per il resto Fassino si è preoccupato solo di affossare la possibilità di un intervento pubblico che si era aperta tra l'11 e il 18 e che abbiamo descritto sopra. Ecco cosa diceva ai giornali il 16: "il compito dell'esecutivo non può essere quello del notaio, ma non per questo dev'essere quello di socio". Qualcuno ha capito se Fassino aveva in mente un'idea? Noi no. E, supponiamo, nemmeno i suoi elettori. I quali, dal punto di vista politico, gli unici personaggi che hanno visto agitarsi (come abbiamo visto in modo vacuo e opportunista) sono stati quelli di destra.

Non ci convince nemmeno l'ipotesi Fiom di un'entrata dello stato o delle regioni nel capitale Fiat, magari insieme a GM e banche. La semplice acquisizione di un pacchetto di azioni non garantirebbe affatto il rientro del disegno di decadenza pilotata del settore auto, visto che il pallino rimarrebbe sempre in mano a chi cerca profitto senza spendere soldi. La probabile fuoriuscita di Gm inoltre, determinerebbe un notevolissimo investimento di denaro da parte statale, che, a quel punto, non si vede perché dovrebbe lasciare la gestione ad altri. E non capiamo cosa ci vuol dire Epifani quando afferma che "sono favorevole a un ingresso dello stato ma solo come elemento di garanzia dell'interesse generale che dovrebbe servire ad accompagnare un processo di ricapitalizzazione" (La Repubblica 14 ottobre). Ci pare anche questa un'affermazione estemporanea senza valenze pratiche.

L'unica proposta ragionevole in realtà è stata quella avanzata da Fausto Bertinotti: la nazionalizzazione della Fiat. E non capiamo perché ci sia stata gente che l'ha trovata divertente. Non è una proposta rivoluzionaria, ma l'unica percorribile se si vuole salvare la Fiat. Infatti la Fiat auto, come abbiamo visto sopra, va ad essere chiusa, perché sarà consegnata già ultraridimensionata alla GM. Quindi è solo strappando dalle mani delle banche, della GM e della stessa Fiat la gestione del suo destino, che questo potrebbe mutare. Nel '76 Carli aveva pensato di trasferire la Fiat, sommersa di debiti, all'IRI. Potremmo dire con ironia: realizziamo il sogno di Carli! L'alternativa è solo una: credere sul serio al "piano industriale" della Fiat. Del resto: basta trovarlo!

Rifondazione ha presentato un emendamento alla finanziaria in cui chiede l'acquisto della Fiat al prezzo simbolico di un euro. Anche questa iniziativa è stata presa come uno scherzo. E invece non lo è affatto. Lo stesso Galateri, ridimensionandolo abbonantemente, afferma che in 25 anni la Fiat ha ricevuto da aiuti dello stato 4,5 miliardi di euro, senza contare la cassa integrazione e il regalo dell'Alfa Romeo. Secondo la Borsa la Fiat vale meno di 4 miliardi di euro (La Repubblica 19 ottobre). Beh: lo Stato non farebbe altro che riprendersi i suoi soldi. Penati sul Corriere del 21 ottobre: "oggi probabilmete Fiat sarebbe felice di vendere l'auto al valore simbolico di 1 euro, con qualche miliardo di debiti in dote". E la ragione per cui non lo fa è semplicemente dovuta alla speranza che, tagliando e ridimensionando, la GM qualche soldino nel 2004 glielo dia.

Inoltre: in tutta la vicenda della gestione della crisi che abbiamo raccontato sopra stupisce come la Fiat non solo abbia tenuto nascosti i suoi piani ai sindacati, ma persino al governo e alle banche (che se ne sono pubblicamente lamentate prima della pace di metà ottobre). Ebbene: come è possibile che la sinistra ammetta che il destino di vita di decine di migliaia di persone sia segreto? Come minimo si dovrebbe esigere la totale pubblicità dei libri contabili, delle manovre, degli accordi, dei verbali, della Fiat. Ciò va contro gli interessi Fiat? Vero, ed esattamente per questo va a favore degli interessi operai.

Quello che manca agli operai per prima cosa dunque, è una proposta di fuoriuscita dalla crisi. E questa non può che essere una: strappare la Fiat dal controllo di chi ne sta pilotando la fine.

I limiti della tattica sindacale

Su La Repubblica l'11 ottobre Eugenio Scalfari scriveva: "la crisi Fiat rischia di provocare un'esplosione di rabbia sociale estremamente pericolosa che andrà a sommarsi ad altre incertezze già presenti nella società italiana: una disoccupazione giovanile endemica nel Sud, pensioni d'anzianità a rischio, tutele fragili o addirittura inesistenti, servizi sociali senza un soldo da spendere." Duole constatare che sino ad ora questa esplosione non c'è stata. La dirigenza Fiat, le banche e il governo non stanno dormendo sonni agitati, e Berlusconi, dopo il 16, si è potuto permettere di ritirarsi dalla vicenda perché la rabbia sociale non era poi così violenta da impensierirlo. C'è qualcosa nella tattica sindacale che non va.

Non ci occuperemo ovviamente di Fim e Uilm, delle quali non scriviamo nulla per non incorrere in qualche denuncia. Ci pare però che la tattica della Fiom abbia dei limiti. Essa ha dato senz'altro sfogo alla voglia degli operai di lottare, ma non sta articolando una lotta per vincere, perché per vincere bisogna far male all'avversario. Ci spieghiamo, prima però una premessa.

Il 31 ottobre il Consiglio di Amministrazione del gruppo Fiat ha registrato il record delle perdite della Fiat auto (tra luglio e settembre: 340 milioni di euro), ma tutti gli altri settori vanno bene: l'Iveco ha dato il 14% in più di ricavi e l'8,3% di vendite in più, Fiat Avio ha aumentato l'utile operativo di 154 milioni di euro nei 9 mesi di quest'anno. Alessandro Penati sul Corriere riferisce che nella difficile congiuntura del primo semestre di quest'anno le attività industriali (auto esclusa) comprendenti aviazione, macchine agricole e per costruzioni, autocarri, automazione, servizi alle imprese, componenstica hanno prodotto 30 miliardi di ricavi e 600 milioni di risultato operativo (dati annualizzati). Penati calcola che con parametri europei (25% del fatturato o 11 volte gli utili prima delle imposte e degli oneri finanziari) queste attività valgono circa 7 miliardi. Ci sono poi 7 miliardi di partecipazioni (Italenergia, Fidis, Ferrari, ecc.), 3,5 miliardi di attivita liquide, 18,7 miliardi di crediti finanziari, ecc. Insomma: "immaginando che l'auto sia ceduta a costo zero, il totale delle attività è 36,2 miliardi di euro".

Mica male. Se pensiamo poi all'Ifil allora troviamo interessi nella carta (Burgo), nella grande distribuzione (Rinascente, Auchan), nel turismo, nella finanza…

Cosa vogliamo arrivare a dire? Che ci sembra comprensibile ma inutile fare scioperare gli operai di Termini Imerese e di Arese, perché tutto sommato, se lavorano o no, ad Agnelli poco importa. Agnelli deve essere colpito dove guadagna. Paradossalmente, ma non tanto: si deve bloccare l'Iveco per salvare Termini. Si deve fare come in Germania quando in occasione del contratto non vengono fatte scioperare tutte le fabbriche, ma solo alcune, strategiche, che ne bloccano a catena altre. E gli operai coinvolti vengono risarciti con casse di resistenza. La Fiom e la Cgil hanno la possibilità concreta di farlo, devono però mettersi nell'ottica di far perdere dei soldi ad Agnelli. E ce n'è anche per quelli che operai Fiat non sono. Il movimento no-global ad esempio potrebbe momentaneamente sospendere le sue agitazioni contro MacDonald e le campagne contro Nike e affini e concentrarsi sulle aziende che vanno bene degli Agnelli: boicottare la Rinascente ad esempio, o Alpitour.

Non vediamo all'orizzonte altre alternative. Dispiace, ma anche quella prospettata dalla segreteria del SinCobas con un intervento su Liberazione (29 ottobre) ci pare debolina: partecipare in massa al Forum Europeo di Firenze per "euopeizzare le lotte". Ma che vuol dire? E' uno slogan consolatorio, privo di risvolti concreti. Vorremmo sapere quanti sono gli operai di Termini che andranno a Firenze.

La domanda è una sola: si vuol vincere o no? Se si vuol far testimonianza si continui pure a scioperare senza obiettivi in testa e senza far danni veri e lanciamoci pure in infiammati discorsi nei seminari di Firenze. Ma se si vuol vincere si deve colpire Agnelli nel portafogli, perchè solo colpendo sul serio il profitto anche gli altri attori, GM, banche e governo, saranno costretti a intervenire. Altrimenti non cederanno.

 

NOTE

(1) Gli esuberi sarebbero così distribuiti: Mirafiori (Torino) 1.000 (su 9.900 dipendenti) e 350 tra Comau e Magneti Marelli (da luglio 1.700 lavoratori di Fiat Auto e 300 di Comau), Cassino (Roma) 1.200 (su 4.500 dipendenti), Arese (Milano) 1.000 (su 2.000), Termini Imerese (Palermo) 1.800 (su 1.900 dipendenti). Non sono toccati i 5000 lavoraotri di Pomigliano d'Arco (Napoli) e i 5000 di Melfi (Potenza).

(2) al 30 giugno i debiti finanziari lordi erano di 32.900 milioni

(3) il piano anticrisi si fondava su quattro punti: impegno a ridurre da parte di Fiat entro l'approvazione del bialancio 2002 l'esposizione finanziaria netta a 3 milardi di euro dai 6,6 originari anche attaverso dismissioni (alcune già operate il 40% di Europ Assistance andata a Generali, la Teksid alluminio andata a Jp Morgan e al fondo Questor, il 34% della Ferrari a Mediobanca), la disponibilità a sacrificare altri asset in caso di scostamento dagli obiettivi, cessione alle banche del 51% di Fidis (società di credito al consumo), rifinanziamento da 3 miliardi erogato subito dalle banche a garanzia di un aumento di capitale di pari importo da varare entro un triennio. Il prestito è così ripartito in milioni: 650 Banca Intesa, 625 Unicredito, Capitalia 425, Sanpaolo 400, Montepaschi 300, Bnl 300. Le banche hanno rilevato a un prezzo generoso il 14% di Italenergia, portando così la quota Fiat al 24,6%. La Fiat ha così incassato 1.700 milioni di euro che sono andati a ridurre il debito (cioè sono andati alle banche).

(4)

(5) Nel capitale Volkswagen il Land della Bassa Sassonia detiene il 13,7% con golden share che le dà diritto di veto (per scoraggiare investitori stranieri