La direttiva Bolkestein
Si chiama Bolkestein - dal nome del Commissario Europeo che si occupava di concorrenza e mercato nella commissione Prodi - la Direttiva con cui l'UE si appresta a dare il colpo di grazia a quel che resta del cosiddetto "modello sociale europeo" e ai diritti sociali e del lavoro, in nome della centralità degli interessi del capitale . Di Duilio Felletti. Giugno 2005.


La direttiva Bolkestein - elaborata dopo la consultazione di ben 10mila aziende europee e nessun sindacato e/o organizzazione della società civile - è uno degli obbiettivi di mobilitazione individuati dai movimenti sociali nell'ambito del Forum Sociale Europeo di Londra tenutosi lo scorso anno. Si parlò allora di una campagna a livello continentale che doveva arrivare al ritiro completo della direttiva.
Alla fine di marzo di quest'anno il presidente Barroso si è trovato sul suo tavolo questo documento per l'approvazione definitiva. Trattandosi di un documento di grande importanza la scelta fatta è stata quella di rimandare l'approvazione a dopo un'ulteriore discussione in sede di Consiglio e di Parlamento Europeo, che come sappiamo è di recente elezione.
In sostanza Barroso ha valutato che forse era il caso di aspettare un clima più favorevole, magari dopo il referendum francese sulla nuova costituzione.
Ma quello che a noi interessa in questo articolo è: capire quali sono le problematiche a cui la direttiva cerca di dare delle risposte, entrare nel merito dei contenuti della direttiva stessa e quali forme di lotta si dovrebbero intraprendere per contrastarla adeguatamente.

Un'Europa Omogenea
Oggi il problema principale che l'Europa ha di fronte per poter essere in grado di competere con le altre potenze economiche mondiali per la conquista di fette sempre maggiori di mercato (o semplicemente per non farsi portare via le proprie), è quello di dotarsi di una struttura economica il più possibile omogenea.
Non è stato sufficiente avere una moneta unica, ciò che serve veramente è fare in modo che con una determinata quantità di denaro sia possibile acquistare la stessa quantità di merci su tutto il territorio dell'UE. Occorre cioè che ogni prodotto dell'economia europea possa esibire sul mercato interno un prezzo che non si differenzi eccessivamente a seconda della zona in cui è stato fabbricato.
Non avrebbe senso infatti poter acquistare con 4€ un Kg di pane in Italia e sempre con gli stessi 4€ comprarne invece due Kg in Grecia. Una determinata quantità di denaro che corrisponde a quantità diverse di una stessa merce a seconda di dove viene acquistata, dimostra che il valore delle merci è variabile a seconda di dove queste vengono prodotte e che quindi il sistema economico non è omogeneo. Da ciò deriva che, in presenza di questa disomogeneità del valore delle merci, si sviluppi una concorrenza tra le stesse economie dell'UE per conquistare fette sempre più ampie di mercato interno. Che è la cosa che si vuole evitare per essere invece nelle migliori condizioni per affrontare lo scontro con le economie extra-UE.
Creare una struttura economica omogenea è quindi di vitale importanza per l'Europa se vuole diventare una potenza imperialista a tutti gli effetti.
Per questa ragione, in questa fase stiamo assitendo a un fenomeno di riallocazione (padroni che spostano le proprie strutture produttive in altri stati dell'Unione) di centinaia di aziende, e altre che invece restano dove sono nate solo dopo pesanti ristrutturazioni (licenziamenti) e peggioramenti delle condizioni dei lavoratori. E questo sta configurando un'Europa suddivisa per aree caratterizzate da determinate attività economiche; aree in cui quelle particolari attività vengono svolte a costi di produzione bassissimi (in particolare quello dei salari) e/o a elevati livelli di sfruttamento della forza lavoro.
Possiamo tranquillamente dire che, se nessuno creerà problemi ai manovratori, assisteremo nei prossimi anni a questo processo di omogeneizzazione dell'economia europea che procederà rapidamente quanto più rapidi saranno i trasferimenti di aziende da uno stato all'altro, con conseguente aumento della disoccupazione da una parte e un aumento dello sfruttamento con bassi salari dall'altra.
Ma, come abbiamo detto, questo processo è vitale per il capitalismo europeo se non vorrà essere schiacciato, in questo contesto fortemente globalizzato, dai capitalismi asiatici e americani.

Una legislazione omogenea del lavoro
E' possibile omogeizzare il valore delle merci producendole tutte in contesti omogenei (cioè con costo del lavoro omogeneo), ma questo fatto di per sè non significa che quindi le merci sono competitive rispetto quelle prodotte in ambiti esterni (Cina, India, ...): è un elemento necessario per evitare la guerra in casa, ma non sufficiente.
E' abbastanza intuitivo che il capitalista che produce una certa merce in uno stato dell'UE in cui il costo del lavoro è basso (ad es. la Polonia ), non riuscirà mai a esportarla e venderla poi nei paesi UE o extra-UE se in quegli stessi paesi arriva (ad esempio dal Vietnam) una merce identica (anche se contraffatta) a un prezzo dimezzato o anche solo di poco inferiore.
La scelta dei dazi doganali (caldeggiata dalla Lega Nord) non sembra praticabile, non tanto perchè contraria ai principi del neoliberismo, quanto invece perchè quello che i nostri padroni temono è che anche gli altri stati facciano altrettanto nei confronti delle loro merci.
Come sta cercando L'Europa di uscire da questa situazione che la costringe da 6/7 anni a restare al palo della crescita economica, mentre le economie asiatiche e sudamericane crescono a ritmi vertiginosi nonostante l'aumento del prezzo delle materie prime e del petrolio?
La scelta che gli organismi di direzione politica (Commissione Europea) stanno cercando di fare è quello che i governi di tutto il mondo hanno sempre fatto: assecondare la riorganizzazione del capitalismo europeo producendo un sistema di leggi e di direttive che in qualche modo rendano competitiva la merce più importante del processo produttivo: la forza lavoro.
Questo per una ragione molto semplice. Il costo della forza lavoro è nei fatti una grandezza variabile e che pertanto può essere contenuta o dilatata a seconda dell'opportunità; mentre gli altri elementi che concorrono a formare il cosiddetto "costo di produzione" (materie prime, energia, mezzi di produzione) sono fissi, o comunque non dipendono dalla volontà dei governi o dei capitalisti.
Infatti quando sentiamo Montezzemolo, o qualche suo omologo europeo, tuonare contro la concorrenza "sleale" della Cina, chiama in causa la legislazione che regola il rapporto di lavoro, troppo sfavorevole, per i paesi europei. Gli standard di sicurezza, l'assicurazione contro le malattie, l'impossibilità di licenziare, l'obbligo di fare contratti nazionali, la presenza di strutture sindacali, gli scioperi, la rigidità degli orari di lavoro, i costi dei contributi previdenziali, e chissà quante altre cose, rappresentano ai suoi occhi, elementi che si traducono in costi che i paesi emergenti concorrenti non devono sostenere. Non solo, ma anche all'interno degli stessi stati dell'UE tutte queste faccende vengono spesso trattate in modi differenziati.
Il richiamano che lorsignori fanno continuamente dalle pagine dei loro giornali (e non solo) ai governi e alle strutture europee è dupplice: da una parte chiedono, in nome "dell'unità europea" che la legislazione che regola il rapporto di lavoro sia omogenea, dall'altra, in nome "della difesa della competitività delle nostre merci", che questa legislazione porti il costo del lavoro ai livelli più bassi possibili, al punto di essere paragonabili a quelli dei paesi extra europei concorrenti.

In questa direzione sono andate, ad esempio, le direttive che hanno portato gli stati eropei a ridurre le prestazioni pensionistiche, che in Italia hanno significato: un aumento del periodo di lavoro per avere diritto alla pensione, l'abolizione sostanziale della pensione di anzianità, la riduzione della pensione a parità di contributi versati e l'introduzione delle pensioni integrative con lo scippo del TFR.
In questa stessa direzione sono andate anche la direttiva sull'orario, di lavoro di recente approvazione da parte del Parlamento Europeo, che ha dato spazio alle "Confindustrie" negli stati membri di aumentare gli orari di lavoro e di cancellare conquiste molto importanti ottenute soprattutto dei lavoratori tedeschi e francesi.

In questo contesto si inserisce la direttiva Bolkestein
La direttiva si inserisce nel progetto più complessivo di ridurre al minimo il peso economico del costo del lavoro sui costi di produzione.
Sostanzialmente nella direttiva si afferma che, se un lavoratore è assunto presso una determinata azienda, per lui valgono le leggi dello stato in cui l'azienda ha la sua sede ufficiale, anche se il predetto lavoratore presta la sua attività in uno stato diverso. Per essere ancora più chiari: se un lavoratore assunto da una azienda polacca lavora in una azienda italiana, su di lui saranno applicate le leggi vigenti in Polonia.
Per ora la Bolkestein si applicherà ai lavoratori di aziende che forniscono servizi.
Non si applicherà quindi ai cosiddetti "diretti", cioè a quei lavoratori che partecipano direttamanente alla produzione delle merci.
A questo proposito occorre non dimenticare che i cosiddetti "diretti" sono in minoranza e che invece la maggioranza è costituita dai lavoratori "indiretti", o dei servizi (impiegati, manutentori, magazzini e spedizioni, carico e scarico merci, ecc..) e quindi vi sono tutte le premesse di radicali e grossi cambiamenti delle normative che regolano i rapporti di lavoro nelle aziende.

Che si tratti di un passo indietro appare evidente, in quanto fino ad ora era diritto di ogni lavoratore (ma lo è ancora, in quanto la direttiva non è stata ancora approvata definitivamente), godere della legislazione dello stato in cui prestava la sua opera, secondo il principio di uguaglianza di diritti dei lavoratori nello stesso stato.

Le conseguenze saranno pesanti.
Si innescherà un meccanismo che porterà all'utilizzo di lavoratori dei servizi (che rappresentano la maggioranza) che risulteranno alle dipendenze di aziende con sede ufficiale in altri stati dell'UE, magari perchè "riallocate", e alla conseguente applicazione delle leggi vigenti in quei paesi, dove le tutele dei lavoratori sono al livello più arretrato possibile.
Piuttosto quindi che porre un argine alla delocalizzazione e scoraggiarla si è creato un potente incentivo per andare in direzione opposta.
Le istituzioni locali, gli ispettorati del lavoro, ma anche quelle nazionali e la stessa magistratura non potranno fare nulla anche di fronte ai più pesanti sopprusi perpetrati nei confronti dei lavoratori.
Potrà accadere, ad esempio, che un lavoratore venga licenziato anche senza giusta causa (come invece prevede lo Statuto dei Lavoratori) se l'azienda di cui è dipendente ha sede legale in uno stato dove il licenziamento individuale non necessita di giustificazioni.
Diventerà difficile per i governi nazionali, i quali saranno obbligati ad applicare la direttiva, produrre nello stesso tempo leggi che vadano a migliorare le condizioni dei lavoratori. E' più facile immaginare il contrario; che ciè saranno incentivati a peggiorare le leggi esistenti, per cercare di arginare la delocalizzazione.
Ci sono quindi tutte le premesse affinchè si vada alla estensione delle condizioni di peggior favore per i lavoratori e di miglior favore per i padroni.

Sarà comunque alla fine raggiunto l'obbiettivo dell'omogeneizzazione del sistema economico europeo e forse anche della sua maggiore competitività.

E i sindacati?
Ciò che stupisce, in tutta questa vicenda, che è iniziata mentre era Prodi il presidente della Commisione Europea (come abbiamo detto sopra, Barroso si è trovato la direttiva bell'e pronta sulla scrivania), è l'assenza dei sindacati, e che la questione è stata sollevata dal Social Forum.
E' vero che i sindacati non sono stati consultati, ma è altrettanto vero che questi non hanno fatto alcuna pressione sulle strutture europee per essere almeno ascoltati.
Ma ancora più grave è che la materia della Bolkestein non sia stata argomento di dibattito nelle istanza di base dei sindacati (RSU).
Qui siamo di fronte, come abbiamo cercato di argomentare, a una linea di intervento portata avanti dalla borghesia europea, che, lei sì, facendo pressione sulle strutture europee, cerca di mettere al centro delle scelte di politica economica generale le compatibilità capitalistiche. Cioè l'aumento della competitività, comprimendo i costi di produzione agendo sul peggioramento delle condizioni dei lavoratori, riducendone i diritti e i salari.
Non sarebbe quindi logico aspettarsi, di fronte ad un attacco generale ai lavoratori, una risposta di lotta generale dei lavoratori?
La vicenda delle pensioni e quella sulla direttiva sull'orario di lavoro ci devo insegnare qualcosa di importante.
Che cioè intraprendendo lotte, anche dure, ma solo a livello nazionale, non si hanno risultati. Si producono invece alla fine, gravi lacerazioni nei sindacati stessi, con conseguente indebolimento della forza contrattuale dei lavoratori.
Oggi non ci sono scorciatoie; è impensabile cercare di percorrere una strada di difesa del proprio orticello. Innanzi tutto perchè non si riesce; e poi perchè è proprio sbagliato sindacalmente e politicamente.
Solo un grosso movimento dal basso di tutti i lavoratori europei è in grado spingere le burocrazie sindacali a difendere gli interessi dei lavoratori, per determinare poi scelte politiche radicalmente diverse da quelle che stiamo vedendo.
D'altra parte non è una novità; tutte le più importanti leggi in difesa dei diritti dei lavoratori (lo Statuto dei Lavoratori, la legge a tutela della maternità) sono scaturite dalle lotte dei lavoratori: senza queste non sarebbe successo niente. E in tutte quelle situazioni, l'apporto dal basso è stato determinante e ha scompaginato i disegni delle burocrazie.

Anche in questo caso bisogna fare lo stesso: semplicemente bisogna pensare un po' più in grande e mettere il naso anche fuori dai nostri confini, con la convinzione che questa volta, o ci salviamo tutti insieme, o affondiamo nella m... tutti insieme.