La sindrome del governo
amico
Il gruppo dirigente della Cgil pare
colpito in forma acuta dalla “sindrome del governo amico”. Solo
questo spiega perché nell’ultimo direttivo sia stata approvata
a grande maggioranza la condivisione verso
“l’impianto complessivo” della legge finanziaria (di
Giorgio Cremaschi). Reds - Ottobre 2006
Non è normale che un sindacato si esprima come se fosse in parlamento.
Non è suo compito né concedere, né rigettare la fiducia
ai governi.
Una legge finanziaria, tra l’altro nella fase nella quale entra in parlamento,
non è un accordo sindacale. Non ha bisogno di sigle o adesioni che tra
l’altro, almeno per la Cgil, richiederebbero la ratifica da parte del
voto dei lavoratori.
Eppure, nonostante gli inviti alla cautela di importanti dirigenti dell’organizzazione,
la segreteria ha preteso questo voto di fiducia verso il provvedimento del governo.
In questo modo non solo si espone ancor di più la Cgil nella posizione
di sostegno esterno alla coalizione di centrosinistra, ma si passa sopra il
fatto che sull’impianto della finanziaria, solo qualche mese fa, il sindacato
aveva una posizione ben diversa.
Infatti all’epoca del Dpef Cgil, Cisl e Uil avevano sostenuto che era
necessaria una manovra più leggera, magari distribuita su più
anni. L’andamento reale della finanza pubblica, come ci ha ricordato Riccardo
Realfonzo, rafforza questa ipotesi. Ma essa è stata brutalmente sconfitta
dalla linea rigorista del governo.
Ora la finanziaria è di quasi 35 miliardi, mentre il sindacato confederale
auspicava una cifra molto più bassa. Perché allora rimuovere che
si chiedeva un impianto diverso, e che non lo si è ottenuto? Perché
cancellare, o rendere poco credibile, la posizione del passato?
La finanziaria compie un’opera di revisione in senso positivo, ma limitato,
delle aliquote fiscali. Però la compensa negativamente con l’aumento
della tassazione locale, con il taglio dei servizi, con l’aumento dei
contributi pensionistici. Quest’ultima misura, sommata alla “devolution”
del Tfr sui cui rischi ha scritto Roberto Pizzuti, fa sì che le risorse
del sistema pensionistico vengano utilizzate solo per far cassa nel bilancio
pubblico. Si può naturalmente sostenere che, tra il dare e avere, l’azione
sindacale abbia condizionato la manovra. Si può giudicare diversamente
l’effetto delle diverse misure, ma appropriarsi dell’impianto della
manovra significa confondere e ribaltare il senso dell’azione sindacale.
Sempre più spesso si sentono dirigenti sindacali che chiedono di farsi
carico della debolezza politica e delle contraddizioni del governo. Non possiamo
esagerare, si fa capire, altrimenti torna Berlusconi. No, non è così
che si contrasta la ripresa della destra. Nei luoghi di lavoro non c’è
un bel clima. Tante persone chiedono ai militanti e ai rappresentanti della
Cgil se per caso non operino con due pesi e due misure. Respingendo tutto quando
governa la destra, accettando troppo quando tocca alla sinistra. Magari tutti
costoro sono negativamente influenzati dalla televisione e dai giornali, ma
prendersela con le cattive capacità di comunicazione del proprio agire
non è una buona cosa. Di solito, anzi, è un segno di difficoltà
e crisi.
Proprio la debolezza del governo di fronte ai poteri forti dell’economia
e alle pressioni del liberismo europeo e internazionale, richiederebbe un sindacato
confederale capace di esercitare una pressione per lo meno eguale e contraria
a quella della Confindustria. La quale, avendo già ottenuto molto, riesce
a diffondere la favola della finanziaria sindacale, che necessariamente dovrà
essere compensata a gennaio da nuovi tagli sulle pensioni, dal consolidamento
della legge 30, da un patto sulla produttività che devitalizzi il contratto
nazionale e, soprattutto, aumenti l’orario di lavoro.
Che i lavoratori italiani, gli unici veri creditori, siano improvvisamente tornati
sul banco dei debitori, non può essere solo imputato agli equilibri della
politica o al destino cinico e baro. E’ evidente che questa situazione
è dovuta anche all’assenza di un’efficace mobilitazione sindacale,
sostituita dall’idea che la pressione delle interviste e la manovra istituzionale
siano sufficienti a ottenere il massimo possibile dal governo amico. In questo
modo non solo si snatura il senso dell’azione sindacale, che da rivendicativa
e contrattuale diventa sempre di più istituzionale e concertativa. Non
solo si cancella nei fatti la pratica della democrazia; e non a caso si firmano
sempre più accordi, o memorandum, senza farli votare da coloro che si
vogliono rappresentare. Non solo il sindacato così si istituzionalizza,
diventando sempre più debitore verso la politica della propria autorevolezza.
Ma, in questo modo non si aiuta nemmeno il governo a reggere il confronto con
chi considera bolscevismo la cauta applicazione del principio einaudiano, secondo
il quale il fisco deve correggere le ineguaglianze più brutali. L’indipendenza
del sindacato non serve solo ai lavoratori.