O con noi o contro di noi
La
questione della sicurezza nei posti di lavoro torna, di tanto in tanto, alla
ribalta, magari in occasione di qualche evento particolarmente funesto che
colpisce l'opinione pubblica per la sua gravità. Per qualche giorno
i riflettori dei media restano accesi, dopodiché si passa ad altro,
in attesa del prossimo evento funesto. Un lucido articolo che mette il dito
sulle questioni vere che nessuno vuole prendere di petto. (tratto da http://xoomer.virgilio.it/pmweb).
Reds - Marzo 2008
Qualche mese fa, dopo una grave serie di incidenti, tanto grave che persino
i giornali, il mondo politico-istituzionale e il Presidente della Repubblica
avevano dovuto occuparsi del tema della sicurezza nei luoghi di lavoro, PM
fece un comunicato nel quale ricordava che “di lavoro si muore sempre
e non solo quando ne parla la televisione”.
Ma forse è il “destino” di questa epoca, in cui la realtà
sembra esistere solo quando viene raccontata dai mass media, solo quando viene
illuminata dai riflettori della televisione. Senza televisione non c'è
realtà. O, perlomeno, la realtà resta nella penombra, oscura,
ignota, irreale. Ecco dunque che per rendere viva questa realtà di
morte, di sfruttamento, di alienazione… che è il lavoro, accendiamo
i nostri piccoli “riflettori” per tenere vigile l'attenzione di
tutti sui rischi che i lavoratori corrono ogni giorno - non solo, appunto,
quando ne parla la televisione -, e per salari da fame.
Qualche anno fa, la teologa Adriana Zarri sosteneva una tesi di questo tipo:
tanto più il lavoro è alienante, pericoloso, nocivo… tanto
meglio dovrebbe essere retribuito, dal momento che chi già ha la fortuna
di svolgere un lavoro piacevole e soddisfacente non dovrebbe aver bisogno
di essere gratificato anche con alti stipendi.
Ecco, noi viviamo in un mondo in cui tanto più il lavoro è piacevole,
tanto meglio viene retribuito (fino al punto che chi non lavora per niente,
ma sfrutta il lavoro altrui, se la spassa nel lusso); un mondo in cui, al
contrario, tanto più il lavoro è gravoso, pericoloso, nocivo,
stressante… tanto meno viene pagato. È un paradosso ? No, è
il capitalismo.
Il dato del 2006 ci parla di 1280 morti sul lavoro, 3,5 al giorno se calcoliamo
365 giorni in un anno. Ma considerando una media di giorni lavorati di 250
(50 settimane di 5 giorni) la media sale già a 5,12. E se a questi
aggiungiamo i morti non conteggiati perché “trasparenti”
alle statistiche (non denunciati, lavoro nero, spostamenti, malattie professionali…)
ecco che il dato dei morti legati al lavoro sale vertiginosamente.
Già, perché i lavoratori più sfortunati, quelli che rischiano
di più la vita perché precari o “a nero” in posti
dove non ci sono sindacati, né controlli delle ASL, dove il ricatto
del padrone e del capo è diretto, immediato, imprescindibile…
quei lavoratori non vengono neppure conteggiati nelle statistiche. Muoiono
nella realtà, ma non nella statistica. E la statistica è come
la televisione; è un “riflettore”. Se non sei nella statistica
non esisti, non conti; anzi, non vieni contato.
Ai “limiti dell'immaginazione”, verrebbe da dire, ci sono anche
i morti direttamente ammazzati.
Pensiamo, ad esempio, agli assassinii di lavoratori immigrati (soprattutto
polacchi) nelle campagne pugliesi denunciati qualche anno fa in un'inchiesta
dell'Espresso. Quelli sparivano (e probabilmente continuano a sparire) senza
tanti complimenti. Non finiscono certo nelle statistiche, visto che a malapena
si sa che esistono. Eppure sono uccisi nell'ambito di un rapporto semi-schiavile
di lavoro e vengono assassinati quando a tale rapporto tentano in qualche
modo di ribellarsi.
Pensiamo a quegli immigrati, lavoratori “in pectore”, gettati
a mare dagli scafisti per sfuggire alla Guardia Costiera.
O pensiamo alle “prostitute” che quando ricevono dallo sfruttatore
– o, per meglio dire, dalle bande di sfruttatori, c'è una “evoluzione”
anche in questo senso - solo una piccola parte del denaro “guadagnato”
in cambio dei servizi erogati, sono a tutti gli effetti lavoratrici (e lavoratori)
dipendenti. Anche lì, malattie professionali e morti (magari per ammazzamento
da parte degli “imprenditori” o dei clienti). Qualcuno dirà
che è “profano” accostare i metalmeccanici di Torino con
le “lucciole” delle nostre metropoli. Ma lo è solo per
chi non capisce che entrambi sono vittime dello stesso modo (capitalistico)
di produzione, almeno nelle forme in cui oggi si esplicano entrambi i sistemi
di sfruttamento.
Quando si contestano alle imprese e alle istituzioni i dati relativi al numero
di morti legati al lavoro spesso sentiamo rispondere che l'Italia “è
nella media europea” (vedi, ad esempio, Alberto Bombassei, vice Presidente
di Confindustria su Il sole 24 ore del 9 febbraio 2007, “Sicurezza.
Stop alla delega” o anche DatiINAIL, febbraio 2006, “Statistiche
Eurostat: una conferma per l'Italia”) . Come a dire: siamo messi “come
gli altri” e dunque il dato è “fisiologico”. E se
invece di 1300 i morti fossero 10.000, “come nel resto d'Europa”
? Andrebbe bene lo stesso ? E come mai le medie europee vanno bene come termine
di paragone quando si presume - peraltro del tutto arbitrariamente - che facciano
comodo (morti e infortuni sul lavoro) e non, invece, quando non fanno più
comodo (salario, servizi sociali…) ?
Senza contare che stiamo parlando di infortuni denunciati e l'Italia è
un paese in cui il “sommerso” è di gran lunga superiore
che negli altri paesi. Il rapporto per il 2008 dell'Eurispes riporta che:
“…l'economia sommersa nel nostro Paese ha generato nel 2007 almeno
549 miliardi di euro. Sempre secondo i calcoli dell'Istituto, il nostro sommerso
attualmente equivale ai PIL di Finlandia (177 mld), Portogallo (162 mld),
Romania (117mld) e Ungheria (102mld) messi insieme”. Si potrebbe quindi
prendere l'insieme del numero di morti e infortuni in Finlandia, Portogallo,
Romania e Ungheria e sommarli alla statistica dell'Inail, tanto per avere
un indice di grandezza della sottostima dei dati.
E il dato sul sommerso è a sua volta sottostimato in quanto, proprio
per la loro “invisibilità”, molte attività non sono
note, né quantificabili neppure in via di stima. Ma sicuramente stiamo
parlando di un dato gigantesco e di una condizione lavorativa conseguente
enormemente gravosa, sia in termini di sicurezza, che di diritti, che di salario.
Diritti, sicurezza, salario sociale (“busta paga”, TFR, pensioni,
servizi sociali…), sono elementi che si legano l'uno all'altro e che
non posso essere staccati l'uno dall'altro, così come non possono essere
disgiunti dall'analisi del costo della vita (prezzi, bollette, affitti). Come
ogni lavoratore ben sa, un aumento formale in busta paga serve a poco quando
il costo della vita cresce più di questo aumento (non è questa
l'esperienza che facciamo negli ultimi decenni in cui il tenore di vita dei
lavoratori è diminuito costantemente, sia in termini “relativi”,
ma ormai anche in termini “assoluti”?). E se i soldi mancano,
gli straordinari diventano necessari. E più si lavora, più si
è stanchi, più si rischiano gli infortuni. I lavoratori, questo,
lo sanno bene. E cosa fa il governo ? De-tassa gli straordinari in modo che
le aziende ne possano abusare a proprio piacimento.
Se ti tolgono salario e diritti perché dovrebbero lasciarti più
sicurezza e salute ? E' o non è, la sicurezza dei lavoratori, un costo
per le imprese ? E quando le imprese parlano di riduzione del “costo
del lavoro” pensiamo che si riferiscano solo alla già misera
busta paga ? E ovvio che, per “aumentare la competitività”
ovvero il profitto dei padroni, questo costo deve essere in tutti i modi contenuto.
Meglio pagare mazzette agli ispettori delle ASL perché non facciano
il loro mestiere, meglio pagare tangenti ai politici perché chiudano
un occhio e magari anche l'altro sulle norme e il loro rispetto, meglio prendersi
qualche multa “una tantum” (dato che le inadempienze nelle norme
di sicurezza non sono un reato dell'imprenditore, ma una contravvenzione)…
piuttosto che pagare fior di soldi per garantire la vita e la salute dei lavoratori.
Del resto - dice la “falsa coscienza” padronale - se dovessimo
rispettare tutte le norme non saremmo competitivi con chi, nei vari paesi
del mondo, le norme non le rispetta e quindi “usciremmo dal mercato”
con conseguente fine di ogni rapporto di lavoro. Insomma, non lo fanno per
sé, per il proprio profitto, per la propria ricchezza…; lo fanno
per noi, per non metterci sul lastrico. Benefattori.
Questi ragionamenti non sono ipotetici. Sono molto concreti. Quante volte
si è saputo di accordi tra imprese e sindacati in cui, in nome del
mantenimento dei posti di lavoro, si è ceduto su salario, diritti,
rispetto delle norme di sicurezza ?
Quante volte le imprese sono state “graziate” e i lavoratori morti
beffati due volte (cause per amianto, sostanze chimiche nocive, ecc…)
?
E poi non tutti i morti sono uguali. Ci sono anche i morti “sfigati”,
quello che muoiono durante i mondiali di calcio o durante una delle periodiche
campagne elettorali o mentre l'attenzione è rivolta ai casi di cronaca
nera (Cogne, Erba… ah, la famiglia…); di quelli, stiamo certi,
si parlerà ben poco.
E ci sono i morti “scontati”. Quelli che “si sa” che
rischiano. “Si sa” così tanto che la FIAT ha avuto la faccia
tosta di promuovere una campagna pubblicitaria in cui si vedono il portiere
Buffon (“vestito” da operaio edile) e un nuovo veicolo, entrambi
su una impalcatura, con la scritta “I migliori arrivano dove gli altri
non arrivano” (dove evidentemente “gli altri” che “non
arrivano” sono gli operai edili che “giocano” a fare gli
equilibristi sui ponteggi).
Poi, si scopre, come alla ThyssenKrupp di Torino, che la pelle si rischia
anche dove il sindacato c'è, dove ci sono i delegati, i controlli,
nella “grande impresa europea” dove lavorano gli italiani... E
allora diventa uno shock. Invece, qualche mese prima, a Fossano, sempre in
Piemonte, un mulino era bruciato ed erano morti in 5. Nessuno ne ha parlato
se non a livello locale, e poco. Tra i 5 di Fossano e i 7 di Torino la differenza
non è data dal numero. È data dalla diversa percezione dell'opinione
pubblica ed è per questa ragione che i mass media hanno tenuto spenti
i riflettori in un caso e li hanno accesi nell'altro. Così come è
diversa la percezione dell'opinione pubblica verso i 5 e più lavoratori
che ogni giorno muoiono, “mediamente”, per il lavoro: quelli sono
solo un dato, una statistica, come dicevamo all'inizio.
E all'inizio torniamo.
Il problema della sicurezza e della salute sul lavoro non è un problema
tecnico. E non è neppure un problema “politico”. E' un
problema di civiltà. Lo dice anche il Governo nelle “linee guida”
al “Testo Unico per la sicurezza”, anche se, evidentemente, il
nostro concetto di civiltà e quello governativo sono assai più
che diversi.
I lavoratori continuano a morire perché i “valori” della
ricchezza e del potere predominano su quelli della vita e della salute. Finché
il profitto delle imprese sarà un “valore” prioritario
al rispetto della vita dei lavoratori, i lavoratori continueranno a morire,
a farsi male, ad ammalarsi. E nel capitalismo, il “valore” del
profitto sarà sempre predominante su ogni altro valore: altrimenti
non vivremmo nel capitalismo che, come dice la parola, si basa sul capitale
ovvero sulla realizzazione di profitto. Questo profitto deve essere realizzato
in qualsiasi modo: se serve una guerra si fa la guerra, se serve ridurre le
norme di sicurezza, si riducono. Punto e basta. Non c'è limite ai crimini
che i capitalisti sono in grado di compiere e non ci sono limiti alle merci
che sono disposti a vendere in cambio di profitto. Se nel capitalismo si commercia
di organi di bambini del terzo mondo per fornire “pezzi di ricambio”
ai ricchi del primo mondo, figuriamoci quanti problemi morali possono esserci
a dilazionare il riempimento delle bombole anti-incendio o il controllo dei
sistemi elettrici o qualsiasi altra delle mille cose che i padroni non rispettano
per guadagnare di più e più in fretta.
Si dirà che chi commercia in organi di bambini è un criminale.
Invece, impedire loro di curarsi per il mancato rilascio dei brevetti anti-AIDS
da parte delle industrie farmaceutiche o farli giocare con le mine anti-uomo
prodotte nelle rispettabili fabbriche occidentali, quello non è criminale
? Esporre i lavoratori al rischio della salute e della vita in nome del profitto
non è, anche questo, criminale ?
Di leggi in Italia ce ne sono. Non sono adeguate, certo, ma il vero problema
è che non vengono applicate. E dunque che senso ha fare sempre nuove
leggi se neppure quelle esistenti vengono applicate ? E perché non
lo sono ? Perché se fossero effettivamente applicate le imprese sarebbero
costrette a cedere una parte dei propri profitti o, più probabilmente,
visto che i capitalisti tutto sono disposti a cedere meno che il profitto,
de-localizzerebbero in paesi in cui non si va molto per il sottile (la Nike
si sta spostando dalla Cina al Vietnam perché la Cina sta omai diventando
troppo “onerosa”…). Questa è la legge della capitalismo
globale. Ecco come questo capitalismo influenza la nostra vita quotidiana.
A questo proposito, viene da fare una riflessione. Con le pesanti de-industrializzazioni
e de-localizzazioni che si sono avute negli ultimi anni (e il trasferimento
di produzioni all'estero verso i paesi della fascia ex-“comunista”,
verso la Cina, l'India, l'America Latina, il Medio Oriente), il lavoro operaio
manuale in Italia si è parzialmente ridotto. Invece non si è
ridotto il tasso di infortuni e di morti (come ci si sarebbe dovuti aspettare);
questo significa che la diminuzione del numero di addetti a lavorazioni “a
rischio” è stato compensato dall'aumento dei ritmi e dal peggioramento
delle condizioni generali di lavoro e di sicurezza (cioè dalla nascita
di nuovi rischi).
In conclusione, se aspettiamo ASL o istituzioni, di strada, sul tema della
sicurezza e la salute dei lavoratori, ne faremo poca. Senza una mobilitazione
permanente, attiva, dei lavoratori stessi, dal basso, le cose potranno solo
peggiorare. Perché c'è un solo limite al peggioramento graduale
ed inesorabile della nostra esistenza, fuori e dentro i luoghi di lavoro:
il limite che noi lavoratori, con la nostra forza, saremo in grado imporre.
È della nostra pelle e della nostra salute che stiamo parlando. Se
riponiamo le nostre aspettative in sindacati compiacenti o politici e giudici
conniventi con le imprese vuol dire che non abbiamo capito nulla. Noi siamo
una classe e i padroni sono un'altra classe. Noi da una parte, loro dall'altra.
O con noi o contro di noi.