Tassi di interesse e salari
L'aumento
dei tassi d'interesse non difende i salari, li deprime. Il Governatore Draghi,
l'uomo sbagliato al posto giusto. di Alfonso Gianni (da "Liberazione"
del 10/7/08). Reds - Luglio 2008
Il Governatore della Banca d'Italia, Mario Draghi, non perde
davvero occasione per esternare il suo entusiasmo verso le decisioni assunte
dal suo collega della Banca centrale europea, Jean-Claude Trichet. Una simile
devozione meriterebbe forse una causa migliore di quella dell'innalzamento
del costo del denaro perseguito con ostinazione dalla Bce, ma tant'è.
Subito dopo la decisione di portare il tasso di interesse dal 4 al 4,25%,
assunta dalla Bce giovedì scorso, come questo giornale aveva facilmente
anticipato, Mario Draghi ha riempito le agenzie con un'affermazione tanto
lapidaria quanto stupefacente, secondo la quale il rialzo dei tassi favorirebbe
la difesa del valore reale dei salari.
Ieri, all'assemblea annuale dell'Abi - l'autorevole associazione dei banchieri
italiani - il Governatore è ampiamente tornato sull'argomento. Ha ripetuto
che i salari italiani sono "fermi" da un bel po' (in realtà
sono diminuiti), almeno da quindici anni, incassando su questo punto il plauso
di alcuni dirigenti sindacali, come il cislino Bonanni, quasi che si trattasse
di una grande novità e non di un dato ormai più che acquisito
nel dibattito economico.
Ma subito dopo Draghi si è scagliato contro la presunta rincorsa salari-prezzi,
insistendo che bisogna contenere l'inflazione, il che sarebbe addirittura
già avvenuto in virtù delle decisioni europee. In sostanza Draghi
ha sposato per intero la tesi più volte recentemente esposta da Emma
Marcegaglia, usando le identiche parole, quasi per togliere ogni dubbio sulla
assoluta identità di vedute con la Presidentessa di Confindustria.
E infatti anche Draghi ha ribadito che l'aumento delle retribuzioni può
derivare solo da un incremento della produttività.
La tesi del nostro è che la lotta all'inflazione condotta in quel modo
dalla Bce servirebbe proprio a migliorare il valore reale delle retribuzioni,
senza che dunque ai padroni venga chiesto di sborsare un solo soldo. Sarebbe
meraviglioso, per questi ultimi, se fosse davvero così. Ma è
più che lecito dubitarne e c'è da restare stupiti che simili
convinzioni si facciano strada in un uomo di notevole cultura economica quale
indubbiamente è il Governatore Draghi.
Una prova per contrario ci viene dalla storia degli ultimi venti anni. In
questo periodo, ed è questo uno degli aspetti qualificanti delle dottrine
e delle pratiche neoliberiste condotte dai diversi governi, si sono praticate
politiche economiche che contemporaneamente hanno prodotto scelte deflative
e di contenimento dei salari. Quindi la lotta all'inflazione, che in effetti
è scesa da due a una cifra in tutta Europa, non ha affatto prodotto
l'incremento dei valore reale dei salari, ma anzi è coesistita con
il suo contrario, la compressione e la diminuzione delle retribuzioni. La
maggiore ricchezza prodotta in questo periodo è andata a rendite e
profitti e assai meno ai redditi da lavoro. Resta del tutto indimostrata,
quindi, la tesi che la lotta all'inflazione produca di per sé un beneficio
per i salari.
Ma ciò che convince ancora meno è che la scelta di aumentare
il tasso di interesse sia un'efficace lotta all'inflazione. Come si sa la
politica della Federal Reserve americana è esattamente opposta, infatti
ha diminuito il costo del denaro, eppure i livelli inflazionistici sono simili.
La ragione per cui la politica della Bce è inefficace contro l'inflazione
è soprattutto che quest'ultima, nel caso europeo, è soprattutto
dovuta all'incremento del prezzo del petrolio e delle materie prime agricole.
E' quindi un'inflazione importata, che ha cause esterne all'Unione europea
e non si vede quindi come una manovra sui tassi della Bce possa essere realmente
influente.
La conseguenza delle decisioni di Francoforte, sono casomai opposte. Esse
provocano una contrazione generale della domanda. Si riducono così
tanto i consumi quanto gli investimenti. L'ulteriore flessione di questi ultimi
porta con sé una riduzione dell'occupazione, di cui l'inquietante aumento
del ricorso alla cassa integrazione di queste ultime settimane è un
prodromo. Questa condizione toglie spazi per una lotta per aumenti salariali,
specie in un quadro nel quale la moderazione rivendicativa è la parola
d'ordine delle centrali sindacali. In sostanza con la decisione della Bce
i salari staranno peggio e non meglio. A meno che non riprenda una lotta specifica
su questo terreno. Il che non dipende certo dalla Bce, anzi può avvenire
solo contro la Bce.
Intanto che i grandi banchieri, i dirigenti d'industria e i funzionari europei
discutono di inflazione, l'Istat ci ribadisce che per la prima volta dal 2002
i consumi degli italiani sono diminuiti in termini reali. Dell'1 per cento
per la precisione, ma la tendenza è al peggioramento. Per chi lavora
il mese continua ad accorciarsi in termini di capacità di spesa ma
non certo di ore lavorate. Prima era la quarta settimana ad essere in sofferenza,
ora anche la terza è sotto tiro. Che il problema non riguarda solo
il lavoro dipendente o i pensionati ce lo dice la Confesercenti, la quale
mostra come la diminuzione dei consumi e la ricerca di prezzi stracciati anche
per i più semplici bisogni alimentari, costringe alla chiusura i piccoli
negozi che su quel terreno non possono certo competere con la grande distribuzione.
Come si vede il problema sociale si allarga. Ma Draghi sembra non accorgersene
o non curarsene.