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Il nuovo modello contrattuale.
Cambieranno molte cose. Era quasi impensabile un arretramento per i lavoratori ancora più pesante di quello subito nel 1993; eppure ci sono riusciti. Riflettiamo e cerchiamo di capire cosa fare per tentare una controtendenza. Di Duilio Felletti. Reds - Febbraio 2009


Il nuovo assetto della disciplina contrattuale sostituisce quello in vigore dal '93. I firmatari hanno inteso creare le condizioni affinchè si potesse produrre un aumento dei salari facendo crescere nel contempo i livelli di produttività. Non siamo quindi in presenza di un accordo nuovo; infatti da decenni è ormai un fatto consolidato e condiviso sia dai sindacati che dai padroni che solo in presenza di una più elevata produttività è possibile per i lavoratori poter ottenere livelli salariali più elevati. E' proprio per queste ragioni che ad un certo punto si sono ritenuti obsoleti tutti quegli automatismi che in qualche modo tenevano legati i salari all'aumento del caro vita, e proprio per queste ragioni, progressivamente, si è ritenuto di affidare tutta la materia della difesa del potere d'acquisto alle dinamiche della libera contrattazione. L'inflazione doveva rappresentare semplicemente un vago elemento di riferimento su cui andare a sviluppare la contrattazione di categoria a livello nazionale. Ma proprio perchè fin dall'inizio era ben chiaro a tutti che i salari dovevano crescere prendendo a riferimento escusivamente la crescita dei profitti si è innescato un meccanismo progressivo che ha messo sempre più al centro la contrattazione locale (aziendale, di secondo livello) rispetto quella di categoria (nazionale, di primo livello).

L'accordo di gennaio afferma a livello di principio che l'assetto della contrattazione viene confermato su due livelli (il contratto collettivo nazionale di lavoro di categoria e la contrattazione di secondo livello), ma come vedremo, il vero obbiettivo è quello di abolire qualsiasi forma di contrattazione collettiva.

Il contratto collettivo nazionale
Come tutti i lavoratori sanno, dal 1993 il contratto nazionale viene rinnovato ogni 2 anni per quanto riguarda la parte salariale e ogni 4 per quanto riguarda la parte normativa. Gli adeguamenti salariali vengono definiti sulla base dell'inflazione programmata, con elementi correttivi alla fine dei due anni.
Questo meccanismo non ha consentito ai lavoratori di difendere il potere d'acquisto dei propri salari per due ragioni. La prima è che gli aumenti salariali contrattuali sono sempre stati dati in date prestabilite, indipendenti dal momento in cui si produceva un aumento del costo della vita; la seconda è che le quantità definite nell'ambito della contrattazione sono sempre risultate inferiori alle reali necessità, per la ragione molto semplice che è insita nelle ragioni della contrattazione (chiedo 100 ma poi devo accontentarmi di 70).
Secondo uno studio fatto dalla Cgil, questo ha comportato che nel corso di questi ultimi 10 anni i salari hanno perso 10 punti di Pil.

Ragion per cui (diciamo noi) una giusta riforma della contrattazione avrebbe dovuto da un lato fissare dei parametri precisi su cui calcolare gli aumenti salariali certi (e quindi non soggetti alla contrattazione) volti a coprire la perdita del potere d'acquisto, e dall'altro stabilire delle regole a cui attenersi per i rinnovi contrattuali che dovrebbero avere come argomento del contendere tutte le altre questioni, compresi gli aumenti salariali ulteriori finalizzati al miglioramento del potere d'acquisto.

I contenuti di questo accordo vanno invece in direzione diametralmente opposta.
Si dice che il contratto nazionale avrà durata triennale, tanto per la parte economica che per quella normativa.
Per gli aumenti il tasso di inflazione programmata verrà sostituito da un nuovo indice previsionale costruito sulla base dell'Ipca (Indice dei prezzi al consumo armonizzato, elaborato da Eurostat), depurato dalla dinamica dei prezzi dei beni energetici importati.
Il recupero dello scostamento tra inflazione prevista e reale dovrebbe avvenire entro la vigenza contrattuale.
Sono inoltre previste clausole di esenzione: in situazioni di crisi o per favorire "lo sviluppo economico e occupazionale" le parti potranno accordarsi a derogare sui singoli istituti dei contratti nazionali.

Appare evidente quindi, che ciò che i lavoratori dovranno aspettarsi per il futuro è un ulteriore calo dei propri salari reali, rivisti ogni tre anni (e non ogni due) e secondo parametri di riferimento depurati dalla voce principale che va a determinare l'aumento dei prezzi: il petrolio.

La contrattazione di secondo livello
La ragione per la quale Cisl e Uil hanno accettato questo cambiamento dei riferimenti che, nei fatti, determinano uno svuotamento del valore anche politico del contratto nazionale, è tutta dentro alla scelta strategica di dare maggior peso alla contrattazione di secondo livello (aziendale, territoriale, ecc).
Questo modo di intendere le politiche sindacali è caratteristico di quelle oganizzazioni che non hanno a cuore la crescita della coscienza collettiva dei lavoratori, che viene dal vivere esprienze importanti di lotta di classe; ma che hanno a cuore invece il rafforzamento di alcuni settori di classe lavoratrice, maggiormente in grado di ottenere migliorie salariali e normative, grazie a collocazioni favorevoli nell'ambito del mondo del lavoro.
Parliamo di sindacati che, più che difendere la classe lavoratrice nel suo insieme e darle rappresentanza, hanno scelto di riferirsi a settori di lavoratori ben identificati che, evidentemente hanno uno scarso giovamento dai contratti nazionali e molto di più dai contratti aziendali.
Parliamo di sindacati che intendono il rapporto tra lavoratori e padroni improntato sulla collaborazione e la condivisione degli obbiettivi. Parliamo, in definitiva, di sindacati corporativi e non confederali.

Ecco quindi quanto hanno deciso affinchè la contrattazione di secondo livello diventi, nei fatti, centrale e preminente rispetto quella nazionale.

Innazi tutto si conviene che, per incentivare questo tipo di accordi, vengono rese strutturali e incrementate le misure legislative che hanno reso esentasse gli elementi retributivi concordati nella contrattazione di secondo livello.
Vale a dire che il Governo si impegna a non tassare (sia ai lavoratori che ai padroni) gli aumenti contrattuali aziendali, purchè questi siano legati al raggiungimento di obbiettivi di produttività.
In secondo luogo si dice chiaramente che per definire la produttività, e quindi le rivendicazioni salariali di secondo livello, si prendono a riferimento elementi “economici” aziendali. Ma, definire il valore della produttività in relazione al raggiungimento di obiettivi di competitività e andamento economico dell’impresa, significa decidere di rinunciare a qualsiasi rivendicazione. Infatti, le imprese possono con estrema facilità modificare la propria contabilità attraverso l’aumento o la riduzione degli ammortamenti, l’aumento o la riduzione degli investimenti. Per cui alla fine il rischio per i lavoratori, che si sono impegnati a legare il proprio futuro al carro dei destini dei propri padroni, di ritrovarsi con un pugno di mosche, è molto realistico.

Controversie e rappresentanza
E' chiaro che per mettere in atto questi provvedimenti nelle singole situazioni lavorative è di estrema importanza poter fare riferimento a strutture sindacali (RSU) disciplinate e controllabili dalle strutture sindacali centrali. Non sarà più tollerabile che mentre i sindacati nazionali prendono decisioni di un certo tipo (ad esempio che gli aumenti salariali aziendali devono verificarsi in presenza di aumenti della produttività) gruppi di delegati troppo zelanti vadano in direzione diametralmente opposta o organizzino scioperi per contrastare le scelte dei burocrati nazionali. Sarà necessario definire in modo preciso chi avrà la legittimità della rappresentanza dei lavoratori.
Ecco quindi la decisione di andare a definire nei successivi accordi nuove regole in materia di rappresentanza delle parti nella contrattazione collettiva con la valutazione di diverse ipotesi (compresa la certificazione dell'Inps dei dati di iscrizione).
C'è inoltre un impegno comune a semplificare e ridurre il numero di contratti nazionali.

Per questa via è fin troppo facile prevedere che, nelle situazioni in cui non sarà possibile la certificazione delle rappresentanze, vi saranno serie possibilità che lo sciopero sarà inlegale e che le forme di lotta potranno essere duramente represse dalle forze di polizia.

La Cgil non ha firmato
E ha fatto bene. E va sostenuta nelle sue iniziative di contrasto all'accordo. Va sostenuta la richiesta di un referendum tra i lavoratori. Va sostenuto tutto ciò che serve a dare la parola ai lavoratori.
Ma qualsiasi cosa ci si apprestasse a fare, questa non deve mettere un velo sulle responsabilità che anche la Cgil ha avuto in passato e, di riflesso, continua ad avere oggi, sulla situazione che si è venuta a determinare nelle relazioni sindacali, sia con le controparti, sia nel sindacato stesso.
Ci riferiamo in particolare al sostegno che anche la Cgil ha dato alle politiche concertative (leggi accordo del 1993) che così tanto danno hanno prodotto alle condizioni di vita dei lavoratori; al sostegno che anche la Cgil ha dato ai provvedimenti legislativi che hanno aperto la strada alla precarizzazione del mondo del lavoro; al sostegno che anche la Cgil ha dato alle varie riforme pensionistiche che hanno messo in mora il futuro dei giovani lavoratori.
Sono questi i fatti che hanno reso la Cgil un sindacato estremamente debole, al punto da non ritenere più necessaria la sua firma, non solo su questo accordo, ma anche su altri stipulati negli ultimi 10 mesi (Alitalia, Scuola, Commercio, Pubblico impiego,....).
Una debolezza che si evidenzia anche nella qualità delle controposte formulate dal principale sindacato italiano; proposte molto generiche e incapaci di entrare nel merito dei problemi veri dei lavoratori e di mobilitare l'insieme della classe lavoratrice, coinvolgendo anche quei lavoratori che sono iscritti agli altri sindacati o che più semplicemente si sono allontanati dall'attivismo sindacale.

Quello che oggi occorre veramente è un sindacato nuovo, una nuova politica sindacale, una nuova qualità dell'intervento sindacale; in altre parole, mettere al centro i lavoratori.
Mettere al centro i lavoratori significa anche ammettere i propri errori del passato per poter iniziare qualcosa di nuovo. Sempre.
Mettere al centro i lavoratori significa indicare a loro il nemico. Sempre.
Mettere al centro i lavoratori significa dargli la parola. Sempre.
Mettere al centro i lavoratori significa consentire a loro di darsi la rappresentanza che ritengono più idonea. Sempre.

Se non si fanno queste semplici cose (ed è il sindacato che le deve fare) non sarà possibile fare niente su qualsiasi piano: i diritti, i contratti, gli accordi, le pensioni, ecc.. Bisogna avere il coraggio di andare contro corrente. Che cosa abbiamo da perdere?