I morti sul lavoro e di lavoro non sono mai una fatalità
In Italia ci sono più di 800 mila invalidi del lavoro e 130 mila sono le vedove e gli orfani. Per alcuni la perdita di vite umane nel processo produttivo è considerata fisiologica. Le chiamano “morti bianche”.(di Michele Michelino). Reds - Marzo 2010


Gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali sono quasi sempre il risultato di una intensificazione dello sfruttamento, di ritmi di lavoro inumani che provocano condizioni di vita e di lavoro insicuro in ambienti insalubri, a contatto con sostanze nocive e cancerogene senza adeguate protezioni per i lavoratori.
In mancanza di serie e certe sanzioni, molti datori di lavoro, che si arricchiscono attraverso lo sfruttamento degli esseri umani, quando si verificano infortuni mortali parlano dei morti sul lavoro come di “tragedie imprevedibili”. Le chiamano “morti bianche”, come se i lavoratori assassinati fossero morti per caso, senza responsabilità di nessuno, arrivando in alcuni casi a sostenere che la colpa degli infortuni sarebbe la causa della disattenzione degli operai stessi.

In Italia ci sono più di 800 mila invalidi del lavoro e 130 mila sono le vedove e gli orfani.
I datori di lavoro responsabili di questi assassini - dopo aver sfruttato fino alla morte i lavoratori risparmiando sui costi della sicurezza - da buoni “filantropi” hanno istituito la “Giornata mondiale per la sicurezza e la salute sul lavoro” per ricordare alle potenziali vittime (i lavoratori) di stare più attenti, e mentre piangono lacrime di coccodrillo continuano a fare profitti risparmiando anche sulla sicurezza.
La vita e l’umanità di certi industriali non è dettata dai battiti del cuore, ma dalla velocità con cui si accumula il capitale - sfruttando i lavoratori – e si riempie il loro portafoglio.
Per alcuni la perdita di vite umane nel processo produttivo è considerata fisiologica, al massimo un aumento dei costi dell’assicurazione INAIL. Ciò che interessa non è eliminare questa mattanza, ma di contenere il “fenomeno degli incidenti” sul lavoro, che si traduce per loro in una perdita economica.

Secondo l’ILO (l’International Labour Office), ogni giorno muoiono nel mondo più di seimila persone per infortuni e malattie professionali.
Nonostante le campagne pubblicitarie, a livello mondiale il numero dei lavoratori morti per infortuni sul lavoro e malattie professionali è sempre da bollettino di guerra.
Le malattie professionali diluiscono le morti nel tempo: per esposizione o contatto con sostanze nocive e cancerogene nel processo di produzione l’ILO stima che ogni anno perdano la vita circa 438.000 lavoratori, cifra senz’altro in difetto rispetto alla realtà.
L’amianto, in particolare, è responsabile della morte di 100.000 persone l’anno (più di 4.000 nella sola Italia), mentre la silicosi continua a colpire milioni di lavoratori e pensionati nel mondo.

Esiste una guerra non dichiarata fra sfruttati e sfruttatori in cui i morti, i feriti e gli invalidi si contano da una parte sola; gli operai, i lavoratori che producono ricchezza da cui sono esclusi. Così scriveva G. Berlinguer in "La salute nella fabbrica" edizioni Italia – URSS, Roma 1972, pag, 32: “Nel ventennio1946–1966 si sono verificate in Italia 22.860.964 casi di infortunio e di malattia professionale, con 82.557 morti e con 966.880 invalidi. Quasi un milione di invalidi, il doppio di quelli causati in Italia dalle due guerre mondiali, che furono circa mezzo milione. Mentre la media degli infortuni e malattie professionali nel ventennio 1946–1966 è stata lievemente superiore ad 1 milione di casi annui, negli anni dal 1967 al 1969 la cifra è salita ad oltre 1,5 milioni di casi e nel 1970 ad 1.650.000 casi”.

Sono passati molti anni da questo studio ma la condizione della classe operaia italiana è in continuo peggioramento.
Nella crisi si riducono i posti di lavoro, ci sono meno lavoratori occupati, diminuiscono lievemente i morti, ma in percentuale aumentano gli infortuni.
Gli incidenti sul lavoro in Italia hanno fatto più morti fra i lavoratori che fra i soldati della coalizione occidentale della 2° guerra del Golfo. L’Eurispes ha calcolato che dall’aprile 2003 all’aprile 2007 i militari che hanno perso la vita sono stati 3.520, mentre dal 2003 al 2006 in Italia i morti sul lavoro sono stati ben 5.252 e l’età media di chi perde la vita è intorno ai 37 anni. Secondo dati Eurostat (del 2005) ogni anno 5.700 persone muoiono a causa di incidenti sul lavoro.
L’OIL (Organizzazione Internazionale del Lavoro) stima che altri 159.500 lavoratori perdano la vita a causa di malattie professionali. Sommando i dati si stima che ogni 3 minuti e mezzo nell’UE ci sia un decesso per cause legate all’attività lavorativa.
Anche le malattie professionali non tabellate sono in aumento: nel 2002 erano il 71%, nel 2006 sono arrivate all’83%, mentre l’istituto calcola in 200mila gli incidenti sommersi e non denunciati.

Di lavoro si continua a morire.
Nel 2008 - per la prima volta dal dopoguerra – i dati dicono che sono diminuiti gli incidenti sul lavoro. Ci sono stati 1.120 morti sul lavoro (-7,2% rispetto ai 1.207 del 2007), ma i casi di malattia professionale denunciati sono stati 29.700 (+ 11%) rispetto all’anno precedente, 9.300 quelli riconosciuti, 5.400 malattie professionali con esiti di inabilità permanente, 280 quelli con esiti mortali. Si stima che, dove c’è lavoro “nero”, 1 su 3 incidenti non vengano denunciati, e la percentuale sale ancor più fra gli immigrati.

Questi dati ci dicono che avremmo bisogno di prevenire gli “incidenti” con leggi, sanzioni e una medicina preventiva in grado di rintracciare le cause che producono malattie e morte e di eliminarli. Purtroppo questo non succede perché non è interesse della società del profitto. In questa società gli esseri umani sono trattati come merce, come cose e la natura ridotta a qualcosa da saccheggiare selvaggiamente; da qui la causa delle “catastrofi naturali” che di naturale non hanno niente.
Una società che ha il suo fondamento nella Costituzione Repubblicana, che all’art. 32 recita “La Repubblica Italiana tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e della collettività”, arrivando a dichiarare che la stessa iniziativa privata - pur essendo libera - “non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana” (art. 41 II comma cost.) richiederebbe delle leggi, un sistema sociale e una medicina veramente al servizio degli esseri umani per prevenire.

L’amianto come tutte le sostanze cancerogene provoca danni che sono all’origine di numerosi tumori. Non esistono soglie di sicurezza o di tolleranza alle sostanze cancerogene. Anche per le altre sostanze cancerogene, sebbene sia necessario, non basta predisporre dispositivi di protezione individuali o collettivi per la riduzione del rischio, ma bisogna adoperarsi affinché il rischio sia ridotto a zero. L’esposizione alle fibre di amianto riduce l’aspettativa di vita di chi è stato esposto facendo vivere lui e la sua famiglia nel terrore di ammalarsi.
L’esposizione alle sostanze cancerogene nei luoghi di lavoro e nella società colpisce generalmente gli strati più sfruttati. Infatti, sono i più poveri che non possono pagarsi il grande clinico che rassicura e toglie almeno l’ansia di ammalarsi.

Il movimento operaio e popolare si deve battere per il rischio zero.
Deve lottare per imporlo alle associazioni padronali e allo stato. Non possiamo accettare, sotto il ricatto del posto di lavoro, di rimetterci la salute e la vita, e ipotecare il futuro alle nuove generazioni inquinando il pianeta.
Le lotte del movimento operaio, dei lavoratori e cittadini organizzati in Comitati e Associazioni hanno contribuito a rompere il muro di omertà e complicità con i responsabili di questi assassinii, facendo pressione sulle istituzioni, “costringendole” a perseguire i responsabili.
In questi anni abbiamo visto una giustizia che, spesso, difendeva solo una parte dei cittadini, quella degli industriali.
Quasi sempre vediamo governi e istituzioni (di qualsiasi colore politico) che - mentre proclamano di essere al di sopra delle parti - riconoscono come legittimo il profitto e legalizzano lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, arrivando nella migliore delle ipotesi a punire con una semplice ammenda gli omicidi e i morti sul lavoro e di lavoro.

Nel nostro paese i diritti sanciti nella Costituzione sono tuttora subordinati ai poteri forti e applicati solo se compatibili con essi. Non si può subordinare la salute e la vita umana alla logica del profitto, ai costi economici aziendali o ai bilanci dello stato. Senza rispetto per la vita umana, gli operai, i lavoratori continueranno a morire sul lavoro e di lavoro e le sostanze cancerogene presenti sul territorio, se non si eliminano, continueranno ad uccidere gli esseri umani e la natura.

“Libertà, legalità, giustizia per tutti” rimangono parole astratte, principi vuoti di significato se le classi sottomesse non hanno i mezzi economici e politici per farli rispettare.
I limiti legali imposti per legge alle sostanze cancerogene non danno nessuna garanzia alla tutela della salute. La salute è continuamente esposta a rischi. Lo vediamo con il continuo aumento dell’ inquinamento per polveri sottili e altre sostanze nelle nostre città e con il continuo superamento delle soglie.

Anni fa in Lombardia, in alcuni paesi, la soglia di atrazina nelle falde acquifere da cui si estraeva l’acqua potabile era di molto superiore ai limiti legali imposti dalla legge europea. Dato che non si poteva (o non si voleva) riportarla sotto la soglia di sicurezza e nei limiti previsti dalla legge, il legislatore ha pensato bene di risolvere il problema alzando tali limiti di legge previsti per l’atrazina nell’acqua, “legalizzando” così l’inquinamento, facendo diventare legale l’acqua inquinata.
La lotta per pretendere e imporre condizioni di sicurezza nei luoghi di lavoro e nella società riguarda tutti.
Lottare per ambienti salubri e un mondo pulito significa lottare contro chi - pur di fare soldi sulla pelle dei lavoratori e cittadini - condanna a morte migliaia di esseri umani, anteponendo i suoi interessi privati a quelli collettivi della società.

In una società civile la salute viene prima di tutto.Comitato per la Difesa della Salute nei Luoghi di Lavoro e nel Territorio