L'Ilva
compie 50 anni.
Mentre,
da Genova alla Sicilia, l’Italia è attraversata dalla rivolta
antifascista contro il governo Tambroni, a Taranto si pone la prima pietra
del IV centro siderurgico dell’Iri. Cinquant’anni il 9 luglio,
ma tentarne un bilancio, oggi, non è facile (di Antonella De Palma).
Reds – Luglio 2010 .
E’
di questi giorni la notizia dell’iscrizione nel registro degli indagati
per Emilio Riva, presidente della omonima società che 15 anni fa ha
rilevato lo stabilimento dallo Stato, suo figlio Nicola, presidente del consiglio
di amministrazione dell’Ilva, e altri due dirigenti, ritenuti responsabili
di disastro ambientale colposo, avvelenamento colposo di sostanze destinate
all’alimentazione, getto pericoloso di cose e omissione dolosa di cautele
antinfortunistiche.
C’è la raccolta di firme per un referendum consultivo che chieda
la chiusura totale dello stabilimento o perlomeno dell’area a caldo
e dei parchi minerali e che sta dividendo l’opinione pubblica e le forze
politiche della città; ci sono le rivendicazioni delle associazioni
ambientaliste e quelle della rete Alta Marea che denunciano una città
martoriata dalle emissioni di veleni; ci sono i processi per le morti sul
lavoro e quelle per amianto; c’è l’”Associazione
12 giugno” dei familiari delle vittime del lavoro che ci ricorda costantemente
in quanti hanno un parente morto o ammalato a causa del ”posto sicuro”
che l’Ilva ha garantito per qualche decennio; ci sono centinaia di lavoratori
di nuovo in cassa integrazione.
Eppure quando l’Ilva approdò a Taranto sembrò la soluzione
ai gravi problemi economici della città. La crisi dell’industria
navalmeccanica (concentrata nell’Arsenale militare e nei Cantieri navali),
apertasi nel secondo dopoguerra principalmente a causa della sua incapacità
di riconvertirsi da produzione di guerra ad altro, nel giro di poco più
di un decennio aveva fatto precipitare i livelli di occupazione e aperto la
via all’emigrazione.
Da una monocoltura a un’altra: l’acciaio fu la risposta. Nell’Italia
del boom economico della fine degli anni ’50 il mercato dell’acciaio
sembrava destinato a un’espansione senza limiti; di conseguenza l’Iri
ipotizzò la costruzione del IV centro siderurgico italiano a ciclo
integrale, il più grande, che doveva produrre più di Cornigliano,
Piombino e Bagnoli.
Taranto rispondeva a tutti i requisiti necessari per la sua installazione:
una posizione pianeggiante; un porto per l’attracco delle navi cariche
di minerali e la partenza di quelle cariche di tubi e rotoli di acciaio; acqua
di mare da utilizzare, una volta demineralizzata, per il raffreddamamento
degli impianti; una cava di calcare, necessario per la fusione del minerale;
tanta manodopera disponibile subito.
Per la costruzione fu scelta un’area a nord della città, fra
il porto e la linea ferroviaria. Seicento ettari di terreno su cui sorgevano
piccole e medie aziende agricole, espropriati ai legittimi proprietari per
far posto al progresso. Dopo il raddoppio dello stabilimento, concluso nel
1975, diventano mille e cinquecento, due volte e mezzo l’estensione
di Taranto, situati a cinque chilometri dal centro della città, ma
a poche centinaia di metri dal rione Tamburi. Ma, allora, non se ne preoccupa
nessuno. Taranto, dicono tutti, sta finalmente uscendo da secoli di «immobilità,
abbandono, rassegnazione, miseria». Ora si prospetta un’era di
sviluppo e di benessere senza fine.
Si innalzano costruzioni fino ad allora inimmaginabili, enormi: tubifici,
altiforni, acciaierie, laminatoi e poi 50 chilometri di reti stradali e 200
di rete ferroviaria, nastri per il trasporto dei minerali dal porto ai parchi,
dove si accumulano in scure colline che cominciano a spargere un polverino
rossastro sulla città e sulla campagna circostante.
L’acciaio è il re e il re fuma.
E quanto più quelle ciminiere fumano tanto più la città
si sente ricca.
Ed è ricca, economicamente ma anche culturalmente, perché l’Italsider,
così si chiama allora, gestisce un circolo culturale che porta a Taranto
la migliore produzione internazionale delle arti figurative e dello spettacolo.
Si preoccupa anche della formazione sportiva e ricreativa in genere dei suoi
dipendenti, organizza viaggi ovunque nel mondo. Una stagione come quella dell’Italsider
pubblica, da questo punto di vista, Taranto non l’ha più avuta.
Il tributo che la città paga in cambio è molto alto.
La fabbrica del progresso e della ricchezza ci impiega poco ad essere ribattezzata
”’u crepiente” dai lavoratori, il posto dove si crepa. Troppi
muoiono a causa di incidenti sul lavoro, malattie professionali, amianto.
Si ammalano anche quelli che non ci lavorano ma ne respirano l’aria,
soprattutto gli abitanti del rione Tamburi.
Sulle responsabilità della gestione pubblica per il disastro provocato
dall’Italsider/Ilva si è taciuto a lungo. Si è detto che
allora non si sapeva, che non c’era la mentalità ambientalista,
che la sicurezza sul lavoro non era pratica prioritaria. Falso. Già
nel 1964 il sindaco Conte si dichiara preoccupato dell’impatto che la
fabbrica può avere sulla salute dei cittadini e sulla qualità
dell’aria e delle acque, ma alle sue richieste di rassicurazioni l’azienda
oppone «una specie di segreto che se non è quello militare quasi
lo raggiunge».
Ci si abitua anche al fumo: guardandone la direzione sappiamo da che parte
soffia il vento e se la puzza ti investe allora è vento di terra, il
mare è bello e d’estate val la pena andarci.
Impossibile anche stabilire il numero preciso degli infortuni avvenuti là
dentro, tantomeno di quelli mortali. Secondo dati Cgil, dall’inizio
della costruzione fino al 1980 sono 130, ma altre indagini non ufficiali parlano
di oltre 300. Dopo quella data, che forse non a caso è il 1980, l’anno
che segna la sconfitta del movimento operaio e l’inizio della crisi
del sindacato di lotta, è praticamente impossibile avere dei dati,
se non cercando di ricostruirli attraverso i giornali. I morti sono sempre
più soli, casi che l’azienda vuole liquidare cercando il patteggiamento
con le famiglie, offrendo denaro e magari anche l’assunzione di un fratello,
di un figlio.
Un operaio in pensione mi racconta: «l’ultimo giorno di lavoro
io mi girai feci il segno della croce: ”sono uscito con le mie gambe”.
Il giorno dopo, se andavo con il mio tesserino, non si apriva più la
porta automatica. Vieni subito cancellato. La tua matricola sparisce. Perché
lì dentro sei un numero. Basta cambiare quello. Togli quello e metti
l’altra matricola».