L'accordo
di Pomigliano: parla Veltroni.
«Un
accordo duro, ma inevitabile» «Non ci sono ricatti, sull'assenteismo
bisogna dire la verità, come i 1.600 permessi per le elezioni 2008»
«Mettere nell'angolo la Cgil non ha nessun senso strategico per il Paese»
. Reds - Luglio 2010
Onorevole Veltroni, un giudizio su Pomigliano.
«Questo accordo mi sembra inevitabile: è molto duro, però
non avviene sotto un ricatto, bensì a causa di una condizione obiettiva
che è figlia della nostra globalizzazione diseguale. Come sempre, bisogna
mettere sul piatto della bilancia le due alternative: o si rinuncia come Paese
a 700 milioni di investimenti e a 15 mila posti di lavoro nel Mezzogiorno,
oppure ci si confronta con una sfida, sicuramente difficile dal punto di vista
delle relazioni sindacali, e si cerca di trovare il punto più alto
di equilibrio tra le esigenze dell' azienda e i diritti dei lavoratori, il
primo dei quali è diritto di sciopero. A questo proposito voglio ricordare
che la Fiat qualche anno fa sembrava sull'orlo del collasso, ora è
un azienda che ha comprato Chrysler, è un azienda in sviluppo che ha
investito in Italia molti milioni di euro, è uno dei pochi pezzi d'Italia
che invece di essere acquistata, acquista e vuole passare, in cinque anni,
da 700.000 a 1.600.000 auto prodotte nel nostro Paese. Dunque, non cimentarsi
con questa sfida sarebbe molto rischioso: così come io rifiuto l'idea
di Sacconi e di altri di trasformare questo accordo in un modello, pavento
anche il rischio che diventi un modello il contrario, cioè l'idea di
rifiutarsi pregiudizialmente di affrontare una nuova idea delle relazioni
sindacali»
C'è dibattito su questo accordo.
«Già, e provo un po' di fastidio per tutti quelli, politici o
opinionisti, che gestiscono liberamente il loro tempo di lavoro, che hanno
redditi elevati e garantiti, che in questa materia pontificano con il ditino
alzato. Fastidio, perché si parla di operai che stanno in catena di
montaggio, che si vedono ridotto di dieci minuti il tempo di pausa, di persone
di cui viene misurato lo spostamento del bacino per valutare la produttività.
E' un accordo molto pesante che il sindacato credo avrebbe dovuto affrontare
concentrandosi sulle due questioni più delicate: il diritto di sciopero
e anche le misure di contrasto dell'assenteismo sul quale, però, è
anche bene che si dicano delle verità. Quella è un'azienda in
cui il giorno delle elezioni del 2008 su 4.600 lavoratori, 1.600 si misero
in permesso perché dovevano stare ai seggi».
Un giudizio su Cgil, Cisl e Uil.
«Se fossi stato il sindacato avrei affrontato la questione come ho detto.
Perché il sindacato è più debole se, senza sedersi a
discutere, prima e insieme, già si pronunciano, di fronte a provvedimenti
del Governo, dei no e dei sì, si annunciano firme o si convocano scioperi.
Considero questo molto pericoloso per il Paese. Quando ero segretario del
Pd chiedevo ai sindacati di fare un passo avanti in direzione dell'unità
sindacale. Io penso che il giorno in cui dovessimo accettare che il sindacato
italiano è spaccato come una mela, quello sarebbe un brutto giorno
per il Paese e lo sarebbe sicuramente per il centrosinistra. Io penso che
Cgil, Cisl e Uil non debbano perdere la voglia di cercare delle soluzioni
insieme e di fare pesare la loro forza per ottenere risultati. Se le tre organizzazioni
sindacali fossero andate alla Fiat e avessero posto delle esigenze negoziali
ragionevoli credo si sarebbe potuto avere un accordo di livello superiore».
Ma la Cgil non rischia l'isolamento?
«La Cgil non è la quintessenza del conservatorismo: io ricordo
il coraggio riformista di chi ha guidato questo sindacato - da Lama a Trentin
a Cofferati e a Epifani - nella storia del risanamento finanziario di questo
Paese: mettere nell'angolo la Cgil non ha nessun senso strategico per il Paese,
naturalmente poi la Cgil deve stare dentro una sfida di innovazione. Però
vorrei dire un'altra cosa. Oggi noi parliamo degli operai di Pomigliano, ma
la vera questione sociale di cui nessuno si occupa e che per me è la
più drammatica è quella dei figli degli operai di Pomigliano
e di tutti i giovani italiani. Cresce una condizione angosciosa di precarizzazione
della vita degli esseri umani. Crescono generazioni di ragazzi che non hanno
alcuna certezza e alcuna fiducia nel futuro, che vivono di contratti temporanei
e miseri, che non mettono al mondo figli, se non in età matura, che
non hanno nessuna garanzia per le loro prospettive pensionistiche: questo
per me è il problema sociale più spaventoso del nostro Paese.
Un ragazzo su tre è in cerca di lavoro: è un dramma non misurabile.
La politica invece di discutere ogni giorno delle sciocchezze di Radio Padania
contro la nazionale o delle dichiarazioni di uno sciagurato deputato della
Lega che auspica il suicidio dei detenuti, dovrebbe parlare di questo perché
c'è un'intera generazione che ha paura del futuro. E di questo dovrebbe
occuparsi ogni minuto un presidente del Consiglio che invece da venti anni
tiene paralizzato il Paese con le sue fobie: i magistrati e la libera stampa».
Pessimista, onorevole Veltroni.
«Al contrario, il nostro è un Paese che ha una profonda malattia
che si chiama assenza di innovazione. So che la parola innovazione sembra
contraria allo spirito del tempo, ma tutto quello che noi stiamo vivendo è
figlio dell'assenza di innovazione. Il tema di Pomigliano chiama in causa
due grandi questioni: la legge sulla rappresentanza sindacale e la riforma
del Welfare State, per garantire i nuovi poveri. Su questo l'opposizione deve
sfidare il governo che non ha fatto nulla di innovativo, ha sottovalutato
la crisi e non ha capito che proprio nei momenti di maggiore difficoltà
bisogna fare le riforme più coraggiose».
Già, ma il Pd parla a più voci.
«Si ragiona come se ci fosse la politica di un tempo, pensiamo che essendo
i partiti ancora figli di sistemi ideologici compiuti ci possano essere risposte
univoche, ma non è più così, né per l'opposizione,
né per la maggioranza. L'unità monolitica non ci sarà
mai più. È bene che ci siano tante opinioni, questo non mi spaventa,
mi spaventa quando si rinuncia a discutere e soprattutto non si passa poi
a delle decisioni impegnative per tutti».
Una possibile ricetta per l'Italia.
«Io credo sia il tempo di un grande patto tra i produttori. Un patto
non per fronteggiare un'emergenza ma per un cambiamento radicale. Non si può
avere una pressione fiscale che cresce e un'evasione fuori controllo che ha
superato largamente i 100 miliardi. Bisogna ridisegnare il Welfare ricostruendo
un sistema di sicurezza sociale. Bisogna ridurre la spesa pubblica, che invece
cresce, e fare delle infrastrutture materiali e conoscitive e della rivoluzione
ambientale i motori di una nuova stagione di crescita italiana. In campagna
elettorale dissi proprio sul Corriere che gli imprenditori erano dei lavoratori
e si scatenò il putiferio, ma lo ribadisco. Un imprenditore che magari
è un ex operaio che ha messo su una piccola impresa e che sbatte la
testa tra una giustizia che ci mette anni a decidere, un sistema infrastrutturale
inadeguato e una pressione fiscale esagerata non può essere considerato,
e non è considerato, dai suoi lavoratori un nemico o un avversario:
il destino dell'uno è legato al destino degli altri e viceversa. Se
il centrosinistra vuole cambiare radicalmente il Paese deve proporre questo
patto».
Ma Berlusconi va per la sua strada.
«E nessuno dice niente se da 4 mesi il proprietario di Mediaset è
il ministro delle Comunicazioni. In quale altro Paese del mondo succederebbe
una cosa del genere? In Italia si è persa la capacità di indignazione.
Ogni giorno si scende un gradino. Non è che la barbarie arriva all'improvviso,ma
avviene per slittamenti progressivi. Perciò il centrosinistra deve
fare una battaglia a viso aperto, senza nessuna concessione alla cultura del
Pdl che infrange le regole, né all'egoismo sociale e identitario della
Lega. Un centrosinistra che facesse questo, che avesse questo coraggio, tornerebbe
a parlare al Paese».