Ma l'Italia può permettersi di lavorare
fino a 70 anni?
Speranza
di vita ed età di pensionamento,sistema contributivo, uscita flessibile.
Sempre le solite argomentazioni, basate sul nulla, per andare a una riforma
delle pensioni che ha come unico obiettivo fare cassa. (Di Angelo Marano).
Reds – Dicembre 2011
Malgrado le molte contrapposizioni, spesso strumentali, in ambito pensionistico
troppo spesso vi è carenza di analisi circostanziate.
In particolare, sull’età di pensionamento, la considerazione
che starebbe a giustificare in modo incontrovertibile la necessità
di un aumento è che, se aumenta la speranza di vita, deve allungarsi
anche la durata della vita lavorativa; altrimenti, se la speranza di vita
a 65 anni aumenterà di cinque anni in cinquanta anni, il bilancio pubblico
si dovrà caricare in media di altri cinque anni di pensione per ciascun
pensionato, con conseguente, insostenibile, aumento della spesa pubblica.
Tale argomentazione è spesso proposta come talmente evidente da non
richiedere ulteriori indagini; ma risulta inconsistente ad un’analisi
più attenta.
1) Innanzitutto, presupporrebbe che
si dia conto di quanto l’età di pensionamento è già
aumentata negli anni recenti. Cosa difficile, un po’ perché la
memoria è corta, un po’ perché i ripetuti interventi legislativi,
succedutisi a partire dagli anni ’90, richiedono di districarsi in una
complessa stratificazione di norme.
In ogni caso, considerando anche l’operare delle finestre, ovvero di
quel meccanismo per cui, una volta maturati i requisiti per il pensionamento,
un lavoratore deve continuare l’attività per un ulteriore lasso
di tempo (fino a 18 mesi), ancora nel 2000 i dipendenti potevano
andare in pensione di anzianità a 54 anni e 4,5 mesi se pubblici, a
55 anni e 4,5 mesi se privati; la pensione di vecchiaia si maturava ancor
prima dei 60 anni per le donne e dei 65 per gli uomini (fino al 1993 erano
55 e 60 anni, rispettivamente).
Nel 2012 il pensionamento di anzianità, di nuovo considerando
anche le finestre, non potrà avvenire prima dei 61 anni, così
come il pensionamento di vecchiaia per le dipendenti private, mentre il pensionamento
di vecchiaia per tutti gli altri richiederà almeno 66 anni.
Già a legislazione vigente (ottobre 2011), considerando le proiezioni
Eurostat sull’aumento della speranza di vita in Italia, nel
2026 il pensionamento di anzianità sarà possibile non
prima dei 63,5 anni e il pensionamento di vecchiaia quattro anni dopo; nel
2050 il limite di età per il pensionamento di vecchiaia sarà
superiore a 69 anni (4 anni in meno il requisito per l’anzianità).
Dunque, in 50 anni il requisito per la pensione di vecchiaia è destinato
ad aumentare di più di 5 anni per gli uomini e di 10 per le donne,
mentre quello per il pensionamento di anzianità ad aumentare di più
di 10 anni; tutto ciò, a fronte di un aumento della speranza di vita
nel cinquantennio attorno ai 5 anni.
Si potrà replicare che le età di pensionamento di partenza erano
troppo basse, e probabilmente è vero, tuttavia decidere da quale età
partire per aumentare l’età di pensionamento in linea con la
speranza di vita è arbitrario e andrebbe adeguatamente argomentato.
2) Ancora più rilevante è,
a mio parere, un’altra considerazione. Se pretendere che prolunghino
l’attività i lavoratori più senior può avere senso
in piena occupazione, diventa una strategia problematica quando è diffusa
la disoccupazione, specie se giovanile.
E’ evidente che, in questo modo, si stanno lasciando fuori dal mercato
del lavoro – o relegando ai margini – le coorti più giovani
e, tipicamente, preparate, per continuare ad utilizzare lavoratori di maggiore
esperienza ma avanti con gli anni, spesso demotivati e poco aggiornati.
Si noti, questo è un problema dell’Italia molto più che
degli altri paesi. Perché, come emerge chiaramente dai dati europei,
mentre in Germania l’80% dei lavoratori in ogni classe di età
possiede almeno un diploma di scuola secondaria superiore, non solo il dato
italiano è molto più basso, ma peggiora sostanzialmente nelle
coorti di età più avanzate, cosicché, mentre sui 25-29enni
il gap è di 15 punti (il 90% di diplomati in Germania, il 75% in Italia),
esso è superiore ai 30 punti (89% contro 58%) sui lavoratori 55-59enni.
Il caso italiano spicca, in negativo, anche rispetto a quello di Francia e
Regno Unito e anche se consideriamo, invece dei lavoratori, la popolazione
complessiva.
Dunque, costringiamo a lavorare di più individui in gran parte con
un basso titolo di studio, laddove sotto-utilizziamo le generazioni più
giovani e preparate; qui, probabilmente, potrebbe trovarsi uno degli “intoppi”
che contribuiscono all’incapacità dell’Italia di reggere
il passo con gli altri paesi. Si potrà obiettare che non è possibile,
stanti le condizioni del bilancio pubblico, né prepensionare gli anziani
né assumere i giovani; non si vuole qui argomentare in favore del dissesto
della finanza pubblica, tuttavia andrebbe riconosciuto che il problema è
rilevante per il futuro del paese; spetterebbe, invero, ai tecnici individuare
percorsi e opportune soluzioni.
3) Un ulteriore elemento che andrebbe
considerato riguarda i requisiti di pensionamento nel nuovo regime pensionistico
contributivo, cui sono soggetti coloro che sono entrati nel mercato del lavoro
dal 1995. Nel sistema contributivo, infatti, l’età di pensionamento
non dovrebbe contare. Se il sistema pensionistico restituisce semplicemente
i contributi dei lavoratori, suddividendo il risparmio pensionistico (virtuale)
sugli anni di residua vita attesi, allora dovrebbe essere concessa massima
flessibilità nell’età di pensionamento: a condizione che
si maturi un minimo, per non pesare altrimenti sulle finanze pubbliche, dovrebbe
essere a completa discrezione del lavoratore se chiedere presto una pensione
bassa o evitare di intaccare il proprio risparmio pensionistico per conseguire
una pensione più elevata.
In effetti, la riforma pensionistica del 1995 permetteva di scegliere liberamente
il pensionamento in una finestra di età 57-65 anni. Flessibilità
ormai venuta totalmente meno (salvo una irrilevante deroga fino al 2016) con
l’imposizione ai pensionati contributivi degli stessi limiti di età
che si applicano agli altri.
Invero, il principio contributivo e la flessibilità nell’età
di pensionamento sarebbero totalmente coerenti con la modellistica dominante
delle scelte individuali, laddove l’imposizione di un’età
minima di pensionamento viene generalmente attribuita all’operato di
un “dittatore benevolente”. Appare in tal senso strano che nessun
economista, fra i tanti che dell’appartenenza al filone liberale non
fanno mistero, trovi contraddizione alcuna fra tale appartenenza e il sostenere
la necessità di ulteriori aumenti dell’età di pensionamento
anche per i lavoratori rientranti nel regime contributivo.
Se quanto sopra illustrato ha un senso, perché l’aumento dell’età
di pensionamento è comunque costantemente al centro dell’agenda
politica? Perché serve a far cassa. Ma dire che l’aumento dell’età
di pensionamento serve a fare cassa individua automaticamente la ragioneria
generale dello stato quale organo di propulsione e gestione degli interventi;
ad essa spetta far quadrare i conti, conciliando in qualche modo le priorità
di governo e parlamento con il rispetto dei vincoli costituzionali e comunitari
al bilancio.
In tal senso, si fa presto a fare un conto di massima: con pensioni medie
dell’ordine di 15mila euro l’anno, se costringo 100mila lavoratori
a rinviare di un anno il pensionamento ridurrò la spesa pubblica di
1,5 miliardi di euro (anche se l’effetto sarà in parte riassorbito
col tempo). Dunque, l’aumento dell’età di pensionamento
è uno strumento che offre un sostanzioso e immediato risparmio, per
giunta apparentemente poco doloroso, giacché costringere qualcuno a
lavorare di più è cosa ben diversa dal privarlo del reddito.
Uno strumento perfettamente coerente con l’approccio proprio della ragioneria
e il cui uso, per altro, può essere reiterato all’occorrenza.
Del tutto coerente con lo stesso approccio è anche che l’aumento
dell’età venga applicata a tutti indistintamente, anche ai lavoratori
soggetti al contributivo. E coerente è anche che, qualora non vi siano
le condizioni politiche per un esplicito aumento dell’età, esso
venga nascosto nelle pieghe dei provvedimenti, com’è avvenuto,
ad esempio, con l’introduzione del meccanismo delle finestre nella riforma
del 1995 e con il loro appesantimento negli anni successivi.
Se quella descritta è la, legittima, logica ragionieristica, è
tuttavia da dimostrare che essa sola debba definire la politica pensionistica
del paese. In realtà, le pesanti controindicazioni che essa si porta
dietro suggeriscono che sarebbe indispensabile affiancarle un’adeguata
elaborazione di tipo economico. Perché, ad esempio, la logica ragionieristica
non si occupa degli effetti sulla credibilità dello stato delle continue
modifiche della legislazione e di clausole vessatorie, come quella delle finestre,
che travolgono la certezza del diritto e la capacità di programmazione
dei cittadini; in effetti, chiunque abbia a che fare con lavoratori oltre
i cinquanta anni può rendersi immediatamente conto di come il continuo
spostare l’asticella dei requisiti minimi stia non solo generando incertezze
e paure, ma anche minando la fiducia nelle istituzioni.
Perché, ancora, la logica ragionieristica può non interessarsi
all’effetto complessivo, sul livello di produttività e di crescita
del paese, oltre che sulla coesione sociale, di operazioni che hanno l’effetto
di mantenere al lavoro lavoratori anziani con bassa scolarità e tenere
fuori lavoratori giovani e qualificati; così come può non interessarsi
al se e come vengano attivati programmi di formazione e aggiornamento per
i lavoratori anziani che verranno forzatamente trattenuti al lavoro. Tutte
cose di cui, invece, sarebbe utile e opportuno si occupassero gli economisti
e discutesse la società, non per aumentare la spesa e il debito, bensì
per individuare proposte e soluzioni che possano coniugare tanto gli equilibri
di breve del bilancio che quelli di lungo, alimentando al tempo stesso le
prospettive di sviluppo del paese.