Con la modifica dell’art. 18 una falsa
reintegra.
Sostenere,
come ha fatto il responsabile economico del PD Stefano Fassina, che nel disegno
di legge uscito dal Senato il 31 maggio scorso è stato reintrodotto
il diritto alla reintegra per i licenziamenti economici non corrisponde assolutamente
a verità ( di Antonio Di Stasi*). Reds – Dicembre 2011
Il
diritto alla reintegra, così come stabilito dall’art. 18 dello
Statuto dei lavoratori del 1970, prevede che il lavoratore abbia diritto a
riprendere il suo posto di lavoro come se il licenziamento non fosse mai intervenuto;
e quindi ha diritto a percepire tutte le retribuzioni dal momento del licenziamento
all’effettiva reintegra (c.d. tutela reale).
Il comma 42 dell’art. 1 del d.d.l. in discussione alla Camera riscrive
l’art. 18 dello Statuto dei lavoratori prevedendo che «il Giudice
(nelle ipotesi in cui accerta che non ricorrono gli estremi del giustificato
motivo oggettivo) dichiara risolto il rapporto di lavoro con effetto dalla
data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un’indennità
risarcitoria». Dunque non è smentibile che anche nell’ipotesi
in cui il licenziamento economico sia illegittimo il lavoratore non avrà
più diritto alla reintegra, ma soltanto ad un’indennità.
Quelli come Fassina si riferiscono forse all’ipotesi in cui il Giudice
accerti «la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento
per giustificato motivo oggettivo»?
Ma anche in tale ipotesi quello che viene presentato come reintegrazione nel
posto di lavoro, tale non è, nel senso che attraverso uno «sporco»
gioco di parole si dà il nome di reintegra ad una fattispecie che della
reintegra non ha più nulla. Esattamente come quando a Polifemo fu detto
che a causargli la cecità era stato «Nessuno». Ed infatti,
la «reintegra» prevista dal comma 4 del nuovo art. 18 stabilisce
sì la «ricostituzione del rapporto di lavoro», ma senza
più la previsione del diritto del lavoratore a percepire tutte le retribuzioni
perse dal momento del licenziamento all’effettiva reintegra.
La lingua biforcuta del novello legislatore, infatti, ha stabilito che «in
ogni caso la misura dell’indennità risarcitoria non può
essere superiore a 12 mensilità».
Dunque, il lavoratore, anche nell’ipotesi in cui riesca a dimostrare
«lamanifesta insussistenza» del fatto posto alla base del licenziamento
(se un fatto è insussistente già di per sé, perché
aggiungere l’aggettivo «manifesta», se non per aggravare
l’onere probatorio del lavoratore?) difficilmente otterrà l’ordine
di reintegra prima che sia decorso un anno dall’intimazione del licenziamento.
Viene cioè posto a carico del lavoratore il «costo» della
durata del processo di primo grado; senza contare che è praticamente
impossibile che nel giro di poco si arrivi ad una sentenza della Corte d’Appello
o della Cassazione.
Visto dal lato del lavoratore significa che egli – pur nella «eccezionale
ipotesi» di vedersi riconosciuta la «manifesta insussistenza»
da un giudice nei tre gradi di gidizio – sa già che dovrà
restare per molti anni senza reddito e senza poterlo recuperare, inducendolo
quindi a rinunciare al suo diritto alla «reintegrazione possibile»
in cambio di una monetizzazione rapida della rinuncia al ricorso, a fronte
dell’esiguità del beneficio economico che gli deriverebbe anche
in caso di esito positivo. Detto in parole più semplici: se un lavoratore
sa che mediamente potrebbe ottenere un sentenza di reintegra nel giro di due
o tre anni, deve sapere anche che il datore di lavoro al massimo sarà
condannato a pagargli 12mensilità; e lui non avrà risarciti
gli altri due in cui è rimasto in attesa della sentenza favorevole.
Di più. Il nuovo art. 18, comma 4, prevede che va «dedotto quanto
il lavoratore ha percepito, nel periodo di estromissione, per lo svolgimento
di altre attività lavorative nonché quanto avrebbe potuto percepire
dedicandosi con diligenza alla ricerca di un nuova occupazione». In
conclusione, il lavoratore licenziato ingiustamente deve mettere in conto:
da un lato che per tre anni (come dato medio probabilistico di successo giudiziario
definitivo) non avrà la sentenza di reintegra, resterà senza
lavoro e dovrà dedurre quanto percepito nell’attesa di giustizia
attraverso un’altra attività (a quel punto necessaria per sopravvivere
fino alla sentenza); dall’altro l’indennità risarcitoria
massima che potrà spuntare sarà di dodici mensilità.
E allora che Giustizia è mai quella che, riconoscendo a distanza di
due o tre anni il diritto alla reintegra, prevede per il lavoratore un risarcimento
di poche migliaia di euro a fronte di una perdita di decine di migliaia di
euro?
Stefano Fassina e quelli come lui continuano a chiamare reintegra ciò
che reintegra non è e se non mentono a sé stessi mentono certamente
ai lavoratori.
* Professore di Diritto del lavoro nell’Università Politecnica
delle Marche