Perchè cancellare lo
statuto dei lavoratori?
La
logica economica – quella propagandata – secondo cui la maggiore
libertà di licenziamento fornisce alle imprese anche maggiore incentivo
all’assunzione e che, dunque, la ‘flessibilità’ del
lavoro va a vantaggio dei lavoratori non ha alcun fondamento e non è
verificata dai fatti (di Guglielmo Forges Davanzati). Reds - Luglio 2010.
E’ ampiamente dimostrato, sul piano teorico ed empirico,
che le politiche di ‘flessibilità’ del lavoro non accrescono
l’occupazione e tendono ad associarsi a una riduzione della quota dei
salari sul PIL. E’ poi documentato, su basi empiriche e con riferimento
all’economia europea e italiana, che le politiche di ‘flessibilità’
hanno spinto le imprese a rimanere o spostarsi verso settori produttivi ad
alta intensità di lavoro, e che a ciò ha fatto seguito una significativa
riduzione della produttività del lavoro.
E’ anche noto che una distribuzione del reddito, e dei diritti, sfavorevole
ai lavoratori non induce di per sé un aumento degli investimenti: sia
sufficiente qui richiamare il fatto che, come certificato dall’ultima
rilevazione ISTAT, gli investimenti fissi lordi in valori correnti delle imprese
non finanziarie hanno registrato, tra il quarto trimestre 2009 e lo stesso
periodo dell’anno precedente, una flessione del 15,3%, a fronte del
fatto che l’Italia si colloca al ventitreesimo posto in ambito OCSE
per livello medio delle retribuzioni ed è il Paese che ha dato maggiore
impulso alle politiche di precarizzazione del lavoro.
Per dar conto della reiterazione di provvedimenti anti-sindacali, quando questi
si sono rivelati del tutto controproducenti per gli obiettivi che si dichiara
di voler perseguire, e della loro accelerazione negli ultimi anni in Italia,
si può partire dalla constatazione stando alla quale il principale
problema strutturale dell’economia italiana consiste nella modesta crescita
della produttività. L’OCSE registra che i differenziali di produttività
fra l’Italia e gli altri principali Paesi membri sono aumentati nel
corso dell’ultimo biennio, attestandosi al 25%. E’ opportuno considerare
che la produttività cresce soprattutto a seguito dell’avanzamento
tecnico. Ma, con ogni evidenza, non è questa la strada che si intenda
percorrere, se solo si considerano i rilevanti tagli alla ricerca scientifica
voluti da questo Governo.
Questi provvedimenti trovano la propria motivazione in obiettivi diversi dal
perseguimento del pieno impiego, e sostanzialmente riconducibili a due.
>> Per un dato assetto tecnico, la produttività del lavoro aumenta
se la minaccia di licenziamento diventa più efficace e credibile. In
tal senso, il superamento dello Statuto dei lavoratori non serve ad accrescere
l’occupazione, ma semmai ad accrescere l’intensità del
lavoro, il che – è necessario rimarcarlo - si rende possibile
solo a condizione che esista un ampio bacino di disoccupati che renda efficace
e credibile la minaccia di licenziamento (o di non rinnovo del contratto di
lavoro). In tal senso, è solo se esiste disoccupazione che le nuove
disposizioni diventano pienamente efficaci. A riguardo, l’evidenza empirica
disponibile segnala che, nel caso europeo e italiano in particolare, nelle
fasi nelle quali l’occupazione è aumentata la produttività
del lavoro si è ridotta.
>> L’accelerazione che si intende dare al superamento dello Statuto
dei lavoratori risponde a un meccanismo che diventa pienamente funzionante
soprattutto nei periodi di crisi. Si tratta del fatto che la caduta dei profitti,
in queste fasi, accresce il grado di concorrenza fra imprese e, in un’economia
come quella italiana nella quale la concorrenza non si esercita sotto forma
di incrementi di produttività del lavoro derivanti da innovazioni,
la crisi determina un’ulteriore spinta a politiche di redistribuzione
del reddito a vantaggio delle imprese, e a recuperi di produttività
derivanti dall’intensificazione del lavoro, connessa, come si è
visto, alla riduzione dei diritti dei lavoratori.
Il che dà luogo a una spirale perversa. La caduta dei salari e il contestuale
aumento della produzione potenziale, in assenza di politiche fiscali espansive
(interne e su scala internazionale), rende sempre più difficile la
realizzazione monetaria dei profitti, dal momento che gli sbocchi della produzione
diventano progressivamente più esigui. E poiché la domanda di
lavoro espressa dalle imprese dipende dalle aspettative sulla domanda aggregata,
ciò non può che generare ulteriori licenziamenti o comunque
non assunzioni. Evidentemente, non si esclude che alcune imprese possano trarre
vantaggio da queste strategie, in primis le imprese di più grandi dimensioni,
collocate nelle aree più sviluppate del Paese: vi è, dunque,
motivo di ritenere che – anche per questa strada – si accelerino
i processi, già in atto, di crescente concentrazione industriale, a
danno in primis delle regioni più povere del Paese.
Resta il fatto che dal superamento dello Statuto dei lavoratori vi è
da attendersi un aumento, non una riduzione, del tasso di disoccupazione.
Michael Kalecki scriveva a riguardo: “la disciplina nelle fabbriche
e la stabilità politica sono più importanti per i capitalisti
dei profitti correnti. L’istinto di classe dice loro che una continua
piena occupazione non è ‘sana’ dal loro punto di vista
perché la disoccupazione è un elemento integrale di un sistema
capitalistico normale”.
Non sembrano riflessioni da archiviare o, al più, da relegare a chi
ama le ‘visite in soffitta’.