Stralci della relazione
di Walter Veltroni
1°
CONGRESSO DEI DEMOCRATICI DI SINISTRA
Torino-Lingotto,
13-16 Gennaio 2000
(...)
Di solito quando un partito ripensa alla sua identità sceglie la via più facile: quella della chiusura in se stesso, dell'arroccamento borioso e settario. Noi abbiamo invece cercato, e con questo congresso cerchiamo ancora, di immaginare la nuova identità della più grande forza della sinistra in due dimensioni: come profonda innovazione delle sue ragioni culturali e politiche; come grande apertura a ciò che - nella politica, nei programmi e nei valori - è altro da noi.
Per questo il nostro Congresso presenterà due innovazioni radicali: il progetto, al quale ha lavorato Giorgio Ruffolo, che diventerà impegno permanente di questo partito, come nelle grandi forze della sinistra europea; il nuovo statuto, al quale ha lavorato Franco Passuello, che contribuirà a cambiare ulteriormente il nostro modo di essere.
Settemila assemblee congressuali ci hanno portato qui a Torino. Un percorso che non sarebbe stato ciò che è stato senza l'apporto fecondo di discussione e di confronto venuto dalla seconda mozione.
Un lungo itinerario - che ha coinvolto duecentomila donne e uomini, ragazze e ragazzi, in ogni angolo d'Italia, trentamila più che nel '97 - dal quale è emersa, in modo particolarmente evidente, un'acuta e diffusa domanda di senso.
Che senso ha, oggi, nel Duemila, essere e definirsi "di sinistra"? Che senso ha chiamarsi, come noi ci chiamiamo, "democratici di sinistra"?
Il primo punto fermo dell'identità della sinistra nuova è il radicamento nella modernità. La sinistra, democratica e riformista come noi la pensiamo, è parte della modernità, è ad essa legata da un rapporto di condivisione profonda e inestricabile.
Non si può pensare la modernità senza la sinistra e non si può pensare la sinistra fuori della modernità. La scelta di Torino significa anche questo.
Torino è uno snodo simbolico nel quale si intrecciano tante delle contraddizioni con le quali la nostra ricerca di identità si confronta e si scontra in questo passaggio di secolo. Torino è una delle capitali del Nord, quel Nord Italia nel quale il cambiamento sociale e culturale è stato più rapido e accentuato ed ha portato con sé anche la crisi del nostro tradizionale insediamento politico ed elettorale.
Potremmo dire che Torino è il simbolo della modernità come problema per la sinistra e come sfida a ripensarsi, a ricollocarsi in una società profondamente e rapidamente mutata.
(...)La modernità è conflitto, oltre che dialogo. E in un conflitto è necessario schierarsi. Per questo la sinistra nella modernità deve starci, sempre, con un suo punto di vista, facendosi parte nel conflitto che la attraversa, pena lo smarrirsi, il trasformarsi in un puro contenitore senz'anima.
La sinistra è radicamento nella modernità, ma è anche, per usare un'espressione cara a Norberto Bobbio, lotta per l'uguaglianza.Questo è il punto di vista della sinistra.
Il punto di vista di chi è sottomesso, calpestato, sfruttato, vilipeso, violentato. Il punto di vista di chi ha meno ricchezza e meno potere, talvolta né ricchezza, né potere.Il punto di vista di chi vive le enormi diseguaglianze che separano tra loro le donne e gli uomini del nostro tempo come uno scandalo intollerabile.
Il punto di vista di chi si batte perché la modernità assuma le caratteristiche di una società di persone egualmente libere.
E' per dire questo che abbiamo scelto come slogan del nostro Congresso la scritta che si trovava nella piccola stanza in cui il priore di Barbiana insegnava a leggere e a scrivere ai figli dei poveri.I care, quello che don Lorenzo Milani definì "il motto intraducibile dei giovani americani migliori, il contrario esatto del motto fascista me ne frego".
I care: me ne importa, mi sta a cuore, mi riguarda, me ne occupo. Perché so che posso e dico che devo. Perché so che questo è il senso dell'esistenza.
Sì care compagne e cari compagni, ciò che mi preoccupa è che ogni tanto noi trasmettiamo alla società come l'impressione di sentirci appagati. E invece lo scandalo della disuguaglianza ci deve riguardare, ci deve interrogare.
E' questa consapevolezza che fa di noi, donne e uomini, ragazze e ragazzi che siamo qui, delle persone che si sentono e si definiscono "di sinistra". Vorrei che insieme ritrovassimo la bellezza di questa appartenenza, l'intensità, persino esistenziale, di questo "punto di vista".
Il punto di vista di chi sa che è la globalizzazione, che sono i processi che ad essa sono legati, il terrenostorico nuovo su cui scendere, lottare, agire. La globalizzazione non è una scelta. La globalizzazione c'è. E' una realtà. Sono una realtà la mondializzazione dei mercati, l'integrazione dei sistemi economici a livello continentale, gli effetti della nuova rivoluzione scientifica e tecnologica. Ed è una realtà carica di possibilità positive. Ma comincia ad essere sempre più reale, ed è un bene, anche la presa di coscienza del fatto che il mercato globale ha bisogno di controlli e di regole, capaci di dare il segno ai cambiamenti che attraversano il nostro tempo, di minimizzarne i rischi e massimizzarne le opportunità.
All'indomani della conferenza Wto di Seattle, Edgar Morin ha scritto, su "Le Monde", di quanto sia importante l'affermarsi di una "politica di civilizzazione" in grado di farsi carico di tutti gli aspetti legati alle accelerazioni impresse dallo sviluppo economico, dalle nuove tecnologie. Seattle, con il fallimento delle trattative e l'asprezza delle proteste, dimostra che l'economia globale richiede una politica globale, capace di costruire una nuova armonia tra la globalizzazione dei mercati e quella delle speranze e delle paure dei cittadini. E', in una parola, la dimensione umana della globalizzazione. E' il problema del rapporto tra globalizzazione e qualità della vita. Ciascuna generazione ha avuto, nel corso del Novecento, il suo problema particolare: concludere una guerra, estirpare la discriminazione razziale, migliorare le condizioni dei lavoratori.
Noi abbiamo oggi - e i giovani avranno domani - il compito di muoverci nel mondo avendo come missione la dignità dell'uomo quale individuo, la tutela e l'affermazione dei suoi diritti fondamentali, il riconoscimento del valore supremo della sua vita, unica e irripetibile. Questa è la frontiera che abbiamo davanti, verso cui dobbiamo tendere. Ci muoviamo forti di una nuova visione internazionale, con la consapevolezza che una conseguenza dell'era dell'informazione è davvero quella che è stata chiamata "la morte della distanza".
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Dove diavolo è la sinistra, cosa diavolo è la sinistra, se di fronte a tutto questo volta le spalle, fa finta di nulla, parla d'altro? Lottare contro la povertà, contro la fame nel mondo, vuol dire essere idealisti? Significa inseguire obiettivi astratti? Già nel 1975 c'era chi sosteneva la necessità e l'importanza di "comprendere i più vari aspetti dello sviluppo economico e civile dell'intera umanità", chi immaginava un nuovo modo di pensare la convivenza fra le nazioni e la risoluzione dei problemi che si ponevano di fronte alla comunità internazionale, chi pensava all'ipotesi di un "governo mondiale" che fosse "espressione del consenso e del libero concorso di tutti i paesi".
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abbiamo lasciato alle nostre spalle il secolo nel quale la dialettica della modernità si è fatta più drammatica, persino paradossale. Il secolo delle conquiste spaziali e della bomba atomica, della rivoluzione femminile e dei fondamentalismi, della fame e dell'obesità, della democrazia e dei totalitarismi, dei diritti umani e dei campi di sterminio.
E' stato anche, il Novecento, il secolo del comunismo.
Durante i giorni del dossier Mitrokhin ho scritto un articolo, proprio per il giornale di questa città, in cui ho sostenuto, con una voluta radicalità espressiva, argomenti sui quali tra di noi non vi sono, non vi possono essere, non vi potrebbero essere differenze.
Qualcuno ha pensato che io, con quella frase, volessi cancellare frettolosamente le orme del passato o liquidare, di un fiato, la storia di milioni di donne e di uomini che si sono, in Italia, detti comunisti.
Ci vorrebbe, per far questo, una misura di cinismo, furbizia, spregiudicatezza interiore che mi sono estranee. Solo uno stupido o un reazionario fanatico potrebbe negare una verità della quale non noi ma il Paese intero può essere orgoglioso: erano comunisti italiani migliaia di donne e di uomini morti durante la Resistenza per restituire al nostro Paese le libertà perdute; ed era con le bandiere rosse nel cuore che migliaia di italiani sono stati perseguitati e condannati nelle carceri fasciste. Attraverso l'antifascismo e le grandi lotte unitarie dei lavoratori, delle donne, dei giovani, i comunisti, insieme alle altre forze democratiche e di sinistra, hanno fatto crescere e talvolta perfino rinascere la libertà e la stessa dignità umana. Quando invece sono potuti andare oltre quelle che venivano definite, al plurale, "le libertà borghesi" e hanno potuto affermare o imporre il comunismo come sistema politico, hanno finito col negare la libertà e i diritti fondamentali.
Nel passaggio da ideale di giustizia e di solidarietà alla sua concreta realizzazione il comunismo si è allora trasformato in una delle più grandi tragedie del Novecento. Per chi, come noi, non abbia una cultura puramente idealista, il rapporto, in politica, tra le idee e la loro concreta realizzazione non può essere considerato una variabile di poco conto.
Milioni di uomini, nell'Europa dell'Est dominata dal comunismo, hanno perduto la libertà individuale e collettiva che avevano riconquistato, tra immensi sacrifici, liberandosi dall'oppressione nazista. Milioni di uomini non hanno mai potuto organizzare un partito politico vero, un sindacato, dar vita a giornali liberi, indire uno sciopero o convocare una manifestazione politica, scrivere libri che non piacessero al regime.
Chi ha tentato di farlo ha conosciuto le invasioni dei carri armati e repressioni sanguinose. Il sacrificio dei martiri dell'Ungheria, dei protagonisti della Primavera di Praga, di Ian Palach, dei morti dell'Ottantanove, sta lì a dimostrarcelo. Come stanno a dimostrarcelo gli orrori della Cambogia di Pol-Pot o la persecuzione da parte cinese del popolo tibetano.
Ecco perché non ci sono, non possono esservi, frasette ambigue, doroteismi verbali, ambiguità di comodo tra noi. Per questo ribadiamo che nel Novecento, nella sua concreta realizzazione storica, il comunismo è stato incompatibile con la libertà.
E' d'altra parte questa la frase che è contenuta nel documento conclusivo del congresso di Parigi della Internazionale socialista. Non ci si può sentire parte integrante di quella famiglia se si hanno ancora inspiegabili timidezze su questo giudizio storico e politico.
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Noi siamo già oggi il luogo politico, in Italia, in cui più culture e sensibilità tra loro differenti si incontrano, si mischiano, si contaminano. Culture democratiche, riformiste. E la maggioranza degli iscritti al nostro partito non ha conosciuto la storia del Pci. E' venuta alla politica dopo. O è venuta a questo partito seguendo altri percorsi.
Per questo, quando parliamo del nostro passato smettiamo di parlare al singolare della "nostra storia" e parliamo invece, con grande e nuovo orgoglio, al plurale, delle "nostre storie". Qui sta il valore del Congresso di oggi. Siamo ben oltre l'approdo di Firenze di due anni fa.
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Far diventare il riformismo maggioritario: fu la sfida perduta di chi, talvolta in dialogo, talvolta in polemica con il Pci, sostenne quelle idee. Fu la sfida perduta di Carlo Rosselli, di Giustizia e Libertà, di Ferruccio Parri, di Ugo La Malfa, di Pietro Nenni.
Sfida perduta come lo fu quella per affermare l'idea di un "socialismo liberale".
Nel corso di quest'anno abbiamo più volte rivisitato quel filone fecondo del pensiero socialista italiano. E siamo tornati non per caso a ragionare sul lavoro politico e teorico di Carlo Rosselli, antifascista, socialista, martire del fascismo. Rosselli cercò di sostenere, negli anni Venti e Trenta, una nuova cultura politica.
Penso al passaggio, presente nella sua elaborazione, dal concetto di uguaglianza a quello di opportunità. Penso alla modernità di chi sosteneva la necessità di "assicurare a tutti gli umani una uguale possibilità di vivere la vita che sola è degna di essere vissuta, di svolgere liberamente la loro personalità".
La libertà condivisa, l'uguaglianza come pari opportunità, l'incontro tra liberalismo e socialismo. Queste idee sono divenute, oggi, l'esperanto della nuova sinistra, del nuovo centrosinistra europeo.
Queste idee, nella sinistra italiana, non sono mai state maggioritarie o egemoni. Anzi, esse sono state duramente e aspramente combattute.
Non si possono non ricordare, pur immergendole nell'asprezza del conflitto politico e ideologico di quegli anni terribili, le parole con cui Palmiro Togliatti definì Carlo Rosselli un "dilettante dappoco, privo di ogni formazione teorica seria" e il suo libro Socialismo liberale un "mediocre libello che si collega in modo diretto alla letteratura politica fascista".
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Il grande compito che abbiamo davanti è quello di portare il riformismo del Novecento all'incontro con le nuove culture dalla società di questo tempo. Senza ideologia possiamo farcela. Senza ideali non potremmo farcela. Sapendo che le culture politiche vere, quelle non ideologiche, sono plurali.
Eravamo in pochi, solo qualche anno fa, a insistere sulla necessità di trovare, a livello internazionale, nuove vie di comunicazione tra la famiglia socialista e le altre culture riformiste di sinistra o di centrosinistra.
Allora sembrava un'eresia.
Il recente Convegno di Firenze ha confermato che esistono linee, piattaforme, contenuti comuni alle diverse anime del riformismo mondiale.
E che questa è per noi, per le nostre sfide del XXI secolo, un'opportunità, una grande opportunità, non certo un problema. Non c'è da stupirsi, dunque, se la nostra identità collettiva di democratici di sinistra è già oggi, e sempre più diventerà domani, un'identità plurale. Vivono in noi itinerari intellettuali e politici dai quali sta emergendo - in modo non artificioso e quindi con la gradualità che processi culturali come questi richiedono - una comune, condivisa visione della politica e del suo rapporto con le sfide del nostro tempo.
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A cominciare dal lavoro. Da questa straordinaria esperienza umana, il lavoro come creazione - un tema sul quale ha scritto pagine memorabili, in dialogo col giovane Marx, il primo papa operaio della storia, Karol Wojtyla - e come degradazione dell'uomo a forza fisica, a strumento, a merce, annichilito nella sua dignità e nella sua soggettività.
E di nuovo, a partire da questo abisso di negazione, la grande storia del riscatto dei lavoratori, donne e uomini che attraverso la forza della solidarietà, si rimettono in piedi, drizzano la schiena, scoprono la possibilità di smettere di parlare al padrone col cappello in mano, scoprono il loro diritto ad essere riconosciuti nella loro dignità.
La storia, insomma, del movimento dei lavoratori. E la storia delle socialdemocrazie europee, artefici della costruzione dello Stato sociale.
Del liberalismo democratico abbiamo fatto nostra, in modo irreversibile, la cultura dei diritti umani, il valore universale della democrazia, la centralità del tema della libertà, la considerazione dell'individuo, il valore dell'inclusione, l'accettazione senza riserve dell'economia di mercato, la valutazione positiva della competizione e anche del conflitto, insieme all'importanza delle regole, delle procedure, delle forme.
Dai movimenti delle donne abbiamo imparato il valore della differenza, di genere ma non solo di genere, più universalmente di cultura, fino a scoprire il carattere unico e irripetibile di ogni persona, con la sua storia e il suo vissuto.
E poi il rifiuto della fissità dei ruoli, nella famiglia come nella società, e la sostituzione dell'idea di destino con quella di progetto, una nuova visione dell'etica, che preferisce il dubbio alla certezza, la ricerca alla presunzione della verità, il principio di libertà e responsabilità a quello di autorità.
Dai movimenti ambientalisti, abbiamo appreso l'importanza cruciale di un tema post-materialistico come quello della qualità: della vita come dello sviluppo, non in opposizione, ma certo a completamento e a necessaria integrazione della cultura quantitativa dominante nella modernità.
Dalla riflessione cristiana sulla politica, abbiamo mutuato la cultura del limite della politica stessa, la consapevolezza che alla politica è preclusa l'ambizione di liberare il mondo e la storia dal male, dalla violenza, dal dolore; e che solo una politica consapevole di questo limite radicale può limitare il male, la violenza, il dolore del mondo e non accrescerlo e moltiplicarlo.
Qualcuno ha voluto vedere in questa nostra pluralità di storie e di culture una rinata volontà egemonica, il riemergere di tentazioni annessionistiche o anche, più semplicemente, un'istanza contraddittoria con lo spirito di coalizione che deve sostenere il nostro impegno per un centrosinistra rinnovato e strutturato.
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Chi leggerà, un giorno, la storia di quegli anni, incontrerà un Paese capace di risollevarsi da quella situazione. Incontrerà una nuova classe dirigente, pronta ad assumere su di sé - a parte una parentesi, per fortuna di pochi mesi - tutte le necessarie responsabilità. Leggerà di persone competenti, interessate al bene comune, al lavoro nei governi guidati da Giuliano Amato, da Carlo Azeglio Ciampi, da Lamberto Dini.
Leggerà di uomini che hanno lavorato nelle istituzioni e per le istituzioni, che hanno permesso all'Italia - e il mio pensiero va in primo luogo all'azione svolta nel suo settennato dal presidente Oscar Luigi Scalfaro - di lasciarsi alle spalle, senza dimenticare, anni che sono stati tra i più bui della nostra storia. E vedrà, dopo la disastrosa e fallimentare prova del governo Berlusconi - in quegli otto mesi i tassi di interesse salirono di due punti percentuali - l'apertura di una nuova stagione: l'Ulivo, il governo di Romano Prodi, la "moralità" e lo spirito di servizio che hanno animato la sua azione riformista, continuata oggi dal governo D'Alema.
Noi di tutto questo dobbiamo avere consapevolezza ed immenso orgoglio.
La consapevolezza e l'orgoglio che ci derivano dal fatto che è dall'aprile del '96, dalla chiara scelta europea da parte dell'Italia, che si sono aperte, per il Paese, prospettive nuove e positive. Grazie a quella scelta, il deficit pubblico si è ridotto in questi anni dal 7,7 per cento nel 1995 al 2 nel 1999. E il debito dal 125 nel 1996 a meno del 116 per cento del Pil nel 1999.
Grazie a quella scelta, i tassi d'interesse sono scesi di sei punti. Solo quattro anni fa le banche prestavano il denaro a tassi dell'11 per cento. Oggi, i tassi sui prestiti sono vicini al 5 per cento. Grazie a quella scelta, oggi l'Italia fa parte di una grande area monetaria integrata ed è finalmente libera dalla paura, fino a ieri tutt'altro che infondata, di una catastrofica crisi finanziaria. Grazie a quella scelta, oggi l'Italia ha conquistato un posto da protagonista nel governo europeo, e Romano Prodi, protagonista di quella stagione, è presidente della Commissione europea.
Dall'aprile del '96, le imprese italiane hanno risparmiato oltre 50 mila miliardi di lire per minori oneri di indebitamento. E i profitti delle più grandi società sono aumentati di oltre 30 mila miliardi.
Contrariamente a quanto sostiene la propaganda della destra, il centrosinistra ha realizzato una politica di progressiva riduzione del carico fiscale sulle imprese: in base ai dati Mediobanca, l'aliquota fiscale media effettiva sul reddito d'impresa è scesa, nell'ultimo triennio, di ben 14 punti.
Il risanamento finanziario ha così creato tutte le condizioni favorevoli per spostare risorse dalla rendita agli investimenti, non solo nel bilancio pubblico - dove la spesa per interessi è scesa di ben 50 mila miliardi all'anno - ma anche in quelli di tutte le aziende italiane.
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Per noi la flessibilità è una opportunità con cui fare i conti, per farne aumento di occupazione e non di sfruttamento. L'incremento dei posti di lavoro è un primo risultato significativo. E continuo a pensare che per un giovane, per la sua condizione di vita materiale, un lavoro flessibile sia comunque un'opportunità preferibile alla disoccupazione.
Ma so che questo non basta.
Perché la flessibilità non deve essere solo del lavoro, ma anche delle organizzazioni, delle imprese, dei tempi. E su queste dimensioni della flessibilità il sistema Italia è ancora indietro.
Perché questa nuova occupazione pone anche problemi inediti. Essa potrebbe velocemente scomparire, così com'è nata, all'invertirsi del ciclo congiunturale, e quindi propone con più forza l'obiettivo di raggiungere una più solida crescita economica.
Nasconde in alcune fasce, aree di precariato e di nuovo sfruttamento.
Riguarda in larga misura giovani che entrano sul mercato del lavoro e vi restano per molti anni con un regime di garanzie e di coperture molto diverso, e più ridotto, di quello di cui usufruiscono lavoratrici e lavoratori di altre generazioni. Potrebbe ridurre gli incentivi all'investimento sul capitale umano, da parte sia delle imprese che dei lavoratori, con gravi rischi di caduta della qualità produttiva.
Infine, sappiamo che la flessibilità, da sola, non è stata e non sarà sufficiente a ridurre il dramma della disoccupazione nelle regioni in cui il basso livello dell'occupazione dipende da fattori di arretratezza strutturale.
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Al contrario dell'on. Berlusconi, che quando parla di giustizia è preoccupato solo di se stesso e dei suoi amici, per noi la questione della giustizia significa anche tre milioni di cause civili ancora pendenti, significa i problemi di quei semplici cittadini di cui non parlano le prime pagine dei giornali, che conoscono sulla propria pelle cosa significa inefficienza. Per questo abbiamo votato il giudice unico, per questo la depenalizzazione sui reati minori, per questo sono primo firmatario della proposta di riforma dell'istituto del gratuito patrocinio per i meno abbienti. Ma c'è un altro aspetto su cui vorrei avanzare una proposta.
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E' Berlusconi, il problema.
E' quell'impasto di demagogia e populismo, di liberismo selvaggio e vecchia politica che ha progressivamente mutato l'identità di Forza Italia da soggetto che voleva presentarsi come fattore di innovazione a principale partito della restaurazione. Il vecchio dell'Italia è abbarbicato lì. E il furore, l'odio, l'aggressione nei confronti dei propri avversari politici lo dimostra. E' vero, non si fanno gli schieramenti contro. Per averlo detto, nel '95, e per avere sostenuto che gli avversari si sconfiggono sul piano politico e non su quello giudiziario, mi sono meritato la patente di "buonista".
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Altro è il discorso sui referendum in materia sociale.
Il nostro No a questi quesiti sarà altrettanto convinto del Sì al quesito antiproporzionale.
E' una diversa idea di libertà quella che ci distingue dai promotori di questi referendum. Ha detto bene Mino Martinazzoli: "la libertà ha a che fare con i diritti civili ma anche con i diritti sociali".
Noi non riusciamo a considerare libertà quella di essere licenziati senza preavviso e senza motivo, o quella di dover fare a meno del sindacato, quella di trasferire per intero al mercato funzioni sociali delicate come lasanità e la sicurezza sul lavoro.
Per noi queste non sono libertà: non lo sono dal punto di vista dei lavoratori, ma neanche dal punto di vista delle imprese. Non è certo sulla precarizzazione diffusa del lavoro che l'Italia potrà basare quella strategia di investimenti in qualità senza di cui le nostre produzioni non potranno risultare competitive sui mercati internazionali.
E non è sullo smantellamento del sindacato confederale che l'Italia potrà costruire una moderna regolazione del conflitto sociale. Basti pensare a cosa sarebbe stato del nostro Paese in questi anni, dal 1992 ad oggi, se non ci fosse stato il sindacalismo confederale con il suo coraggioso riformismo, se non ci fosse stata la concertazione.
L'Italia non ce l'avrebbe fatta a riagganciare l'Europa.
Voglio dirlo con chiarezza: un colpo a questo sindacato sarebbe un colpo alla stabilità e al futuro dell'Italia.
Sono convinto che il sindacato saprà rispondere alla sfida dei referendum sociali. E saprà farlo con tanta più autorevolezza, quanto più avanzerà il processo, oggi giunto a un punto critico, di costruzione dell'unità.
La sinistra riformista non andrà, non deve andare a questa sfida su posizioni conservatrici.
Diciamo no allo smantellamento di conquiste sociali fondamentali con tanta più forza perché su nodi fondamentali come la sanità pubblica e la flessibilità stiamo facendo riforme giuste e moderne.
Ed altre - è un impegno che chiediamo ai nostri parlamentari - potranno intervenire su materie investite da questi referendum.
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L'Ulivo, il centrosinistra, sono per noi l'alleanza del presente e del futuro.
Le culture del riformismo italiano devono celebrare un patto di dieci anni. Stiamo insieme, ciascuno con la sua identità, perché siamo tutti Consapevoli che la costruzione di una casa comune dei riformisti non necessariamente coincide con un solo partito. Io voglio dire una parola chiara. Stiamo parlando di una coalizione, di una alleanza tra diversi.
Non della riduzione ad uno, in un solo partito, di diversità politiche e culturali che oggi esistono, ci piaccia o no. Lo stesso no al partito unico lo hanno detto nei giorni scorsi tutti i leader della maggioranza: da Castagnetti a Parisi, da Francescato a Cossutta e agli altri. Dunque non di questo si parla. Ho letto l'intervista di Arturo Parisi. Vorrei capire meglio. Se l'invito rivolto ai Ds è a sciogliersi, la risposta è, ovviamente, chiaramente e semplicemente, no.
Se invece la riflessione dei Democratici è giunta a far maturare una disponibilità a costruire insieme una più grande forza del riformismo e della sinistra italiana, analoga per dimensioni elettorali e culture politiche alle forze leader del centrosinistra in Inghilterra, in Francia, in Germania, o in Portogallo, io altrettanto ovviamente, chiaramente e semplicemente, dico: siamo disponibili.
Per noi c'è però una condizione chiara e persino ovvia. Anche la politica è ormai davvero globale. I partiti solo nazionali sono piccola e insufficiente cosa.
Dove si collocherebbe, in Europa, questa forza politica?
C'è una sola formazione politica europea nella quale abitano le forze che stanno, senza equivoci, con il centrosinistra. E' il socialismo europeo, è l'Internazionale socialista..
E' quella la nostra casa. E' la stessa casa del laburista Blair, del cristiano-sociale Guterres, di Jospin e di Schroeder. Lì noi siamo, lì noi saremo. Anche perché, pure per merito della nostra iniziativa, è un luogo politico che si sta aprendo positivamente al dialogo e all'incontro con le altre culture del riformismo.
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Ma il problema politico è un altro. E' la collocazione di Rifondazione.
Io sono tra coloro che ritengono che in Italia, come nel resto d'Europa, esistono due sinistre. Una riformista e una legata a posizioni più estreme. Queste due sinistre possono scontrarsi o convivere. In Francia coabitano nella stessa coalizione, in Germania e in Portogallo sono una al governo e l'altra all'opposizione.
Per me il dialogo con Rifondazione prosegue.
Ma una cosa è certa: d'ora in poi gli accordi possono essere solo accordi programmatici chiari, che impegnino chi li sottoscrive a condividerli per una legislatura. Come stiamo positivamente facendo in diverse regioni italiane. Su questa strada, l'unica seria, il dialogo è possibile. Il nuovo centrosinistra sarà un'alleanza di forze dinamiche, con le radici ben innestate nella società italiana.(...)
Questo congresso, dieci anni dopo, definisce una idea di partito nuova, in sintonia con la linea e la cultura che incarniamo.
1. La novità più importante è che oggi siamo finalmente il partito italiano con la maggior presenza di donne in tutti i suoi organismi. Ora la nostra costituzione, e le sanzioni per chi non le rispetterà, impongono che nessun sesso possa essere rappresentato con meno del 40%. Nelle liste, negli organismi dirigenti. E già questo congresso, pure svoltosi prima del nuovo statuto, è composto dal 10% in più di delegati donne, quasi il 35% della platea.
E' il risultato del lavoro delle nostre compagne. Ma anche, fatemelo dire, di un gruppo dirigente convinto di questa scelta.2. Ci siamo impegnati per rovesciare la piramide, per modellare un partito a rete e una struttura più orizzontale, mettendo in connessione tra loro diverse esperienze, diverse associazioni tematiche, diverse parzialità, capovolgendo il rapporto tra iscritti e partito, valorizzando veramente il ruolo delle sezioni, per ridare ai nostri iscritti ed elettori non soltanto la parola, ma la capacità di incidere sulle
scelte e di decidere, con i referendum e la conferenza programmatica annuale.3. Un'altra novità è la proposta di far scegliere agli iscritti che partecipano ai congressi il segretario del partito.